Marco Invernizzi, Cristianità n. 396 (2019)
L’Europa nel magistero pontificio
1. Le origini dell’Unione europea dopo la Seconda Guerra Mondiale
La Santa Sede ha sempre guardato con favore al processo d’integrazione delle nazioni europee in una unione europea — federazione o confederazione di Stati — già a partire dal magistero del venerabile Pio XII (1939-1958), di san Giovanni XXIII (1958-1963) e, infine, di san Paolo VI (1963-1978) (1). Quando, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale (1939-1945), vengono compiuti i primi passi in questa direzione da tre statisti di religione cattolica, il tedesco Konrad Herman Josef Adenauer (1876-1967), il francese Jean-Baptiste Nicolas Robert Schuman (1886-1963) e l’italiano Alcide De Gasperi (1881-1954), la Santa Sede accompagna con favore questo tentativo di cooperazione, che comincia con un accordo concreto in materia economica, nel 1951, fra i principali Paesi europei e i tre uomini politici ricordati, dal quale nasce la Confederazione Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA).
Alla luce di quel che abbiamo visto accadere e che soltanto oggi possiamo giudicare, è come se il processo di unificazione europea sia andato avanti attraverso due itinerari paralleli, aventi in comune il progetto di costituire un mercato unico che aumentasse la competitività del continente europeo di fronte ai grandi colossi economici mondiali, come gli Stati Uniti d’America e la Repubblica Popolare Cinese, ma anche a suo tempo l’Unione Sovietica, e ora la Federazione Russa, la Repubblica Federale del Brasile, la Repubblica dell’India, rappresentanti di quelle civiltà emergenti dopo il 1989, come spiegato nel libro Lo scontro delle civiltà (2). Ma mentre la Santa Sede aveva in mente una Europa fedele alle proprie radici, i principali Stati che la componevano ne avevano in mente un’altra, diversa e più o meno ostile a queste radici. La storia di chi ha fatto l’Europa — o cercato di fare — opponendola al magistero sull’Europa di san Giovanni Paolo II (1978-2005) andrebbe scritta e spiegata ai posteri.
Il Papa polacco esprime il suo apprezzamento per le istituzioni europee già all’inizio del pontificato, quando l’Europa è ancora divisa dalla Cortina di Ferro. Siamo nel 1983 e il Papa individua alcuni nodi che accompagneranno il progetto di unione europea: «L’Europa che voi rappresentate corrisponde a Paesi di lunga tradizione cristiana; si potrebbe anche dire che, per la maggioranza, la loro storia nazionale si è quasi confusa fino ad oggi con la storia cristiana. Come non augurare che l’Europa dia a questo proposito una testimonianza originale, a tutti i livelli, ivi compreso quello della democrazia di cui ho poco fa parlato? La democrazia non ricerca un egualitarismo che livella tutto, ma il rispetto delle persone, dei loro diritti fondamentali, della loro libertà, restando attenta al ruolo primario delle famiglie e dei corpi intermedi, e mantenendo ugualmente la preoccupazione di superare gli interessi particolari quando è in gioco il bene comune» (3).
Nello stesso discorso il santo Pontefice ricorda che si deve sempre avere cura di mantenere l’equilibrio fra l’identità degli Stati nazionali — e, soprattutto, dei rispettivi popoli — e il compito delle istituzioni europee, che nascono per avvicinare senza annullare le diversità, per favorire processi di pace dopo i due terribili conflitti che hanno devastato il Vecchio Continente. È un tempo in cui il conflitto interno all’Europa è prevalentemente politico, legato al tema comunismo-anticomunismo, anche se in Italia sono già state introdotte le leggi su divorzio (1970) e aborto (1978) con i relativi referendum abrogativi, che le hanno confermate nel 1974 e nel 1981, anticipando quel cambiamento che si manifesterà dopo il 1989, quando alla «questione sociale» o ideologica subentrerà, come lettura dominante della storia, la «questione bioetica» o antropologica. Diventeranno, cioè, centrali le domande relative alle caratteristiche fondamentali della persona e alla biosfera. Il diritto naturale, un tema abitualmente presente nei discorsi pontifici prima del 1989, diventerà oggetto dell’attacco culturale portato dai sostenitori dei cosiddetti «nuovi diritti» e dalle forze politiche che a livello europeo ne faranno la loro bandiera.
Nel mutato contesto culturale e politico, il magistero di Giovanni Paolo apprezza i primi passi del Mercato Unico Europeo e l’Atto Unico Europeo (4), e dello stesso Trattato di Maastricht: «Dopo il Trattato di Roma (1957) e gli Accordi di Maastricht (1991), l’Europa ha fatto importanti passi verso la sua unificazione. Tale dato di ordine politico comporta implicazioni molto rilevanti per la vita della Chiesa nel vostro Paese, oltre che in tutta l’Europa. È necessario che i cristiani sappiano cogliere le opportunità offerte dal “kairós” del momento presente e mostrarsi all’altezza delle sfide pastorali emergenti della concreta situazione storica» (5).
Il Papa è consapevole che accanto alla gioia perché molti popoli europei sono ormai liberi dal socialismo reale, compare — o permane — l’apprensione per altri problemi irrisolti, come la crisi economica e il «suicidio demografico» nei Paesi europei, oppure che si presentano per la prima volta, come le guerre nella ex Jugoslavia, l’islamismo radicale e il terrorismo da esso promosso ovunque nel mondo. San Giovanni Paolo II coglie l’opportunità del fatto che l’Europa conosca una stagione felice per la rievangelizzazione dei suoi popoli e per ricuperare l’unità perduta dopo l’avvento della Cortina di Ferro. Un’Europa che può finalmente respirare con entrambi i «polmoni», quello orientale e quello occidentale, ma che vede anche la presenza di forze che vogliono impedire tutto ciò, agendo invece in una prospettiva di ulteriore scristianizzazione. Lo dice in particolare ai vescovi italiani, nel 1994, nel pieno dello sconvolgimento politico del Paese seguito alla rimozione del Muro e alle inchieste di «Tangentopoli» che eliminano una intera classe politica. E lo dice mettendo in guardia da quelle forze che, all’interno dell’Unione Europea ormai costituita, operano per favorire il processo di allontanamento del continente dalle sue radici cristiane: «Sono convinto che l’Italia come nazione ha moltissimo da offrire a tutta l’Europa. Le tendenze che oggi mirano ad indebolire l’Italia sono negative per l’Europa stessa e nascono anche sullo sfondo della negazione del cristianesimo. In una tale prospettiva si vorrebbe creare un’Europa, e in essa anche un’Italia, che siano apparentemente “neutrali” sul piano dei valori, ma che in realtà collaborino alla diffusione di un modello postilluministico di vita. Ciò si può vedere anche in alcune tendenze operanti nel funzionamento di istituzioni europee. Contro l’orientamento di coloro che furono i padri dell’Europa unita, alcune forze, attualmente operanti in questa comunità, sembrano piuttosto ridurre il senso della sua esistenza e della sua azione ad una dimensione puramente economica e secolaristica» (6).
2. Il ruolo della cultura
San Giovanni Paolo II ricorda l’importanza della cultura per realizzare il progetto di un’Europa unita, non piegata al «politicamente corretto», perché «l’Europa culturale, come sappiamo, è anteriore all’Europa politica ed economica che attualmente è più al centro dell’attenzione» (7).
È bene ricordare che cosa significhi «cultura» per Giovanni Paolo II. Essa non ha nulla di illuministico e di intellettualistico, anche se si serve dei libri come mezzi. «Cultura» per un cristiano significa avere criteri di giudizio della realtà ispirati alla Rivelazione che investano tutta la vita, negli aspetti spirituali come in quelli temporali.
«Alla vigilia del terzo millennio, la missione apostolica della Chiesa la impegna in una nuova evangelizzazione in cui la cultura riveste un’importanza fondamentale. Lo sottolineavano i Padri del recente Sinodo: il numero di cristiani aumenta, ma, al tempo stesso, cresce la pressione di una cultura senza radici spirituali. La scristianizzazione ha generato società senza un riferimento a Dio. Il riflusso del marxismo-leninismo ateo quale sistema politico totalitario in Europa è lungi dal risolvere i drammi che quel sistema ha provocato in tre quarti di secolo. Quanti sono stati colpiti, in un modo o nell’altro, da questo sistema totalitario, i suoi responsabili e i suoi partigiani, così come i suoi avversari più irriducibili, sono diventati sue vittime. Coloro che hanno sacrificato all’utopia comunista la loro famiglia, le loro energie e la loro dignità prendono coscienza di essere stati trascinati in una menzogna che ha ferito molto profondamente la natura umana. Gli altri ritrovano una libertà cui non sono stati preparati e il cui uso resta ipotetico, poiché vivono in condizioni politiche, sociali ed economiche precarie e conoscono una situazione culturale confusa, con il sanguinoso risveglio degli antagonismi nazionalistici» (8).
In sostanza, il Papa ricorda come solo attraverso un legame forte con le radici spirituali dell’Europa sarà possibile offrire una prospettiva all’uomo europeo, «l’Europeo ferito, culturalmente reso più fragile e indifeso» (9) da tante proposte o forse, aggiungo io, dalle «non proposte» del relativismo che domina la post-modernità.
Il Pontefice si rivolge agli studiosi, in particolare a quelli che sono vissuti sotto i regimi del socialismo reale, per chiedere loro di indicare a tutti la strada per costruire l’Europa del futuro: «nuove vie nella fedeltà al patrimonio ereditato dal passato, senza cedere alla nostalgia di un tempo trascorso» (10). Due anni dopo l’abbattimento del Muro e nello stesso anno in cui si sarebbe sciolta l’Unione Sovietica, san Giovanni Paolo capisce che la Chiesa sta vivendo un tempo propizio. «Dopo decenni in cui la menzogna e l’odio hanno regnato, l’Europa aspira ad una civiltà dell’amore e della verità che risponda ai segreti desideri delle anime e le apra alla pienezza di un ideale fraternamente condiviso» (11).
Non che non intraveda i pericoli, ma spera e «spinge» perché il venir meno dell’ideologia comunista in Europa possa diventare l’occasione per la conversione dei popoli e per la costruzione di una unione fedele o almeno rispettosa delle proprie radici.
Trent’anni dopo possiamo dire che le cose non sono andate nella direzione auspicata dal santo Pontefice. Ma vediamo i singoli passaggi.
Intanto, bisogna osservare come san Giovanni Paolo non dimentichi mai altri aspetti problematici, come per esempio l’esistenza dei poveri dentro i confini europei e nel Sud del mondo: «L’Europa non può, in coscienza, arrestare lo slancio di solidarietà ai confini delle sue proprie terre. Vi sono certamente delle urgenze, delle legittime priorità, ma queste devono essere individuate tenendo conto di quello che noi abbiamo chiamato “l’opzione preferenziale per i poveri”, “una forma speciale di primato nell’esercizio della carità cristiana” (Sollicitudo rei socialis, 42)» (12).
3. L’Assemblea speciale per l’Europa del Sinodo dei Vescovi (1991)
Nel dicembre del 1991, il Papa convoca i vescovi europei in un Sinodo che, dopo la fine dei regimi comunisti, li veda finalmente tutti presenti, quelli occidentali come quelli orientali. È un momento di grande speranza per il futuro della Chiesa. Nell’allocuzione finale il Pontefice, sempre attento alla storia e alle sue ricorrenze, ricorda come il Sinodo sia stato annunciato a Velehrad, in Moravia, il 22 aprile del 1990, e vada letto in due direzioni. La prima rivolta al passato, segnata dalla proclamazione dei santi Cirillo (826/827-869) e Metodio (815/825-885) a co-patroni d’Europa insieme a san Benedetto, che riporta l’attenzione al primo millennio della storia europea, quando la Chiesa e l’Europa erano ancora unite e respiravano con i due «polmoni», occidentale e orientale.
La seconda direzione guarda invece al Terzo Millennio, allora imminente, nel quale la Chiesa entra divisa ma desiderosa di ritrovare l’unità «mediante il dialogo ecumenico» (13). «Il filo conduttore dei nostri lavori è stato la libertà» (14) dice il Papa, facendo inevitabilmente riferimento a quella riconquistata dai popoli nel 1989 e ai martiri, anche quelli della Chiesa ortodossa colpita specialmente dalla Rivoluzione bolscevica del 1917, che Giovanni Paolo II ricorda con commozione.
Ma «[…] il filo conduttore del nostro Sinodo ci spinge a rileggere tutta la verità sull’uomo, così come essa è stata ricordata dal Concilio Vaticano II. Cristo infatti “svela… pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione” (Gaudium et spes, 22)» (15) e così il Papa lega il tema dell’evangelizzazione a quello dell’antropologia.
In questa circostanza Giovanni Paolo è veramente profetico. La libertà ritrovata dai popoli dell’Europa orientale è una grande occasione per l’evangelizzazione dell’Europa, quella «nuova evangelizzazione» che diventa il motivo di fondo della seconda parte del suo pontificato (16). Tuttavia, la nuova evangelizzazione si scontrerà con la «rivoluzione dei diritti», cioè con quella rivoluzione antropologica che sulla scia del Sessantotto diventa la questione dominante in Occidente: «Nell’attuale tappa della storia l’evangelizzazione deve prendere, come proprio compito, questa verità sull’uomo superando le diverse forme della “riduzione antropologica”. Questo è particolarmente attuale nel nostro continente» (17).
La «riduzione antropologica» diventerà sempre più l’ostacolo per la nuova evangelizzazione e con essa dovrà sistematicamente confrontarsi il magistero petrino. «Riduzione antropologica» significa che, dopo l’attacco alla Chiesa e agli assetti politici e sociali dell’Europa con le tre rivoluzioni «classiche» della storia europea, adesso è l’uomo europeo nel mirino del processo rivoluzionario. Se la Riforma aveva diviso la Chiesa e la cristianità europea lacerandola ulteriormente con le guerre di religione, se la Rivoluzione francese aveva espulso la religione dalla vita pubblica e avviato il conflitto fra Chiesa e Stato nei Paesi occidentali e il socialcomunismo aveva tentato di costruire un mondo dominato dallo Stato, senza proprietà e senza libertà, adesso era venuto il tempo dell’individuo, che in nome di presunti «diritti» avrebbe messo in discussione la sua natura di persona creata a immagine e somiglianza di Dio.
E mentre l’Europa aspirava all’unificazione, metteva sempre più in discussione i soli fondamenti antropologici capaci di tenere insieme i suoi popoli, nel rispetto delle loro identità: «In questa Europa che aspira alla sua unità — osservava san Giovanni Paolo II nell’omelia della Messa conclusiva del Sinodo, il 14 dicembre —, vi sono tante inquietudini. Vi sono tante minacce e tensioni attuali e potenziali, che spingono nel senso contrario a quello voluto da Cristo» (18).
Vi è anche il problema del pluralismo delle culture europee.
Le culture in Europa sono tante e diverse e la costruzione dell’unità europea non può prescindere da questo principio. Altrimenti si commetterebbe lo stesso errore dell’unificazione italiana, che disprezzò le diversità culturali dei popoli e creò quel «mostro», anzitutto culturale, che è lo Stato nazionale italiano. «Per la prima volta dal crollo della grande muraglia ideologica e poliziesca che ha tragicamente diviso l’Europa, voi ci portate l’esperienza di culture, di civiltà e di tradizioni spirituali, liturgiche, teologiche, filosofiche, artistiche o letterarie, diverse e complementari» (19).
Si tratta di un pluralismo — non ideologico come quello che contrappose senza possibilità di un vero dialogo la Chiesa al marxismo — ma fondato sulla presenza in Europa di culture diverse che possono però reciprocamente arricchirsi.
Era il 1991, erano passati solo due anni dall’abbattimento del Muro di Berlino, eppure l’entusiasmo cominciava già a spegnersi. La storia non soltanto non era finita, ma non avrebbe smesso di ostacolare l’affermarsi della verità sull’uomo, con la riduzione antropologica, con il rinascere dei nazionalismi che già negli anni 1990 avrebbero insanguinato la ex Jugoslavia per un decennio, con il fondamentalismo terroristico che dieci anni dopo, l’11 settembre 2001, avrebbe colpito a New York le Torri Gemelle, infine con l’ideologia del gender che arriva a mettere in discussione la stessa identità sessuata della persona.
Naturalmente queste realtà condizioneranno il cammino verso l’unione europea. Quest’ultimo sfociò, il 29 ottobre 2004, nella firma, a Roma, del Trattato con cui l’Europa adottò una costituzione, comunemente nota come Costituzione Europea. Proprio in questo periodo emerse il rifiuto di accogliere la richiesta — da parte di numerosi delegati della Convenzione riunita per elaborarla — di includere, almeno nel preambolo della Carta, un qualche riferimento a Dio e al cristianesimo o alla tradizione giudeo-cristiana. Tutte e tre le proposte vennero rifiutate.
Il processo di ratifica della Costituzione venne, tuttavia, interrotto il 29 maggio 2005 con un referendum popolare in cui il 54,7% dell’elettorato francese scelse di non sottoscrivere il Trattato; pochi giorni dopo, il 1º giugno, anche la popolazione dei Paesi Bassi si dichiarò contraria all’introduzione del Trattato con il 61,6% dei voti. Sebbene diciotto Stati membri avessero recepito il documento, prevalentemente per via parlamentare, la Costituzione europea non entrò in vigore.
Dopo un «periodo di riflessione» durato due anni, la cancelliera tedesca Angela Merkel decise di rilanciare il processo di riforma con la Dichiarazione di Berlino del 25 marzo 2007, in occasione dei cinquant’anni dell’Europa unita, in cui venne espressa la volontà di sciogliere il nodo entro pochi mesi al fine di consentire l’entrata in vigore di un nuovo trattato nel 2009, anno delle elezioni del nuovo Parlamento europeo.
Si svolse, così, sotto la presidenza tedesca dell’Unione il vertice di Bruxelles, svoltosi fra il 21 e il 23 giugno 2007, nel quale si arrivò a un accordo sul nuovo trattato di riforma. L’accordo recepiva gran parte delle innovazioni contenute nella cosiddetta Costituzione, anche se con alcune modifiche al fine di rendere meno evidente il carattere per così dire «costituzionale» del vecchio testo, pur ribadendo pressoché tutti i meccanismi introdotti con il predetto testo, e in più aggiungendovi la facoltà per alcuni Paesi di «chiamarsi fuori» da politiche comuni.
Dopo la conclusione della conferenza intergovernativa che finalizzò il nuovo testo, il trattato di Lisbona venne approvato al Consiglio europeo del 18 e 19 ottobre 2007 proprio in tale città e firmato il 13 dicembre dai capi di Stato e di governo. Il trattato è stato ratificato da quasi tutti gli Stati firmatari, prevalentemente per via parlamentare, nel corso del 2008.
4. La nuova evangelizzazione
Che fare dunque? Il Papa era convinto che gli europei fossero interrogati da «[…] un appello a un progetto che il Signore ci chiede di avviare in questa Europa sconvolta dalle crisi etniche, politiche ed economiche, dal repentino riflusso di ideologie che sembravano onnipotenti e dal vuoto che rischia di crearsi negli spiriti indifesi. I cristiani devono seguire la via del Vangelo: essere in questo mondo, ma non di questo mondo (cf. Gv 17, 14), essere testimoni della Verità» (20).
Il progetto aveva e ha un nome, «nuova evangelizzazione»: «La nuova evangelizzazione dell’Europa è un’impresa lunga e ardua che esige dai cristiani l’eroismo della santità» (21).
Questo progetto ha come scopo quello di riannodare i due polmoni d’Europa nel comune rispetto dell’eredità cristiana ricevuta e nella comune consapevolezza che «la cultura europea non potrebbe essere compresa fuori dal riferimento al Cristianesimo» (22).
Bisogna tuttavia avere la consapevolezza, aggiungeva il Papa, che la nuova evangelizzazione avrebbe incontrato ostacoli, come è sempre stato del resto nella storia della Chiesa. «Per quanto riguarda, invece, l’Europa, è noto che, nel secolo presente, essa è stata attraversata da forti correnti di “contro-evangelizzazione”. Anche se nella loro forma più radicale queste correnti oggi sono diminuite, esse, però, non cessano affatto di operare soprattutto nell’ambito dei principi, anche in modo sistematico. Siccome lo costatiamo dappertutto, occorre che da parte della Chiesa si rinnovi e rafforzi la disponibilità a dare una testimonianza coerente in favore di Cristo, “che è lo stesso ieri, oggi e sempre…”» (23).
Verso il termine del proprio pontificato san Giovanni Paolo II tracciò un bilancio del suo rapporto con l’Europa nell’esortazione apostolica Ecclesia in Europa del 2003, successiva al secondo Sinodo dei vescovi europei tenutosi nel 1999.
«Tra i tanti aspetti, ampiamente richiamati anche in occasione del Sinodo, vorrei ricordare lo smarrimento della memoria e dell’eredità cristiane, accompagnato da una sorta di agnosticismo pratico e di indifferentismo religioso, per cui molti europei danno l’impressione di vivere senza retroterra spirituale e come degli eredi che hanno dilapidato il patrimonio loro consegnato dalla storia. Non meravigliano più di tanto, perciò, i tentativi di dare un volto all’Europa escludendone la eredità religiosa e, in particolare, la profonda anima cristiana, fondando i diritti dei popoli che la compongono senza innestarli nel tronco irrorato dalla linfa vitale del cristianesimo» (24).
Certamente si poté parlare per la seconda volta di una «crisi della coscienza europea» (25), tanto più sorprendente perché arrivava al termine di un pontificato straordinario e missionario, guidato da un Pontefice che venne universalmente «canonizzato» subito dopo la morte. Inoltre, era chiaro il riferimento al tentativo in corso di realizzare l’unione europea senza il cristianesimo e contro lo sforzo del Papa di dare un’anima all’Europa.
L’analisi del Papa era molto precisa e la crisi descritta con esattezza nelle sue conseguenze: disperazione, solitudine, rancore, divisioni, razzismi, consumismo, ateismo pratico, tutti sintomi di una malattia che aveva alla sua origine quel riduzionismo antropologico di cui ho già detto.
Il rimedio era la fede in Cristo, che poi è la vera cosa importante che la Chiesa, e solo Lei, può offrire agli europei.
Ma la disperazione è una tentazione alla quale bisogna rispondere, con l’appello conclusivo del secondo Sinodo dei Vescovi europei: «La grave situazione di indifferenza religiosa di tanti europei, la presenza di molti che anche nel nostro Continente non conoscono ancora Gesù Cristo e la sua Chiesa e che ancora non sono battezzati, il secolarismo che contagia una larga fascia di cristiani che abitualmente pensano, decidono e vivono “come se Cristo non esistesse”, lungi dallo spegnere la nostra speranza, la rendono più umile e più capace di affidarsi solo a Dio. Dalla sua misericordia riceviamo la grazia e l’impegno della conversione» (26).
5. La missione è il rimedio
«Chiesa in Europa, la “nuova evangelizzazione” è il compito che ti attende! Sappi ritrovare l’entusiasmo dell’annuncio. Senti rivolta a te, oggi, in questo inizio del terzo millennio, l’implorazione già risuonata agli albori del primo millennio, allorché apparve in visione a Paolo un macedone che lo supplicava: “Passa in Macedonia e aiutaci!” (At 16, 9). Anche se inespressa o addirittura repressa, è questa l’invocazione più profonda e più vera che sgorga dal cuore degli europei di oggi, assetati di una speranza che non delude. A te questa speranza è stata data in dono perché tu la ridonassi con gioia in ogni tempo e ad ogni latitudine. L’annuncio di Gesù, che è il Vangelo della speranza, sia quindi il tuo vanto e la tua ragion d’essere. Continua con rinnovato ardore nello stesso spirito missionario che, lungo questi venti secoli e incominciando dalla predicazione degli apostoli Pietro e Paolo, ha animato tanti Santi e Sante, autentici evangelizzatori del continente europeo» (27).
Per muovere i cuori e per invitarli a operare bisogna che qualcosa li convinca e li spinga ad agire. Queste mozioni dello spirito vengono certamente dalla Grazia divina, ma il compito degli uomini è quello di creare le condizioni affinché la Grazia possa più facilmente operare. Questo è il nostro compito, di cattolici e di europei, che vogliono una casa comune rispettosa della propria storia. Ma affinché questa casa possa vedere la luce prima dell’azione politica occorre l’azione culturale: gli uomini possono costruire un profilo istituzionale solo su un terreno già preparato dalla semina di una cultura (28). Una cultura non qualsiasi, ma quella che fece l’Europa: «La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma — dall’incontro tra la fede in Dio di Israele, la ragione filosofica dei Greci e il pensiero giuridico di Roma. Questo triplice incontro forma l’intima identità dell’Europa» (29).
A ragione Papa Francesco spiega che ci vuole qualcosa che stimoli e risvegli un giovane e lo spinga a operare, altrimenti senza un grande ed entusiasmante ideale anche l’Europa diventerà soltanto la ricerca di un business migliore dell’attuale: «Un’Unione Europea che, nell’affrontare le sue crisi, non riscoprisse il senso di essere un’unica comunità che si sostiene e si aiuta — e non un insieme di piccoli gruppi d’interesse — perderebbe non solo una delle sfide più importanti della sua storia, ma anche una delle più grandi opportunità per il suo avvenire» (30).
7. Ma come fare tutto ciò? La proposta di Joseph Weiler
Una suggestione mi viene da un intellettuale ebreo statunitense, che scrisse cose che ebbero un certo risalto durante le polemiche per la mancanza di ogni riferimento al cristianesimo nel Preambolo della costituzione europea ma che poi non ebbero più seguito (31).
Joseph Halevi Horowitz Weiler scrive giustamente che a proposito di Europa sono state dedicate tante pagine e parole ai mezzi di integrazione del continente e poco o niente ai fini, al perché e al che cosa si debba intendere per «Europa». Se si tratta dei contenuti, dei fini e del perché, inevitabilmente emerge la necessità del riferimento al cristianesimo: «Nel discutere il processo decisionale europeo si parla fino alla nausea di deficit democratico. A proposito del processo intellettuale europeo, quello che dovrebbe disegnare i vari futuri possibili dell’Europa, sembra opportuno parlare di un deficit cristiano. Il pensiero cristiano fa parte del patrimonio europeo per credenti e non credenti, cristiani e non cristiani, allo stesso modo. Una voce che può essere contestata, sicuramente. Che può essere discussa, naturalmente. Che può essere rigettata, certamente: dopotutto viviamo in una democrazia. Ma la sua assenza ci impoverisce tutti» (32).
Quindi ancora oggi e soprattutto oggi, di fronte al fallimento del progetto europeo senza cristianesimo, bisogna tornare a parlare delle radici cristiane dell’Europa, e in particolare porre attenzione agli europei, soprattutto ai giovani, perché crescano con queste radici o le riconoscano qualora le avessero perdute.
Ma Weiler compie un passaggio in più, forse perché ebreo e quindi libero dal rispetto umano dei cristiani di oggi. Propone come viatico per l’Europa una enciclica politicamente scorretta che san Giovanni Paolo scrisse nel 1990, anni prima che si aprisse il dibattito sull’Europa. Si tratta di Redemptoris missio (33), sul dovere missionario dei cristiani e sulla natura missionaria della Chiesa. Apparentemente il documento non ha nulla a che fare con l’Europa, anzi potrebbe essere malissimo accolta dal multiculturalismo dominante il pensiero europeo, che mette religioni e culture tutte sullo stesso piano, non in quanto al riconoscimento pubblico, ma alla sostanza. L’enciclica Redemptoris missio invece, sostiene Weiler, proprio perché afferma che il cristiano deve annunciare Cristo come solo Salvatore a tutti gli altri uomini, riconosce e rispetta l’identità dell’altro, appunto perché vuole comunicargli quello che ha di più importante e di salvifico: la fede in Gesù Cristo. Si tratta di un’enciclica che supera l’indifferentismo, che mette in primo piano valori come la verità e la salvezza, e soprattutto che valorizza l’amore per il prossimo nella misura in cui al prossimo si desidera dare la cosa più bella e preziosa che si possiede.
Una riflessione che ci aiuta e ci incoraggia a essere più cristiani e più missionari. Che questo appello venga dagli scritti di un intellettuale di fede ebraica mi sembra un segno da non trascurare.
Marco Invernizzi
Note:
(1) Cfr. Pietro Conte (a cura di), I Papi e l’Europa. Documenti (Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI), introduzione di Giovanni Battista Guzzetti (1912-1996), Elledici, Leumann (Torino) 1978.
(2) Cfr. Samuel P.[hillips] Huntington (1927-2008), Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale. Il futuro geopolitico del pianeta, trad. it., Garzanti, Milano 2000.
(3) Giovanni Paolo II, Discorso ai presidenti dei Parlamenti europei, del 26-11-1983.
(4) Cfr. Idem, Discorso ai membri del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede per la presentazione degli auguri per il nuovo anno, del 16-1-1993.
(5) Idem, Discorso ai presuli della Conferenza Episcopale dei Paesi Bassi in visita «ad limina Apostolorum», dell’11-1-1993, n. 2.
(6) Idem, Lettera ai vescovi italiani circa le responsabilità dei cattolici di fronte alle sfide dell’attuale momento storico, del 6-1-1994, n. 4.
(7) Idem, Discorso agli studiosi europei partecipanti al Simposio pre-sinodale su «Cristianesimo e cultura in Europa», del 31-1-1991, n. 3.
(8) Idem, Discorso alla Plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura, del 10-1-1992, n. 3.
(9) Idem, Discorso agli studiosi europei partecipanti al Simposio pre-sinodale su «Cristianesimo e cultura in Europa», cit., n. 3.
(10) Ibid., n. 4.
(11) Ibid., n. 6.
(12) Idem, Discorso ai partecipanti ad un convegno organizzato dalla commissione degli Episcopati della Comunità Europea su «Economia di mercato in Europa nella prospettiva del 1993», dell’11-10-1991, n. 6.
(13) Idem, Discorso alla conclusione dei lavori dell’Assemblea speciale per l’Europa del Sinodo dei Vescovi, del 13-12-1991, n. 1.
(14) Ibid., n. 2.
(15) Ibid., n. 3.
(16) Cfr. il mio San Giovanni Paolo II. Un’introduzione al suo Magistero, con Prefazione di Livio Fanzaga S.P., Sugarco, Milano 2014.
(17) Giovanni Paolo II, Discorso alla conclusione dei lavori dell’Assemblea speciale per l’Europa del Sinodo dei Vescovi, cit., n. 1.
(18) Idem, Omelia alla celebrazione eucaristica conclusiva dei lavori dell’Assemblea speciale per l’Europa del Sinodo dei Vescovi, del 13-12-1991, n. 4.
(19) Idem, Discorso agli studiosi europei partecipanti al Simposio pre-sinodale su «Cristianesimo e cultura in Europa», cit., n. 2.
(20) Ibid., n. 2.
(21) Ibid., n. 5.
(22) Ibid., n. 3.
(23) Idem, Discorso all’incontro con i Presidenti delle Conferenze Episcopali Europee ad un anno dall’Assemblea speciale per l’Europa del Sinodo dei Vescovi, del 1°-12-1992, n. 3.
(24) Idem, Esortazione apostolica post-sinodale «Ecclesia in Europa» su Gesù Cristo, vivente nella sua Chiesa, sorgente di speranza per l’Europa, del 28-6-2003, n. 7.
(25) Cfr. Paul Hazard (1878-1944), La crisi della coscienza europea, trad. it., UTET. Unione Tipografica Editrice Torinese, Torino 2007.
(26) Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica post-sinodale «Ecclesia in Europa» su Gesù Cristo, vivente nella sua Chiesa, sorgente di speranza per l’Europa, cit., n. 26.
(27) Ibid., n. 45.
(28) Cfr. il mio L’Europa, la cultura e la conversione, in Cristianità, anno XLVII, n. 395, gennaio-febbraio 2019, pp. 3-8.
(29) Benedetto XVI, Visita al Parlamento Federale di Berlino, del 22-9-2011.
(30) Francesco, Discorso ai partecipanti alla Conferenza «(Re)thinking Europe», organizzata a Roma dalla Commissione delle Conferenze Episcopali dell’Unione europea (COMECE) in collaborazione con la Segreteria di Stato, del 28-10-2017.
(31) Cfr. Joseph Weiler, Un’Europa cristiana. Un saggio esplorativo, trad. it., prefazione di Augusto Barbera, Rizzoli, Milano 2003.
(32) Ibid., p. 122.
(33) Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica «Redemptoris missio» circa la permanente validità del mandato missionario, del 7-12-1990.