Giovanni Cantoni, Cristianità n. 3 (1974)
Sempre apparentemente moderato e accorato – ad altri la parte dell’”ardito” -, Alfredo Todisco ritorna periodicamente sul tema della fame e della sovrappopolazione. Anche recentemente, dopo aver ricordato il vecchio adagio secondo cui “il sazio non crede al digiuno”, per spiegare il generale disinteresse per il problema, ha notato come la situazione sia destinata a cambiare. Infatti l’improvvisa rarefazione e il rincaro di parecchi generi primari come la farina, la pasta, il riso, che emergono in un quadro di continuo aumento dei prezzi dei prodotti alimentari, dimostrano abbastanza chiaramente il fatto che le vicende delle nostre mense sono assai più legate alla situazione mondiale di quanto generalmente non si pensi” (1).
Il discorso prosegue, senza dare spiegazione del fenomeno, fino a un punto che merita una particolare attenzione: “Principalmente a causa degli acquisti massicci di grano e di riso effettuati dall’URSS nel 1972 per sopperire alle deficienze del cattivo raccolto, le riserve di cereali disponibili nel mondo sono scese al livello più basso degli ultimi trent’anni.
“Ciò spiega, in gran parte, la brusca impennata dei prezzi di certi generi alimentari di prima necessità sui mercati internazionali, di cui risentono particolarmente i Paesi terzi e le classi meno abbienti; nonché la difficoltà di ottenere cereali dai paesi esportatori (USA, Canada) anche da parte dei paesi sviluppati che si possono permettere di acquistarli grazie alla situazione favorevole della loro bilancia dei pagamenti con l’estero“.
“È allarmante che la popolazione del pianeta, ridotta con le scorte di viveri al lumicino, mentre continua la sua espansione demografica, si trovi a far dipendere il salto dei suoi bisogni alimentari dalla clemenza di una singola stagione agricola“.
Così si chiude il discorso, che era cominciato con la frase: “Le difficoltà che, oltre la crisi petrolifera, si vanno manifestando nel mercato di moltissimi viveri di primissima necessità, ci fanno sentire concretamente il peso di uno dei maggiori problemi del mondo d’oggi: quello della insufficiente produzione alimentare“.
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Il richiamo alla crisi petrolifera favorisce l’approfondimento del problema.
Dunque, manca il petrolio, ed è una carenza un poco artefatta e un poco reale, nel senso che di petrolio ce n’è sempre meno, quel poco che c’è ancora costa di più e chi lo ha lo cede secondo criteri particolari di preferenza. Si può certamente discutere su chi guadagni dall’uso degli ultimi depositi, se i petrolieri, gli arabi o i russi dietro gli arabi, ma comunque si tratta di un problema secondo – anche se non secondario – rispetto a un primo problema, chiaramente impostabile, che presenta la crisi energetica come oggettiva, qualsiasi querimonia si intenda fare in proposito, dal momento che il petrolio non c’è quasi più e il petrolio non si semina e non si raccoglie.
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Provo a dare la stessa impostazione alla crisi alimentare, ma mi fermo subito di fronte al dato che il riso e il grano, ad esempio, si seminano e si raccolgono.
Si dice che aumentano i consumatori e che diminuisce il prodotto. Nel mondo, forse; non lo so, e in questo momento non mi interessa neppure. In Occidente il prodotto non diminuisce, aumentano soltanto i consumatori, a sbafo, del prodotto stesso: il prodotto diminuisce sul mercato, ma non nei campi; quindi aumenta il suo prezzo e di conseguenza diminuisce il potere di acquisto della moneta. Si produce cioè un fenomeno di tipo inflazionistico, non derivante da emissione di cartamoneta scoperta, ma dalla sottrazione improduttiva di prodotto al mercato.
Il fenomeno è stato descritto, con chiarezza e precisione, da Gastão Eduardo de Bueno Vidigal, direttore e presidente del Banco Mercantil di San Paolo ed ex-ministro delle Finanze dello Stato di San Paolo, che, in una intervista a un giornale del mattino, ha dichiarato: “Vi è ragione di temere le conseguenze dell’inflazione che si generalizza in tutto il mondo. La crisi del dollaro e l’ingresso sul mercato mondiale di due grandi compratori di generi alimentari e di materie prime – il blocco sovietico e la Cina comunista, che, insieme, formano più di un terzo della popolazione della terra – hanno generato la corsa all’oro e ai rifornimenti tanto di prodotti primari che di lavorati” (2).
“In altre parole – commenta Plinio Corrêa de Oliveira – il flagello dell’inflazione comincia a estendersi a tutto l’Occidente, semplicemente perché dobbiamo nutrire, vestire ed equipaggiare una terza parte dell’umanità, che fino a poco tempo fa era esclusa dalla nostra area economica” (3).
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Trascuriamo al momento le conseguenze inflazionistiche accennate e torniamo ai generi alimentari. In Occidente tali generi diminuiscono e quindi costano di più – sì che il denaro vale meno -, con danno per i paesi del Terzo Mondo e per i ceti meno abbienti dei paesi occidentali, perché vengono ceduti all’URSS e alla Cina che se ne approvvigionano e non li pagano.
In altre parole, ancora: ogni italiano fa più fatica a comperare la pasta perché non la trova, quando la trova costa molto e si trova meno denaro nella busta paga perché l’URSS e la Cina acquistano generi alimentari in Occidente, e tra l’altro non li pagano.
Ma le cose non si fermano qui: questo “tirare la cinghia” degli italiani, soprattutto di quelli meno abbienti, serve:
1) all’URSS e alla Cina per sfamare i propri cittadini, che l’economia collettivista non riesce a sfamare;
2) quindi per mantenere al governo i rossi impedendo la rivolta della base popolare – l’osservazione è dei dissidenti russi;
3) all’URSS, ancora, per guadagnare denaro e prestigio – vedi il caso del Bangladesh – vendendo a terzi il grano acquistato e non pagato!
Mi pare lecito chiedersi se valga la pena di “tirare la cinghia” per ottenere risultati così brillanti!
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Ogni riferimento alla sovrappopolazione, almeno in Italia e su quasi tutta la stampa, suona esplicitamente così: il pane diminuisce, perché la popolazione cresce; la popolazione cresce perché la Chiesa non accetta i contraccettivi, l’aborto, ecc.; ergo, la Chiesa affama il mondo.
Dopo le considerazioni precedenti, propongo di meditare su questa diversa impostazione del problema: il pane diminuisce, perché anche i paesi comunisti vogliono mangiare: è giusto che anche le vittime del comunismo mangino, ma siccome il loro non gli basta, mangiano del nostro. Non gli basta perché una singola stagione agricola è stata inclemente? Perché sono paesi sottosviluppati? Perché i governi sono inetti? Oppure perché il collettivismo, che è contro natura, conduce alla catastrofe economica? Se la risposta vera è quella contenuta nell’ultimo quesito, il pane diminuisce perché il comunismo non sa produrre: ergo, il comunismo affama il mondo.
Perciò, invece di tentare di convincere la Chiesa o di costringere i paesi cattolici a usare metodi contro natura per la limitazione delle nascite, perché non pensare di convincere i paesi comunisti ad abbandonare il sistema economico contro natura, cioè il collettivismo, per l’incremento della produzione?
GIOVANNI CANTONI
Note:
(1) Corriere della Sera, 14-1-1974.
(2) Citato in PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA, Por fim, autoperseguição, in Folha de S. Paulo, 30-9-1973.
(3) PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA, art. cit.