Marco Invernizzi, Cristianità n. 122-123 (1985)
La straordinaria testimonianza di una piccola cristianità orientale che — minacciata nella sua fede e nella sua identità culturale — difende con coraggio, in mezzo a mille difficoltà, la propria esistenza.
Nel decennale della resistenza della comunità cristiana
Libano 1975-1985: la croce, il dolore e la speranza
Dopo dieci anni di guerra in Libano nessuno dei problemi che l’avevano causata sembra avere trovato soluzione. Il paese continua a essere teatro dello scontro tra potenze straniere; il suo territorio è occupato dai siriani a nord e nella valle della Bekaa, e percorso da milizie musulmane e palestinesi che si combattono tra loro per assicurare il predominio chi di Damasco, chi di Yasser Arafat. Anche i palestinesi di quest’ultimo sono tornati in Libano, annullando gli effetti della invasione israeliana dell’estate del 1982, mentre aumenta nel paese la influenza dei fondamentalisti islamici ispirati dall’Iran dell’ayatollah Khomeini.
L’enclave cristiana – dopo i successi militari e politici conseguiti a caro prezzo in dieci anni di lotte – è ridotta a un fazzoletto di terra intorno a Beirut Est e sulla Montagna libanese, nonché alla città di Zahle, nella valle della Bekaa, e ad alcuni villaggi nel Nord del paese. Il terrorismo continua a mietere vittime come negli anni in cui il campo-profughi di Tall-Zaatar, trasformato in fortezza militare dai palestinesi, ospitava quelli che avrebbero insanguinato l’Europa con le loro imprese terroristiche. Centomila morti inutili, allora? Oppure il sacrificio di combattenti e di civili, l’agonia di una nazione sconvolta dalla guerra quasi ininterrottamente per dieci lunghi anni, ha trasmesso qualcosa alle intelligenze e ai cuori di quanti hanno voluto in qualche modo capire e partecipare alla tragedia di questo popolo?
La premessa per capire «l’imbroglio libanese» consiste nel conoscerne la storia che precede la cronaca di questi ultimi dieci anni.
Il soggetto principale di questa stona è senza dubbio la Chiesa cattolica maronita, la cui vicenda comincia nel IV secolo con il monaco san Marone, fondatore, a nord della regione di Apamea in Siria, di una comunità monastica che andrà a stabilirsi nel 452 in un monastero fatto costruire nelle vicinanze di Apamea dall’imperatore Marciano. Questo monastero – dedicato a san Marone, scomparso presumibilmente tra. il 405 e il 423 – sarà la culla della Chiesa maronita. La sua storia è contrassegnata da una invincibile fedeltà alla Chiesa di Roma, che comincia a manifestarsi con il concilio di Calcedonia – convocato nel 451 soprattutto per difendere la verità della esistenza in Cristo di due nature, contro la eresia monofisita – senza la quale «non arriveremmo mai a comprendere l’essenza del maronitismo» (1).
La comunità cristiano-maronita – nel corso della sua storia plurisecolare, anche e soprattutto dopo il suo trasferimento sulla Montagna libanese, nel secolo X – dà vita a un sistema teologico e filosofico, che successivamente diventa anche politico e sociale, impregnando di sé un mondo storico e producendo quella che ancora oggi è la civiltà maronita, inscindibile dalla nazione libanese, di cui i maroniti sono considerati la comunità fondatrice.
Per questo motivo si può parlare di «maronitismo politico», che ha permesso alla cristianità libanese di resistere – unica eccezione in tutto il Medio Oriente – ai ripetuti tentativi di islamizzazione: di questo maronitismo politico sembrava particolarmente cosciente Bashir Gemayel, che così lo descrive nel suo discorso-testamento, pronunciato poche ore prima di essere assassinato: «[…] questo maronitismo politico nel quale credono tutti i cristiani del Libano, nel quale credono tutti i cristiani di Oriente quando è all’altezza della sua missione, quando sa ciò che vuole […]. Più nessuno allora può nulla contro di noi, perché siamo la comunità fondatrice, perché questo paese si è costruito sulle libertà e queste libertà le rappresentiamo noi, le difendiamo noi, ne siamo responsabili noi» (2).
La resistenza dei cristiani libanesi
I cattolici maroniti, dieci anni fa, nel 1975, sono stati costretti a difendere anche con la forza la loro identità religiosa, culturale e storica e la stessa esistenza del Libano sovrano e indipendente, prima contro la Organizzazione per la Liberazione della Palestina, l’OLP di Yasser Arafat – che aveva creato uno Stato nello Stato libanese -, poi anche contro la invasione dell’esercito siriano, che mirava al mai dissimulato disegno egemonico della «grande Siria», che prevede l’annessione anche del Libano o, quanto meno, il suo infeudamento.
Per questa decisione, naturale e imprescindibile, senza la quale oggi non esisterebbe più una presenza cristiana libera in Libano, i combattenti cristiani sono stati e vengono ancora attualmente accusati di essere violenti e aggressori per avere combattuto nel loro paese contro alcune organizzazioni terroristiche e contro eserciti stranieri invasori.
«Siamo stati attaccati in quanto cristiani, abbiamo risposto in quanto libanesi», dirà Bashir Gemayel (3) per sottolineare come lo scopo dei cattolici non è stato, fino dall’inizio, quello di pregiudicare la coesistenza con i musulmani, sunniti e sciiti, oppure con i drusi – le due maggiori comunità religiose in Libano oltre a quella cristiana, costituita a sua volta principalmente dai maroniti, ma anche dai greco-cattolici e dagli ortodossi, dai siriaci cattolici e dagli armeni -, ma soltanto quello di liberare il Libano dalla presenza delle organizzazioni terroristiche, in particolare dall’OLP, e dagli eserciti stranieri. Proprio il sanguinoso conflitto che ha visto contrapposti i palestinesi di ogni tendenza agli sciiti del movimento Amal nel maggio del 1985 è la conferma di quanto fosse cruciale, dieci anni fa, il problema sollevato dai cristiani e relativo alla presenza in Libano di circa 600 mila profughi organizzati militarmente dall’OLP di Yasser Arafat.
La presenza palestinese era ed è ancora – infatti, scacciati da Beirut dopo la invasione israeliana del 1982 e successivamente sconfitti anche a Tripoli, oggi i palestinesi sono progressivamente rientrati in Libano – un elemento che stravolge la fisionomia della nazione libanese: per capirne la portata, si immagini che in Italia vi siano dodici milioni di stranieri armati, ubbidienti a leggi proprie, non soggetti a quelle dello Stato, guidati da una classe dirigente socialcomunistica che non ha mai nascosto il proprio obiettivo di fare della nazione che li aveva ospitati «un Libano operaio e rivoluzionario» (4), all’insegna di una caratterizzazione ideologica inequivoca: «il nostro unico emblema è la distruzione, la distruzione totale» (5).
Il 13 aprile 1975
Si arriva così al 13 aprile 1975, data che segna l’inizio della guerra non ancora conclusa. Importa ricostruire i fatti accaduti in quella giornata perché non furono soltanto alla origine immediata della guerra, ma anche di una accurata opera di disinformazione internazionale tesa a descrivere i cristiani come «cattivi» aggressori e i fedayn come povere vittime.
«In questa domenica di primavera, nel quartiere palestinese di Sabra, il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, comando generale – la più estremista fra le milizie, diretta da Ahmed Gibril, dissidente dal Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, di Georges Habache -, organizzò in piena libertà una sfilata militare per “celebrare l’anniversario di Kiryat-Chmoneh, operazione palestinese di sterminio (dell’11 aprile 1974) in un villaggio israeliano. Evidentemente il comando generale voleva affermare la sua forza […]; diverse centinaia di uomini armati erano riuniti. Alla testa del corteo, un pugno di fedayn attirava una numerosa folla: i loro volti erano coperti da una maschera che preservava il loro anonimato”, ha raccontato un testimone (Dominique Baudis, La Passion des chrétiens du Liban, France-Empire 1979).
«Circa nello stesso momento, secondo El-Nahar del 14 aprile 1975, una Volkswagen con la targa coperta passava davanti alla nuova chiesa di Ain-Remmaneh, verso la quale si dirigevano numerosi abitanti del quartiere. Un poliziotto arrestò la misteriosa vettura, da cui uno degli occupanti, per tutta giustificazione della assenza del numero di targa, rispose “Sono un fedayn!” e ripartì.
«Passò poi una Fiat, anch’essa con la targa coperta, dalla quale i passeggeri spararono improvvisamente sui cristiani riuniti davanti alla chiesa o che camminavano nelle vicinanze. Bilancio: quattro morti, di cui due kataeb della guardia del corpo di Pierre Gemayel. Erano circa le undici e trenta. Si possono immaginare il panico, il furore, le persone che corrono in tutte le direzioni, in cerca di soccorsi oppure di armi. Alcuni kataeb spararono, senza attendere, su una vettura palestinese.
«Quando, verso le tredici, un altro veicolo palestinese, un autobus che riportava a Tell-Zaatar alcuni partecipanti alla sfilata di Sabra, attraversò il quartiere che era in piena effervescenza, alcuni cristiani, kataeb oppure no, attaccarono l’autobus con un fuoco nutrito, uccidendo i suoi ventisette passeggeri. La sera, la città era in stato di guerra e una dozzina di morti aveva allungato la lista del mattino. Dopo di allora il Libano ha conosciuto soltanto tregue.
«La prima preoccupazione delle organizzazioni palestinesi è stata quella di nascondere i colpi iniziali contro i cristiani, e di mettere unicamente in luce quelli contro l’autobus, pretendendo che esso trasportasse “uomini disarmati, donne e bambini”. Ora, tutti i testimoni – compresi quelli di certi organismi palestinesi – indicano che l’autobus era occupato solamente da fedayn armati, probabilmente membri di una piccola milizia finanziata dall’Iraq, il Fronte di Liberazione Arabo. Beyrouth, rivista vicina al Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, ha pubblicato, per altro, il 21 aprile 1975, i nomi e le fotografie dei palestinesi uccisi ad Ain-Remmaneh. “Si deve constatare che non vi sono tra i defunti né donne, né vecchi, né bambini” (La Crise libanaise: 1975- 1976, memoria redatta dal ricercatore egiziano-libanese Gabriel Ghanoum, alla Università di Parigi-V, sotto la direzione di Dominique Chevalier)» (6).
Quindi, non un autobus carico di donne e di bambini, come scrisse la stampa di tutto il mondo, ma guerriglieri le cui armi sono conservate nella sede del Kataeb di Beirut, insieme alle copie dei fonogrammi con i quali veniva segnalato il passaggio del pullman con il suo carico da una stazione di polizia all’altra. Sulla base dell’accusa, mai dimostrata, che vuole i cristiani aggressori di donne e di bambini, si è sviluppata una campagna calunniosa, che ancora oggi rimane quasi un luogo comune (7).
La opposizione ai palestinesi sarà soprattutto conseguente alla ferma determinazione delle comunità cristiane di non accettare la creazione di uno stato palestinese all’interno dello Stato libanese, e al rifiuto dell’opera di sovversione socialcomunistica portata dai dirigenti marxisti dell’OLP all’interno della nazione libanese. Gli stessi musulmani libanesi – come apparirà con evidenza negli anni successivi – erano costretti a sopportare nelle loro zone, e particolarmente a Beirut Ovest, il giogo militare e politico dell’OLP, il cui budget, durante la guerra – non lo si dimentichi, perché altrimenti non si capisce la gravità della situazione – era il triplo di quello dello Stato libanese (8); tuttavia, essi non amavano questi padroni stranieri che avevano abusato della ospitalità e della debolezza del Libano.
Le due fasi della guerra
La guerra che comincia il 13 aprile 1975 è sostanzialmente divisibile in due periodi. Il primo di essi – che occupa i primi due anni – vede contrapposti i guerriglieri dell’OLP, sostenuti dalla grande parte dei musulmani e dalla sinistra libanese – tra cui il Partito Comunista locale con le sue milizie -, ai combattenti cristiani che sostituiscono sul terreno militare un esercito privo di una autentica ed efficace direzione politica e che patisce la inevitabile spaccatura confessionale.
In questo periodo nascono e si organizzano le Forze Libanesi, unificate e condotte alle prime vittorie militari da Bashir Gemayel: senza queste milizie oggi non esisterebbe più una comunità cristiana ancora in grado di esprimere pubblicamente la propria fede.
È bene riflettere adeguatamente su questo punto: troppe insinuazioni calunniose sono state riversate, nel corso di questi dieci anni, contro i combattenti cristiani, colpevoli di volere il crocefisso o la effige della Madonna sul calcio del proprio fucile; colpevoli di unire con spontanea continuità esistenziale le giornate di ritiro nei conventi maroniti alle battaglie quasi quotidiane sul terreno militare.
Purtroppo anche il mondo cattolico, per almeno otto anni, non ha colto la strumentalizzazione marxistica dei diritti del popolo palestinese e la loro utilizzazione a danno dei cristiani libanesi, e ha indubbiamente risentito di un complesso d’inferiorità verso la propaganda dominante in Occidente che faceva dei fedayn «eroi senza macchia e senza paura» di una causa comunque giusta.
Non si tratta, evidentemente, di esaltare i combattenti cristiani senza riconoscere i loro eventuali torti, gli eccessi oppure gli abusi presenti in tutte le guerre: si deve, però, prendere atto della giusta causa di una guerra di difesa nazionale e religiosa, senza aspettare i massacri delle popolazioni cristiane di questi ultimi due anni per cominciare a interrogarsi sulle loro motivazioni o per ascoltare le loro ragioni.
Per troppo tempo, infatti, si è cercato superficialmente o maliziosamente di separare il popolo cristiano dai combattenti che lo hanno difeso, quasi come se fosse stato giusto «imporre» il martirio a un popolo pur di non impugnare le odiate armi con cui compiere l’elementare dovere di difenderlo.
La invasione siriana
«[…] la Siria, che era alla origine lontana e prossima di questa guerra, ha lavorato, nel 1975-1976, in funzione di due obiettivi: da una parte, sostenere la Resistenza palestinese impedendole di sfuggire alla sua tutela; dall’altra, convincere i cristiani del Libano che per loro non vi è salvezza al di fuori di una federazione con la Siria» (9).
Così, il primo giugno 1976, l’esercito siriano invade il Libano e contrappone le milizie filosiriane – tra cui l’Armata per la Liberazione della Palestina, l’ALP, che era già entrata il 19 gennaio – ai fedayn di Al Fatah e ai socialisti drusi di Kamal Jumblatt, successivamente assassinato e sostituito dal figlio Walid, vice presidente della Internazionale Socialista.
Bashir Gemayel sarebbe stato disposto a un accordo con le sinistre e con i palestinesi pur di scongiurare la invasione (10), ma i suoi tentativi non trovarono la unanimità neppure tra i cristiani. Ciò dimostra quanto fosse falso che le Forze Libanesi auspicassero un intervento siriano contro i palestinesi, anche se poi approfittarono, sul piano militare, delle divisioni tra le forze nemiche.
Il fondatore delle Forze Libanesi, infatti, era cosciente che la presenza dell’esercito siriano sul suolo libanese non sarebbe stata provvisoria e che questo stesso esercito sarebbe presto diventato il principale nemico delle comunità cristiane.
Nel frattempo le Forze Libanesi si riprendevano dalla sconfitta subita nella battaglia dei «grandi alberghi» nel marzo del 1976, e dal 28 giugno al 6 agosto collezionano una serie di vittorie che permette loro di liberate molte località occupate dall’OLP.
Infine, il 12 agosto, dopo cinquantatré giorni di assedio, viene conquistato anche Tall-Zaatar, il campo-profughi trasformato in fortezza militare dai guerriglieri palestinesi, e tristemente famoso perché in esso furono addestrati terroristi internazionali, tra cui italiani delle Brigate Rosse.
Ma queste vittorie non eliminavano il problema costituito dalla presenza dell’esercito siriano: il ministro degli Esteri della Siria, Abdel-Halim Khaddam, infatti, aveva dichiarato: «Non abbiamo domandato a nessuno l’autorizzazione per entrare in Libano e non domanderemo a nessuno l’autorizzazione per uscirne» (11).
Sarà la Lega Araba, con l’autorizzazione di americani e di sovietici, a sanzionare ufficialmente questa presenza sul suolo libanese, costituendo la Forza Araba di Dissuasione, essenzialmente composta da militari siriani.
La guerra contro la Siria
Dopo avere occupato il Nord del paese e la valle della Bekaa, successivamente l’esercito siriano investe anche la regione di Aley, la periferia di Beirut, il litorale del Metn, la stessa capitale e quindi Sidone e Tripoli. È il novembre del 1976. Contemporaneamente, in sordina, le Forze Libanesi preparano la lotta di liberazione contro il più potente esercito arabo dopo quello egiziano.
Il 7 febbraio 1978 l’esercito siriano comincia a bombardare la più importante caserma di quello libanese, situata a Fayadié, in prossimità del ministero della Difesa; con il pretesto dell’aiuto fornito all’esercito dalle Forze Libanesi, i siriani estendono il bombardamento a tutto il settore orientale di Beirut, dove si trova il quartiere generale delle milizie cristiane.
Così inizia la seconda fase della guerra, che vedrà i cristiani di fronte all’esercito siriano e ai guerriglieri dell’OLP: un periodo, questo, caratterizzato dal tentativo siriano di dividere i cristiani tra loro, sfruttando la disponibilità ad allearsi con gli invasori manifestata da Soleiman Frangie, leader maronita del Nord, che esce dal Fronte Libanese – la espressione politica delle Forze Libanesi, presieduta da Camille Chamoun – per allearsi appunto con i siriani.
A Zghorta, il feudo di Frangie nel Nord del paese, si verificano scontri tra cristiani; in seguito all’assassinio di dirigenti del Kataeb da parte di uomini di Frangie, vi sarà un attacco militare contro la roccaforte della famiglia Frangie condotto dai soldati di Bashir Gemayel, al quale la stampa internazionale attribuirà la responsabilità della morte di Tony Frangie, nonché di sua moglie e di sua figlia. In una intervista a un giornalista francese, Bashir Gemayel – che non era presente ai fatti – condannerà aspramente l’episodio, invitando però a non dimenticare le gravi cause che avevano provocato la reazione dei suoi combattenti (12).
L’aggressione siriana raggiungerà la massima violenza nei cento giorni della estate del 1978, dal 1º luglio alle ore 20 del 7 ottobre, quando entrerà in vigore la risoluzione n. 436 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che prevedeva il «cessate il fuoco» immediato.
L’esercito siriano non riuscirà a essere vittorioso soltanto grazie alla strenua resistenza delle Forze Libanesi, cosa del resto notata da molti esperti stranieri che hanno indicato come fattori decisivi della vittoriosa resistenza la fede dei combattenti e la loro abilità nella guerriglia urbana.
Il 20 ottobre, all’indomani del ritiro delle truppe siriane dalle zone cristiane, Bashir Gemayel dirà ai corrispondenti della stampa estera che, «se i siriani pensavano che distruggendo il Libano ci avrebbero messo in ginocchio, si sono grossolanamente ingannati. È vero che non possiamo sconfiggere l’esercito siriano. Ma è già enorme che la resistenza libanese abbia potuto infrangere il mito della invincibilità dell’esercito siriano. Hanno distrutto delle pietre, ma non la nostra volontà di resistere» (13).
A questo punto, dopo la vittoriosa resistenza contro l’aggressione siriana, per i libanesi si apre un periodo di relativa calma, anche se sarebbe improprio ed eccessivo chiamarla pace.
La resistenza cristiana approfitterà di questo periodo per confermarsi come la forza emergente della nazione, anche dal punto di vista politico.
Si comprenderà allora come la guerra libanese non è mai stata propriamente una guerra civile, ma una guerra rivoluzionaria condotta da potenze straniere presenti direttamente e per procura sul territorio, libanese, che hanno saputo abilmente sfruttare la tensione latente in una nazione composta da diciassette comunità religiose e civili profondamente diverse tra loro.
Contemporaneamente, tra le forze cristiane, Bashir Gemayel e le Forze Libanesi procederanno a una sorta di epurazione di quei numerosi membri che «durante la guerra sono entrati nell’una o nell’altra milizia per motivi iniqui: bisognava liberarsi di questi parassiti» (14).
Ciò spiega gli scontri che vi furono, soprattutto nella estate del 1980, tra le milizie del partito Kataeb e quelle del Partito Nazional-Liberale, il cui esito sarà la completa unificazione dei combattenti cristiani nelle Forze Libanesi sotto la guida di Bashir Gemayel e sotto la direzione politica del Fronte Libanese, presieduto da Camille Chamoun e raggruppante tutti i movimenti e i partiti cristiani, cioè il partito Kataeb, il Partito Nazional-Liberale, i Guardiani del Cedro e i Tanzim.
Oltre alla unificazione politica e militare delle forze cristiane, le Forze Libanesi riusciranno a garantire la sicurezza e una ordinata vita civile ed economica all’interno dei duemila kmq controllati dai cristiani. In questo periodo – vista svanire la possibilità della vittoria militare e di fronte ai progressi organizzativi e politici della Resistenza – gli occupanti siriani e palestinesi intensificano l’uso di metodi terroristici per annientare i dirigenti della Resistenza libanese: in uno di questi attentati, perderà la vita la piccola figlia di Bashir Gemayel, Maya, uccisa il 23 febbraio 1980 a soli diciotto mesi.
Bashir Gemayel presidente della Repubblica
Sarà soprattutto dopo la nuova offensiva dell’aprile del 1981, scatenata dai siriani contro Beirut Est e contro Zahle – la unica città cristiana nella valle della Bekaa, anch’essa occupata dall’esercito siriano – che le Forze Libanesi, e soprattutto il loro fondatore, porranno le basi morali e politiche per legittimarsi alla guida della nazione libanese.
In modo particolare, la eroica difesa di Zahle attirerà finalmente l’attenzione delle diplomazie occidentali e della stampa internazionale sul significato del sacrificio di tanti giovani cristiani, che perdevano la vita per difendere una piccola isola cristiana nel Medio Oriente islamico.
Un colloquio tra Bashir Gemayel e i combattenti assediati a Zahle, poche ore prima che venisse occupata l’ultima strada, che permetteva l’accesso alla città, ci descrive l’alta tensione ideale presente in quei giorni tra le forze cristiane: «Bashir prende il suo telefono ed entra in contatto con i combattenti bloccati a Zahlé: “Avete una sola ora per prendere una decisione storica, dice loro. O restate sul posto, oppure partite perché la strada è ancora sicura soltanto per qualche ora. Se lasciate Zahlé avrete salva la vita, ma la caduta della città sarà sicura. Ciò significherà la fine di una epopea. Se restate, vi troverete senza munizioni, senza medicine, senza pane e forse senza acqua. Avrete la missione di organizzare la resistenza interna, di difendere la Bekaa libanese e il Libano cristiano. Darete anche un senso ai nostri sei anni di guerra. Vi delego i miei poteri affinché decidiate voi stessi ciò che giudicate opportuno. Avrei desiderato essere con voi. Tra morire sotto una granata siriana caduta alla cieca sopra Beirut oppure con le armi in pugno a Zhalé, preferisco la morte in combattimento. Se decidete di restare, sappiate una cosa sola: il soldato di guardia muore ma non si arrende!”. Tutti i combattenti, senza una sola eccezione, decidono di restare». (15).
Nonostante le vittorie militari e la esemplarità morale che le Forze Libanesi avevano acquisito nel popolo, e non soltanto in quello cristiano, Bashir Gemayel era perfettamente cosciente che, senza una congiuntura regionale favorevole – la classica «occasione» offerta dalla storia -, il Libano non avrebbe potuto essere liberato dagli occupanti stranieri.
Questa occasione si presenta con la invasione israeliana nella estate del 1982, la cosiddetta «operazione pace in Galilea». La sconfitta militare subita da siriani e da palestinesi – e la conseguente perdita della possibilità di condizionare la politica libanese – rendeva possibile il libero svolgimento delle imminenti elezioni presidenziali, in cui Bashir aveva posto la propria candidatura. Così, il capo dei combattenti cristiani, nella Beirut assediata dall’esercito israeliano, riusciva a rompere il blocco confessionale della politica libanese, incontrando e guadagnando la fiducia di una buona parte di autorevoli uomini politici musulmani (16).
Così, lunedì 23 agosto 1982, Bashir Gemayel diventava presidente della repubblica con 57 voti su 62 votanti, grazie anche al suffragio di dodici deputati sciiti, di quattro sunniti e di due drusi. Sarà soprattutto nei ventitrè giorni successivi, prima di essere assassinato, che il neo-eletto capo dello Stato riuscirà ad ampliare il suo consenso nelle comunità musulmane, convincendo molti di volere essere il presidente di tutti i libanesi, con uguali diritti e doveri per cristiani e musulmani. Se il timore per la sua elezione non era ancora superato nelle zone musulmane, vi erano molte premesse perché ciò accadesse: si racconta che un musulmano, nei giorni successivi all’assassinio del neo-presidente, avrebbe confidato a un collega cristiano che i suoi correligionari avrebbero pianto due volte in quel breve periodo: «La prima volta, all’elezione di Bashir, abbiamo pianto di rabbia e di stizza; la seconda volta, alla sua morte. abbiamo pianto di tristezza e di disperazione» (17).
Poi, il 14 settembre, il progetto con cui questo nuovo presidente aveva entusiasmato molti libanesi, e senz’altro tutti i cristiani, veniva infranto dal vile attentato che poneva fine alla vita di Bashir Gemayel (18).
Il 14 settembre è la festa della esaltazione della Croce, e la Croce ritornava quasi immediatamente a conficcarsi nel corpo storico del Libano e in particolare nella sua parte cristiana.
Chi è rimasto accanto ai libanesi?
Si può dire che oggi, a dieci anni dall’inizio della guerra e tre anni dopo l’assassinio di Bashir Gemayel, il Libano sia ritornato alla origine dei suoi problemi.
Mentre gli israeliani si sono ritirati dal paese – lasciando prima ai drusi, nell’autunno del 1983, e poi agli sciiti, nel maggio di quest’anno, la possibilità di eliminare la presenza cristiana dalle montagne dello Chouf e dal Sud -, i siriani sono diventati i veri padroni dei Libano, grazie alla politica di totale sudditanza nei loro confronti praticata dal fratello di Bashir, Amin Gemayel, succedutogli alla presidenza della Repubblica.
Entro breve tempo potrebbe risolversi soltanto il problema della presenza palestinese sul suolo libanese e questo arriverebbe a punizione della politica di conquista dall’interno dello Stato che li aveva ospitati – voluta dalla dirigenza marxistica dell’OLP – e a conferma delle giuste ragioni che spinsero Bashir Gemayel a iniziare la resistenza proprio nel segno della espulsione dal Libano dei guerriglieri palestinesi.
Abbandonato dai governi occidentali – la cui Forza Multinazionale di Pace è letteralmente fuggita dal suolo libanese proprio quando avrebbe dovuto esercitare la sua missione pacificatrice contro il terrorismo dei fondamentalisti islamici – il Libano è stato dimenticato dal mondo, le cui potenze hanno assistito, ciniche e passive, allo sfascio politico ed economico della nazione e al massacro dei cristiani, previsto e prevedibile, almeno nel caso del Sud del paese.
Soltanto Giovanni Paolo I1 – con quei membri della Chiesa che hanno voluto imitare il suo interessamento – è rimasto a occuparsi dei libanesi, e non soltanto dei cristiani.
Il primo maggio del 1984, infatti, rivolgeva due importanti appelli ai vescovi di tutto il mondo (19) e ai figli e ai fratelli del Libano (20), in cui ricordava che «lo sviluppo della cristianità nel Libano è condizione per la presenza delle minoranze cristiane in Medio Oriente», e invitava «a pregare e a far pregare per i nostri fratelli cristiani libanesi […], [perché] essi abbiano il coraggio di credere nell’avvenire e dunque si stringano sempre più attorno ai loro Vescovi per portare come Chiesa il nome di Dio ai loro concittadini».
Ancora recentemente, domenica 26 maggio 1985, a Salerno, dopo avere notato uno striscione innalzato da militanti di Alleanza Cattolica che sottolineava la grande tragedia del popolo e dei cristiani libanesi, Giovanni Paolo II esortava i giovani presenti con queste parole: «Grido a voi e a tutti i cristiani: non dimenticate il popolo libanese» (21).
I cristiani libanesi hanno perfettamente presente questa solidarietà che li conforta nella loro solitudine: così rispondeva a un giornalista italiano un responsabile delle Forze Libanesi – le quali, nel marzo del 1985, hanno pubblicamente preso le distanze dalla politica filo-siriana del presidente della Repubblica e hanno ripreso la loro autonomia politica e militare (22): «Siamo coscienti che Israele ormai non ci aiuta più, che l’America non vuol mettere mano in Libano, che l’Europa non può fare niente. Ci resta solo la Chiesa: la sua presa di posizione è stata chiara e forte. Ma certo la Chiesa non può inviare in Libano quelle divisioni di cui avremmo bisogno» (23).
Ognuno di noi, anche non disponendo di forze armate, ha la possibilità di pregare, di parlare e di scrivere per affermare la verità su questa enorme tragedia contemporanea.
«Siamo un popolo di martiri, e quindi siamo una testimonianza per tutta la cristianità», ha detto padre Paul Naaman, il superiore generale dei monaci maroniti (24).
Ma si può onestamente rispondere che la Cristianità italiana abbia generosamente raccolto questa testimonianza, pregando, parlando e scrivendo con tutte le sue forze per fare conoscere le ragioni dei cristiani libanesi?
Marco Invernizzi
Note:
(1) PADRE JOSEPH MAHFOUZ O.L.M., L’essenza del maronitismo e il suo ruolo nella conservazione del cattolicesimo in Oriente, in Cristianità, anno VIII, n 66, ottobre 1980.
(2) Citato in PADRE SELIM ABOU S.J., Béchir Gemayel ou l’esprit d’un peuple, Anthropos, Parigi 1984, p. 273.
(3) Ibid., p. 118.
(4) Georges Habashe, dichiarazione dell’1-5-1976, citata in CAMILLE TAWIL, Libano. Persecuzione e resistenza, Artegrafica, Verona 1979, p. 53.
(5) Ibidem.
(6) JEAN-PIERRE PÉRONCEL-HUGOZ, Une croix sur le Liban, Lieu Commun, Parigi 1984, pp. 106-108. Cfr. anche RENÉ CHAMUSSY, Chronique d’une guerre: Le Liban 1975-1976, Desclée, Parigi 1978, p. 75.
(7) Cfr., in questo senso, ANTONIO FERRARI, Libano, dieci anni di agonia, in Corriere della Sera, 13-4-1985.
(8) Cfr. PADRE BERNARDO CERVELLERA P.I.M.E., Ho visto rinascere il Libano in mondo e missione, anno 113, n. 19, 1-10-1984, p. 539.
(9) P.S. ABOU S.J., op. cit., p. 128.
(10) Cfr. ibid., pp. 131-132.
(11) Dichiarazione del 14 agosto 1976, ibid., p. 132.
(12) Cfr. JEAN LARTÉGUY, Dieu, l’or et le sang, Presses de la Cité/Paris-Match, Parigi 1980, p. 135.
(13) Citato in PADRE S. ABOU S.J., op. cit., p. 148.
(15) P. ABOU S.J., op. cit., pp. 169-170.
(14) Citato ibid., p. 162. Cfr. anche BASHIR GEMAYEL, Insinuazioni calunniose contro la resistenza cristiana in Libano, intervista a cura del Comitato per la Libertà dei Cristiani Libanesi, del settembre 1980, in Cristianità, anno VIII, n. 66, ottobre 1980.
(16) Cfr. ibid., pp. 72-73.
(17) Ibid., p. 61.
(18) Cfr. GIOVANNI CANTONI, Il martirio di Bashir Gemayel e il risveglio del Libano cattolico, in Cristianità, anno X, n. 90, ottobre 1982. Cfr. anche ANDREA ARNALDI, Bashir Gemayel, un simbolo nella guerra. L’appassionata difesa della propria identità culturale e politica, in Avvenire, 14-9-1983.
(19) Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Les Grands Mystères a tutti i vescovi della Chiesa cattolica, dell’1-5-1984, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. VII, 1, pp. 1180-1183.
(20) Cfr. IDEM, Messaggio a tutti i cittadini del Libano, dell’1-5-1984, ibid., pp. 1186-1190.
(21) L’Osservatore Romano, 27/28-5-1985.
(22) Cfr. RENATA L. CARGNELLI, I cristiani libanesi contro la «Pax» siriana, in Secolo d’Italia, 4-4-1985; e Lucio LAMI, Scatenata la guerra civile nel Libano persino i cristiani si combattono tra loro. L’imbroglio, in il Giornale, 19-3-1985.
(23) Giuliano Ragno, Libano. No all’intervento della Siria. Nessuno potrà mandarci via, in Avvenire, 17-5-1985.
(24) IDEM, Un popolo di martiri, ibid., 18-5-1985.