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“L’identità è il problema della modernità”

14 Ottobre 2020 - Autore: Cristina Cappellini

Un “poemetto” che mette a nudo i limiti della modernità che ha sbriciolato le relazioni umane e ha svuotato l’esistenza di ogni significato.


di Cristina Cappellini

“L’identità è il problema della modernità”. Questa frase non è mia, è il verso di una splendida poesia di Davide Rondoni, o meglio di un “poemetto” (come dice l’autore stesso) dedicato a un luogo ben preciso, una ex filanda situata in un borgo della pianura padana che si chiama Soncino.

Oggi quella che fu una delle tante filande che sorreggevano l’economia del territorio cremonese agli inizi del Novecento, è un luogo dedicato all’arte, allo spettacolo, all’intrattenimento. Allora era invece un luogo di duro lavoro, di sofferenza fisica e psicologica.

Ma perché il poemetto di Rondoni assume un valore significativo e universale, pur riferendosi a un piccolo retaggio del mondo industriale del secolo scorso? Tra l’altro in un posto di provincia.

Perché è intorno al concetto di identità che l’opera si dipana e l’autore, nel ricordare e omaggiare un antico spaccato di vita e di lavoro, ci butta in faccia, con tutta la maestria di chi sa tessere non la seta ma versi poetici, un tema di straordinaria attualità.

“L’identità è il problema della modernità”. Cosa significa identità oggi, in un mondo e in una società che hanno fatto della fluidità il loro segno distintivo? Cosa significa appartenere a una terra, a una comunità, a un popolo? Ce lo stiamo dimenticando, purtroppo.

Il progresso economico (ma non certo valoriale), la secolarizzazione, il mondialismo e la globalizzazione che hanno reso l’uomo sempre meno essere umano e sempre più consumatore: sono questi i principali fattori di sradicamento, di dispersione, di annichilimento generale.

Oggi parole come “identità” (salvo non si trattino temi legati alla sfera sessuale), “patria”, “terra natìa” e simili sono caduti in disuso, quasi danno fastidio ai fautori dell’uguaglianza a prescindere e dell’appiattimento verso standard preconfezionati e imposti dalla dittatura ideologica che alcuni poteri, a livello internazionale, stanno cercando di imporci.

Ecco che nel surreale melting pot odierno il poemetto di Rondoni diventa una perla rara, un inno all’identità non asservita alla modernità, non asservita al potere.

E così un dolce canto che parte da una vecchia filanda di provincia diventa un monito e un segno di speranza per il futuro. Un messaggio non solo per i soncinesi, a cui è dedicata, ma per l’umanità tutta.

Scrive Rondoni nella parte centrale dell’opera:

“Se togli il filo del mistero, del cielo, del Dio

dell’universo

che nella nascita in un luogo ti offre al tuo cammino

ogni filo va in un casuale verso

o nel disegno disegnato del potere”.

E poco più in là:

“La Filanda lo sa

se ti chiedono di colpo ehi, ehi

tu chi sei

– se un fantasma non sei –

balbetti qualche nome – io sono

di Soncino, o

io sono di Forlì

l’amico di Maria, di Gianluca, di Gino, io sono

la sorella di, la moglie di, il moroso di, cugino di

io sono innamorato di,

io sono di,

se no chi sono io?

se no che cosa sono io

grida alle stelle, nel grande

vuoto, nel grande oblìo

l’errante di ogni età – ”.

Nei versi del poeta “l’essere di” (una terra o una persona) diventano segni di riconoscimento imprescindibili. Il vincolo familiare non si può cancellare, l’essere nati in un luogo piuttosto che in un altro fa la differenza.

E verso la fine del componimento afferma una verità che qualcuno spesso vorrebbe disconoscere:

“La vita naturale

non è essere a chiunque altro

uguale

se tutto è uguale a tutto

allora tutto

è solo del più forte

e su tutto domina in mille maschere

la morte – ”.

La morte non è solo la morte di un’identità, ma della libertà e della dignità che diventano mero asservimento al potere del momento.

Ognuno di noi è unico, lo dice il dna, lo dicono le impronte digitali. Il componimento di Rondoni è stato presentato per la prima volta nero su bianco il 10 ottobre scorso, proprio nel luogo omaggiato dal poeta. Nello stesso giorno si è svolta la beatificazione del giovane Carlo Acutis. Una delle frasi che il ragazzo amava ripetere era: “Tutti nascono originali, molti muoiono fotocopie”.

Mi piace pensare che ci sia sempre un legame tra le circostanze e le persone. Ecco che allora i versi di Rondoni e le parole di Acutis hanno riecheggiato all’unisono, esprimendo lo stesso significato: l’unicità dell’essere umano, contro ogni tentativo di omologazione.

E il poeta conclude la terza parte della sua magnifica opera, prima di concentrarsi esclusivamente sul tema dell’amore, con questi versi:

“Io sono di

io sono dei tuoi occhi, mia mite guerriera,

di questa erba, di questa grande sera

di questi fossi, tessuto qui, io sono

di Soncino

niente lo può negare, la nascita lo grida

col primo grido nel parto

non lo cancella l’ultimo sospiro

prima di morire, né l’ultimo quarto

di luna

prima di svanire”.

A testimonianza del fatto che, nonostante i tempi difficili che stiamo vivendo, tempi di uteri in affitto, di fecondazioni eterologhe, di valori fluidi e di cosmopolitismo sfrenato, a ben vedere “siamo tutti di”.

Mercoledì, 14 ottobre 2020

 

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