Franz Werfel, Cristianità n. 411 (2021)
I
Un mondo singolare e memorabile, il nome del quale corse sulla bocca di tutti e che pure solo pochissimi conobbero […] è scomparso per sempre. La sua morte dopo il lungo crepuscolo della vecchiaia, non fu lieve, ma travagliata da una dolorosa agonia. Moltissimi dei suoi figli però vivono ancora e parecchi di loro sono figli consapevoli. Essi appartengono a due mondi, a quello morto, non ancora estinto in loro, e al mondo nuovo degli eredi, che li ha rilevati come si rileva la merce in liquidazione. Appartenere a due mondi, abbracciare con un’anima sola due età, è una condizione veramente paradossale, che si ripete di rado nella storia, ed è imposta solo a poche generazioni umane. Quando Roma decadde e nuovi Stati germogliarono sul suolo d’Italia, forse allora vissero generazioni a cui toccò un simile destino.
Tutti i presenti mortali, nati nel secolo scorso [il XIX], appartengono a due età, di qualunque Paese siano. Essi debbono tendere violentemente le loro forze, per dominare questa difficile condizione. Chissà se tante miserie interiori dell’epoca non siano da attribuirsi a questa duplice esistenza segreta! Ma a due mondi appartengono forse soltanto i figli di quel mondo estinto, di cui fra poco riveleremo il nome […].
II
Quale mondo? Aveva un grande nome. Ma esso era già ancora più grande del suo nome, che sonava così: «Impero austriaco», ovvero «Monarchia austro-ungarica»: quest’ultima designazione non è priva di un certo artificio e presagisce già, per gli orecchi più fini, la caduta del superbo Impero.
Impero superbo davvero, non solo per la sua mole, ma più ancora per l’indescrivibile varietà de’ suoi Paesi e delle sue stirpi. Qui gli spiriti scettici domanderanno forse stupiti: Come? Codesti variopinti paesi sono stati per caso distrutti da un terremoto, codeste molteplici stirpi sono scomparse dalle loro dimore? O non piuttosto montagne, valli e pianure sono sempre le stesse da secoli, e così pure le loro popolazioni? È possibile che ciò che avete chiamato un mondo si increpuscoli e muoia? […]
Certo le Alpi del Tirolo, i laghi del Salzkammergut (1), i dolci orizzonti di Boemia, gli altipiani brulli del Carso, le lussureggianti coste dell’Adriatico, i palazzi di Vienna, le chiese di Salisburgo, le torri di Praga, tutto questo è rimasto lo stesso, almeno nel suo aspetto esteriore. Eppure no, anche l’aspetto esteriore io stento molto a riconoscerlo immutato. […] Non voglio dire che tutte queste regioni e città abbiano perduto un determinato splendore. Forse è piuttosto un velo che hanno perduto, un velo benefico, un velo di Maia, che celava molte cose. […]
Solo le fallaci dottrine moderne, economiche e biologiche, sono tanto superficiali da misconoscere questa realtà. Esse pongono la spiegazione di tutta quanta la storia dell’umanità nel fatale incontro delle razze con determinati luoghi della terra, nella simbiosi del sangue e del suolo, nelle condizioni di nutrimento dei singoli terreni e nella necessità bellicosa di migliorarli e di estenderli (2). Secondo queste concezioni la storia di un popolo forma dal sorgere al tramontare di esso un’unica linea primitiva, determinata solo dalle forze materiali, terra, specie e bisogno. […] È necessario polemizzare sul serio con queste folli concezioni nazionalistiche, del resto basta una domanda ad annientarle: sono stati il sangue e il suolo — che non vogliamo affatto negare come presupposto della vita — a dar forma alla terra, a creare e a distruggere i regni, a fondare o terminare le epoche? Non fu piuttosto il cristianesimo, dunque una pura idea indipendente, a trasformare la faccia del mondo, fin nelle linee e negli aspetti del paesaggio? Oppure, per citare un altro esempio: l’islamismo. Gli abitanti dell’antica Babilonia e dell’odierna Bagdad non sono rimasti, quanto a razza, press’a poco gli stessi, il sangue e il suolo non sono sempre quelli? E tuttavia, gli antichi Babilonesi e i moderni arabi non si riconoscerebbero tra loro, da poi che l’istituzione mondiale di Maometto [570 ca.-632] si è inserita tra gli uni e gli altri.
Non vogliamo enunciare qui una teoria, ma esprimere un dato di esperienza. Solo nel segno di un’idea superiore si fondarono e si fondano i regni. Le nazioni possono costituire soltanto degli Stati. Gli Stati nazionali sono nella loro intima essenza unità demoniache; come tutto ciò che è demoniaco e idolatrico, sono suscettibilmente «dinamici», minacciosi e minacciati (3). I veri regni invece nascono, quando alle unità demoniache naturali è aggiunto un elemento soprannaturale divino, che le trascina in alto al di sopra di sé stesse: una rivelazione o un’idea superiore. Ogni vero regno è un tentativo, che fallisce, di fondare sulla terra il regno di Dio. Tale è almeno nell’ora della sua nascita […]. L’Impero d’Austria fu precisamente uno di questi regni. […]
III
Il regno e la sua idea! Come chiarire il significato di questa idea a un lettore lontano? Innanzitutto: l’Impero d’Austria fu un grandissimo regno, il secondo in grandezza fra le grandi potenze d’Europa, se si misura dalla superficie del territorio, di antichissima civiltà. Chi ha avuto in mano una volta la carta geografica dell’Europa, come si presentava prima della guerra (4), non avrà certo dimenticato quell’immensa forma di animale col capo minacciosamente alzato, che, superba del suo possesso, troneggiava nel centro del continente. Quel regno abbracciava, grossomodo, ventiquattro Paesi, o Länder, ancora ai giorni della sua caduta, e, quando era all’apogeo della sua potenza, comprendeva oltre a questi metà dell’Italia.
Ventiquattro Paesi, notate bene, non province, non dipartimenti governativi, tracciati con la riga, ma formazioni organiche originarie, la cui storia spesso risale fino all’emigrazione dei popoli ed anche all’epoca romana. […] Questi Paesi sono meravigliosamente diversi gli uni dagli altri, anzi opposti. Il conoscitore, per non parlare dello scienziato, entra in un nuovo mondo a ogni due ore di strada ferrata percorsa con un diretto. L’Impero austriaco possedeva senza dubbio fra gli Stati europei la più grande e più estesa ricchezza di forme naturali. Press’a poco come gli Stati Uniti dell’America del Nord, ma in misura più moderata e più mite, esso univa entro i suoi confini il clima del Nord, con le sue pinete, e la flora meridionale del Mediterraneo, con alloro, ulivi e cipressi sparsi nei mille solchi dei pendii nudi e bruni. […] Tutto quello che esisteva in Europa di tesori e di meraviglie naturali, il crollato Impero lo riuniva in sé, in un unico spazio, ch’esso offriva per la vita comune a tutte le sue popolazioni, affinché vi trovassero la loro felicità terrena, servendo al tempo stesso ad un’idea superiore.
Ciò che si è detto dei tesori naturali vale anche per gli abitanti dell’Austria. […] Ai ventiquattro Länder corrispondevano tredici popolazioni. Oltre ai Tedeschi e ai Magiari, che avevano da secoli la prevalenza nella metà occidentale e orientale dell’Impero, questo comprendeva anche quattro popoli slavi settentrionali (cechi, slovacchi, polacchi, ruteni o piccoli russi), tre slavi meridionali (croati, serbi, sloveni), tre latini (italiani, romeni e il singolare popolo montanaro dei ladini). A questi dodici popoli si aggiungeva ancora come tredicesimo un nucleo assai numeroso di ebrei, che a loro volta si dividevano in una stirpe occidentale ed una orientale […].
Abbiamo qui enumerato solo le popolazioni manifeste, tutt’oggi viventi. Ma non dobbiamo dimenticare le stirpi latenti, il cui nome non compare nelle tabelle statistiche, ma il cui sangue continua ad agire. Taceremo dell’antichissima razza celtica dimorante nelle Alpi e nei Sudeti […]. Così pure menzioneremo solo di sfuggita le legioni romane, che ebbero i loro accampamenti e i loro castelli dall’Elvezia al Mar Nero, lungo tutto il bacino del Danubio, introdussero la viticoltura, lavorarono e procrearono figli. […] La marea di popoli asiatici, che di tempo in tempo cercò d’inondare l’Occidente, s’infranse ogni volta sulla terra austriaca, l’ultima volta ancora duecentocinquant’anni or sono, quando [nel 1683] Vienna fu assediata dai Turchi. Una parte di quelle razze impetuose di cavalieri […] rifluì verso Oriente, l’altra parte rimase, fu domata e assorbita.
Non soltanto le invasioni guerriere però causarono l’afflusso di sempre nuovo sangue e il trasformarsi sempre più sorprendente del caleidoscopio delle nazionalità austriache. Ciò avvenne anche per vie legali e pacifiche. Quando lo scettro asburgico dominò l’immenso impero spagnolo e romano-tedesco, non soltanto la politica spagnola e i costumi spagnoli penetrarono al di là delle Alpi, ma anche il sangue spagnolo. Ancora oggi, in villaggi sperduti fra i monti, s’incontrano cognomi spagnoli.
La terra austriaca aveva una forza segreta, particolarmente adatta a costruire l’humus [per trasformarli] in qualcosa di nuovo. In che cosa? Qui ci avviciniamo all’idea. Innanzitutto un confronto, sebbene non perfettamente esatto. Citiamo un’altra volta gli Stati Uniti! Anch’essi sono un vero regno, perché non costituiscono un’«unità demoniaca» naturale, bensì il tentativo politico di dar forma a un’idea superiore, sopraordinata. Questa idea costitutiva degli Stati Uniti non è meno difficile da formulare di quella austriaca. Se la si definisce con queste parole: «la maggior libertà possibile delle personalità entro una comunità supremamente responsabile», si dice qualcosa di banale, di sbiadito, che contrasta con la realtà […]. Ma le idee non sono concetti, non sono essenze del puro intelletto. Le idee hanno la loro realtà sensibile. Platone [428/427-348/347 a.C.] stesso, quando diceva «idee», non si rappresentava delle astrazioni, bensì degli «archetipi», dei modelli di tutto l’essere creato. Immagini, ad ogni modo. Non si afferrerà mai un’idea reale, se non si può vedere, fiutare, gustare in essa ciò che vi è di figurativo, di corporeo anzi. Gli Stati Uniti hanno la loro idea, e la formula sopra enunciata non ne è che un vago indice.
L’antico Impero dell’Europa e la giovane Repubblica dell’America s’incontrano in certi presupposti. L’uno e l’altra sono, come si è detto, regni etnici e non Stati nazionali. Entrambi sono nati dall’unione e dal pareggiamento di razze e stirpi diverse. […] Gli Stati Uniti […] furono spesso paragonati a un forno fusorio delle razze. E infatti una straordinaria e singolare forza del continente atlantico fonde nel giro di poche generazioni i popoli più diversi fra loro convertendoli in Americani al cento per cento. Una nuova nazione in parte si è già formata, in parte si sta formando […].
Si manifestano ora i grandi contrasti, che pongono un limite al paragone. Essi sono caratterizzati dalle due immagini adoperate per l’America e per l’Austria: da una parte il forno fusorio che lavora con impetuosa violenza, dall’altra l’humus che mastica a poco a poco. Al processo meccanico si contrappone il processo organico.
Anche l’idea della antica Austria volle che l’uomo che l’abitava fosse trasformato e rifuso. […] Sarebbe un’esagerazione chiamare questo sacrificio richiesto dall’idea un vero e proprio sacrificium nationis. Ma certo fu qualcosa di simile. Rinuncia ad una comoda affermazione di sé stessi, rinuncia all’eccitante abbandono agli istinti del proprio sangue, rinuncia all’indomito bisogno di trionfo della propria stirpe. Solo chi compiva questa rinuncia, chi era deciso a questo sacrificio, poteva ottenere la consacrazione superiore dell’idea, veniva ricreato, si trasformava da tedesco o ceco che era, nell’uomo nuovo, nell’Austriaco. La grande idea destinava quest’uomo, questo austriaco a diventare un maestro. […] Questo destino a diventare «maestri dell’Oriente» è tramontata col tramonto della vecchia Austria. Ma era già sepolta da un pezzo. Pochi soltanto ne avevano consapevolezza.
IV
Il primo che intuì l’idea «Austria» fu niente meno che Carlo Magno [742-814]. Nel piccolo Paese, il cui centro è costituito dalla città del vino, la città di Vienna, egli pose la prima pietra della così detta Marca orientale. Fin dal momento della sua fondazione questa Marca orientale ebbe un duplice compito. Quello di difendere e quello d’insegnare. Doveva, come un’insormontabile barricata, proteggere l’Occidente dall’assalto dei barbari, e al tempo stesso domare quei barbari, incivilirli, trasformarli, educarli, da esseri naturali demoniaci e schiavi del proprio sangue a Cristiani occidentali. Questo compito dell’Austria nel corso della storia non si è mutato di un iota. Logicamente doveva fallire nel momento in cui l’umanità naturale demoniaca sotto forma del nazionalismo moderno e delle sue dottrine scientifiche aveva oscurato l’idea cristiano-occidentale del regno.
Nel primo Natale del secolo nono Carlo Magno riceveva dalle mani di papa Leone III [795-816] la corona dei Cesari romani: uno dei più grandiosi avvenimenti che la nostra terra abbia vissuti. L’antico Imperium, la cui potenza aveva riposato per tanti secoli, era nato di nuovo. Di nuovo nel senso più vero. Poiché a differenza di Cesare Augusto [63 a.C-14 d.C.], da Adriano [76-138] o da Marco Aurelio [121-180], il nuovo Cesare non era più soltanto il simbolo del dominio terreno, non più il rappresentante di quel quiritismo, che con la sua altissima superiorità politica si era assoggettato il mondo antico, urbem et orbem. Non c’era più un antico popolo sovrano, un erede del quiritismo, che avrebbe potuto esercitare l’imperium alla maniera dei romani. Ma c’era la Croce, nelle cui due braccia s’incrociavano l’orizzontale terrena e la verticale sopraterrena. Il globo imperiale nella sinistra di Carlo, simbolo del globo terreno, portava la croce. I due più profondi antagonisti, Cesare e Cristo, venivano avvicinati nell’idea del nuovo «Sacro Romano Impero di Nazione Tedesca» alla minore distanza possibile sulla terra. Ma il punto sul globo imperiale nella sinistra dell’imperatore, dove s’innalzava la croce, avrebbe dovuto essere la Marca Orientale.
E lo fu in realtà. Da principio ancora alla periferia, essa si spostò sempre più verso il centro. Simile a una potente calamita, attirava i giovani popoli come limatura di ferro. E poi venne la sua grande ora. Essa diventò il nucleo e la gemma del Sacro Romano Impero, quando assunsero il potere gli eredi spiritualmente più autentici e legittimi del Caesar Carolus Magnus. Fu la Casa d’Asburgo, che resse i Paesi ereditari austriaci e da allora in poi, con poche interruzioni, conservò la dignità imperiale romana fino al termine di questa.
Quando all’inizio del secolo decimo nono cominciò a salire l’ondata del nazionalismo tedesco, il sovrano asburgico allora regnante, Francesco I [1768-1835], sciolse il Sacro Romano Impero di Nazione Tedesca e non si chiamò più Imperatore romano, ma «Imperatore d’Austria» (5). Era un disperato tentativo di salvare la grande idea dell’unità dei popoli, una ritirata, un concentramento sulla posizione più forte. Di ciò approfittò la famiglia reale prussiana degli Hohenzollern, i nemici mortali dell’Austria e della sacra idea imperiale. Essa sferzò e stimolò energicamente i demoni del nazionalismo pangermanico. Dopo le vittorie sopra l’Austria e la Francia nell’anno 1870-1871 riuscì a ridurre sotto il proprio dominio i piccoli Stati tedeschi, e in tal modo a unificarli. Ed allora avvenne uno dei più brutti scherzi di parole della storia mondiale. La grande Prussia si chiamò «Impero Tedesco», quando nel migliore dei casi non era che uno Stato nazionale, una unità demoniaca, il contrario dunque di un regno unificatore di popoli nato da un’idea sopraordinata. Ma i re prussiani si conferirono il titolo di imperatori. Kaiser è la forma greca di Caesar. Ogni Kaiser è successore di Cesare, che fondò l’impero sopranazionale della civiltà occidentale. Il Cesarismo è l’opposto assoluto della regalità nazionale. Gli Hohenzollern furono fortunati re nazionali, che per odio contro i Cesari legittimi della Casa d’Asburgo usurparono un vuoto titolo imperiale.
Il primo Cesare asburgico si chiamò Rodolfo [1218-1291]. Era nato in Argovia nella Svizzera. E la sua origine svizzera non è priva di significato simbolico. In ogni caso era un richiamo alle virtù elvetiche della neutralità e della tolleranza nazionale. Se ci si può fidare delle fonti storiche e dei loro abbellimenti poetici, Rodolfo, indipendentemente dalla sua personale attività e coscienza dei propri fini, possedeva già certe qualità, che più tardi saranno attribuite al carattere austriaco. Nel suo tenore di vita egli era straordinariamente semplice, alieno da ogni infatuazione di se medesimo, da ogni enfasi parolaia, scrutatore dell’uomo, non freddo, ma fervido, perché ricco di umorismo, pio senza essere fanatico.
Tale carattere diede il tono che, perdurando a traverso i secoli, poté diventare esemplare e mitico. Non tutti i Cesari asburgici assomigliarono a questo carattere, s’intende. Ci furono fra essi dei deboli, dei minorati, degli insignificanti, degli stravaganti, che rimasero molto al di sotto della sana misura di Rodolfo. Ci furono anche alcuni che superarono assai tale misura. Ma né questi né quelli furono la vera misura del carattere austriaco.
La serie degli antenati asburgici offre all’occhio indagatore figure seducenti in quantità. Ecco Carlo V [1500-1558], il cui regno si estendeva dal sorgere al tramontar del sole, compreso perfino il lontano Messico, e la cui anima tuttavia s’infranse, inducendolo a finir la vita in un convento di Cappuccini. Ecco il suo opposto, Rodolfo II [1552-1612], il cui regno era tutto chiuso entro le mura dell’antico castello reale di Praga, il Hradschin, regno cupo e bizzarro, nel quale centinaia di alchimisti fabbricavano oro e cercavano la pietra filosofale, mentre i negromanti volevano mettere la morte alle strette, e gli astrologi leggevano nelle congiunzioni delle stelle: fra loro spiriti immortali come Tycho Brahe [1546-1601] e [Friedrich Johannes] Kepler [1571-1630]. Ecco poi una forte e ferma figura di donna, Maria Teresa [1717-1780], la matriarca del rococò. Ma non parleremo oltre di queste figure superiori alla media, parleremo piuttosto di una personalità […] che ebbe la «misura», parleremo dell’Ultimo, che in parecchi tratti assomigliò al primo, del Cesare che regnò nel crepuscolo di un mondo.
V
[Quella dell’imperatore Francesco Giuseppe (1830-1916)] è una delle vite e uno dei regni più lunghi che la storia conosca. Tutto il vespro dell’Impero è occupato dalla figura di quest’uomo. Quando nel terzo dicembre della guerra mondiale egli morì, era giunta la notte, benché esistesse ancora un giovane e infelice successore, che doveva assistere al doloroso sfacelo dell’Impero.
Francesco Giuseppe raggiunse ottantasei anni e ne regnò circa settanta. La sua vita durò quasi tre generazioni, il suo governo più di due. Egli salì al trono durante la rivoluzione del 1848, diciottenne. Il suo regno s’iniziò in una giornata di dicembre, terminò in una giornata di dicembre. La stagione, l’intonazione politica, la caratteristica umana di questo regno fu crepuscolo invernale, gelo invernale e vicinanza di morte. Quando Francesco Giuseppe nacque, vivevano ancora molti uomini dell’ancien régime, che spiritualmente stavano al di là del grande spartiacque della Rivoluzione francese e in Napoleone soprattutto vedevano uno sfacciato parvenu. Quando giacque sul letto di morte nel castello di Schönbrunn, era in piena fioritura l’età trionfante dei gas velenosi, delle bombe incendiarie e delle masse martirizzate e martirizzanti. La vita di Francesco Giuseppe unisce come un ponte di straordinaria portata due epoche storiche, lontane l’una dall’altra dieci volte più del secolo reale che le separa. Non poteva essere una natura fiacca quella che, stando per settant’anni sulla vetta di un mondo, resse a una simile portata senza crollare.
La natura di Francesco Giuseppe si difese a suo modo contro l’immane destino. Non rintuzzò le armi avverse, ma si ritrasse, si chiuse in una solitudine veramente cesarea. Si corazzò con l’ininterrotta dedizione al concetto del «servizio»: la penna vorrebbe scrivere «fanatica» dedizione. Ma nulla sarebbe meno vero della parola «fanatico» riferita a Francesco Giuseppe. La prammatica del servizio — così sonava la vera espressione austriaca — regolò l’attività, i diritti e i doveri dell’Imperatore fin nelle minime sfumature. Dove essa cessava — ma in realtà non cessava mai — trovava la sua continuazione in una scrupolosissima esigenza di tatto, che vietava per esempio al sovrano di pronunciare, in occasione di un’esposizione d’arte o di una serata a teatro, un giudizio di carattere personale. Così nacque la frase spesso schernita nei giornali umoristici: «È stato molto bello. Mi ha fatto molto piacere».
Ma non era da Cesare essere personale. Egli stava al di sopra di ogni personalismo, che giudica secondo il proprio gusto. In un’epoca in cui la personalità fu idolatrata con snobismo, in cui la contingenza e il disordine travestiti da libertà erano tutto, la natura originariamente impaziente e capricciosa di Francesco Giuseppe si superò costringendosi all’impersonalità, all’ordine e alla regola.
Questo fu possibile solo perché anche in lui, l’Ultimo, continuava ad agire l’antica forza della sacra idea imperiale. Ciò che vi era di universalmente umano in questa idea estorse all’anima dell’Imperatore una virtù, per la quale la parola obiettività è troppo debole. Egli, tedesco di sangue e di tradizione, cercò con estrema sincerità di soddisfare alle esigenze di tutti i popoli della monarchia. Egli, che proveniva da un’età feudale e dispotica, egli, che nel miglior dei casi aveva qualche scarso rapporto solo coi capi dell’alta nobiltà, negli ultimi anni del suo dominio, in tenace conflitto col proprio seguito, coi ministeri e col parlamento, riuscì a far trionfare la richiesta socialista del suffragio universale, uguale e diretto. E avvenne così l’inconcepibile. Un Asburgo, che era diventato grande ancora sotto [Klemens Wenzel Lothar] Metternich [1773-1859], che all’inizio della sua carriera aveva rimesso in vigore le forze reazionarie vacillanti, lo stesso Asburgo alla fine della sua carriera patteggiò con le masse odiate e temute, coi lavoratori, col proletariato rivoluzionario.
Questo fatto è davvero così paradossale come sembra a prima vista? Il Cesare cristiano era solo un sovrano dei ricchi e dei fortunati? In questo avvenimento straordinario, in questo atto sorprendente del vecchio Imperatore non ha parlato ancora una volta l’idea imperiale? Per questa i princìpi dei singoli governi, legati alle loro epoche, non rappresentavano nulla di categorico. Dall’inizio dell’Impero l’idea aveva percorso tutte le forme politiche ch’erano all’ordine del giorno: il feudalesimo del Medio Evo, il dispotismo barocco, l’assolutismo illuminato, la democrazia liberale […]. La lotta per il suffragio universale, condotta dalla Corona fu un simbolo di questa disposizione. All’intenzione universalmente umana del pensiero austriaco non importava che le classi abbienti rappresentassero in eterno la loro parte.
La guerra fra capitale e lavoro, comunque andasse a finire, non toccava nella sua intima essenza l’idea imperiale. Il suo fronte di combattimento era su di un altro piano. Con forza estrema l’idea cercava alleati contro il grande nemico. E questa volta li trovò nella massa dei poveri e dei poverissimi. Il nemico comune era l’appassionato antagonista, ab antico, dell’idea austriaca di universalità: l’odio demoniaco, la vana presunzione delle parti sul tutto, la sfrontata idolatria del proprio Io, in una parola il fanatismo nazionale, sostenuto dal piccolo borghesismo arrabbiato di tutti quanti i popoli. Esso è rimasto vincitore.
Le generazioni austriache nate dopo il 1860, quindi nonni, padri, figli e nipoti, non hanno […] conosciuto Francesco Giuseppe [se non] come un lontano vegliardo. […] Era l’Ultimo dei Cesari, augustus senex, la stanca personificazione dell’idea imperiale universalmente umana e mondiale. La sua vita, il suo volto, la sua gracile, elegante figura di vecchio erano diventati da un pezzo mitici. Essi occupavano la coscienza di ogni austriaco dal giorno in cui questi entrava per la prima volta, a sei anni, nella scuola elementare. Accanto al Crocifisso sulla parete dell’aula scolastica pendeva l’immagine di Cesare. Questo volto dalla bianca barba imperiale — che la gioventù scolastica, i funzionari, i soldati avevano ogni giorno e ogni ora davanti a sé — emanava una pallida onda di familiare inavvicinabilità, alla quale nessuno si sottraeva. Su quei lineamenti non si notava una spiccata maestà, non uno sguardo da dominatore, neppure bontà, a mala pena una certa cordialità; tutt’altra era l’espressione che vi si leggeva: sembrava che quella testa di vegliardo, lievemente china da un lato, ascoltasse intenta un lamento quasi impercettibile. […] La familiare inavvicinabilità dell’effigie dell’Imperatore penetrò le anime delle generazioni, impregnandole fin dentro ai sogni. L’effigie diventò un modello. Le strade erano popolate di numerosi Franceschi Giuseppi. Dappertutto negli uffici si vedevano volti familiari e inavvicinabili, con la barba bianca spartita. Perfino i guardaportoni ai maestosi portali dei palazzi avevano la stessa maschera […].
Per ogni figura mitica viene il momento in cui gli uomini cominciano a dubitare della sua esistenza reale. Nel caso di Francesco Giuseppe ciò avvenne ancora durante la sua vita. Circolò la leggenda che l’imperatore fosse morto da un pezzo e sepolto a Vienna nella tomba di famiglia della cripta dei Cappuccini; e che la sua parte fosse poi sostenuta da uno dei tanti pseudo-volti imperiali, da un funzionario cioè d’infima categoria. Questa leggenda fu diffusa dagli avversari della monarchia e fatta circolare come moneta umoristica. La sua verità simbolica faceva piacere: l’Impero è morto e la sua vita non è più che un’apparenza fallace. Ma era necessario che l’Impero fosse morto, se dovevano cominciare a esistere le unità demoniache. E queste urgevano rabbiosamente.
Gli avversari di Francesco Giuseppe hanno odiato in lui non l’uomo, ma l’idea. Come uomo «non c’era nulla da ridire sul conto suo». Questa frase fatta ha qui un significato profondo. Il sacro compito di Cesare consisteva nel superare tutto ciò ch’era personale, nel trasformarsi, mediante un incessante dominio su sé stesso, in principio, in legge per un Impero di popoli, che a loro volta si trasformavano e si sublimavano. Non essere personale, non essere umano era il dovere personale di Cesare. Egli lo ha adempiuto, tendendo inflessibilmente a trasformare la propria natura terrena in una specie di recipiente dell’idea imperiale. Francesco Giuseppe non fu un ingegno singolare e meno che meno filosofico. La sua condotta non risultò da una coscienza, da un riconoscimento dell’idea, bensì dalla logica dei fatti e da un’intima e fine sensibilità per la realtà malaticcia del suo regno.
Non c’era nulla da ridire sul conto suo. È vero. Nei settant’anni del suo governo egli firmò meno sentenze di morte che non gli uomini oggi al potere in un mese. E tuttavia nessuno che l’abbia conosciuto a fondo gli attribuisce il merito di una singolare bontà. Egli conservava la distanza senza riguardi, anche di fronte a coloro che gli erano vicinissimi e lo servivano da parecchie decine d’anni. Si dice che solo in casi di estrema rarità egli abbia porto la mano a uno dei suoi sudditi (e i cinquantadue milioni d’abitanti della monarchia gli erano tutti sudditi). Eppure nei suoi occhi azzurri, sotto le folte sopracciglia bianche, non si leggevano certo freddezza e durezza.
All’uomo Francesco Giuseppe era toccata una sorte terrena ben poco felice. A diciott’anni perdette la sua giovinezza per la dignità imperiale. Sposò giovane una donna che amò davvero fino all’ultimo respiro di lei. Ma Elisabetta [«Sissi» di Wittelsbach (1837-1898)] si rivelò ben presto creatura eccentrica ed esaltata, incapace di amare, o che per lo meno non ricambiò l’amore di suo marito. L’Imperatore, che si era imposto come legge il superamento di ogni caratteristica personale, ebbe in moglie una spiccatissima «personalità», una «donna interessante e distinta», come veniva ufficialmente indicata con una definizione che ispirava rispetto ai letterati, ma doveva riuscire penosissima al monarca.
Francesco Giuseppe, natura semplice, anelava a una idilliaca vita familiare. Elisabetta gliela negò. Ella si tenne lontana da lui, col corpo e con l’anima. Era sempre in viaggio. Passò anni e anni sul suo yacht, nel suo castello di Corfù, in metropoli e luoghi di cura. L’Imperatore tollerò questa compromettente irrequietudine di vita. Non esiste una sola testimonianza della sua disapprovazione, una sola prova della più lieve lagnanza o accusa. Ci sono invece innumerevoli lettere e telegrammi alla consorte lontana, che esprimono senza rimprovero la più tenera sollecitudine, fino al giorno dell’assassinio di Ginevra.
Francesco Giuseppe perdette di morte innaturale le tre persone che gli stavano più vicine. La prima fu [il fratello] Massimiliano [1832-1867] del Messico, carattere non meno ambizioso che fantastico, il quale in parte per follia romantica, in parte per la sua tragica posizione di fratello minore, si assunse una missione impossibile, di cui egli meno di ogni altro poteva essere all’altezza. Morì a Queretaro sotto le palle del plotone d’esecuzione messicano, dinanzi ai cui fucili l’aveva mandato [Benito Pablo] Juarez [Garcia; 1806-1872], il dittatore nazionale. Tre decenni dopo cadeva l’Imperatrice, questa donna lontana, eternamente errabonda e tuttavia molto amata, vittima, a Ginevra, dell’attentato senza senso di un anarchico, [Luigi] Luccheni [1873-1910].
Ma il colpo più grave del destino fu l’oscura fine di Rodolfo [1858-1889], principe ereditario e unico figlio. Fino ad oggi non è ancora stato chiarito in modo convincente se la coppia di Mayerling abbia chiuso la sua vita con un suicidio comune, o se sia avvenuto allora un misterioso assassinio, in cui s’intrecciarono propagandisticamente amore e politica. Fu l’Imperatore stesso a cancellare per sempre le tracce della verità. In questo caso egli si mostrò molto duro e diede un ordine, che avrebbe fatto onore a Filippo II di Spagna [1527-1598]. Volle che il cadavere di Maria [Alexandrine Freiin von] Vetzera [1871-1889], l’amante di Rodolfo, fosse vestito, posto in una vettura di piazza e, sorretto a destra e a sinistra da due cavalieri, fatto passare di gran galoppo in mezzo a una spalliera di curiosi. Nessuno doveva mettere questa infelice fanciulla in relazione con la morte del principe ereditario, vittima di un incidente di caccia, come la leggenda dell’Altissimo voleva che si credesse.
Tre morti cruente e al tempo stesso tre «sensazioni» europee di prim’ordine. La morte di Rodolfo, truce scandalo, benvenuto bottino della stampa mondiale. La morte di Massimiliano, esecuzione di un Asburgo, di un principe imperiale, fallimento di un inetto, quindi episodio profondamente compromettente per il fratello regnante. La morte di Elisabetta per il pugnale di un miserabile pazzo, fine simbolica di una «donna incompresa», eternamente in fuga dal marito troppo frigido, quale oggetto di compassionevole considerazione, d’importuna partecipazione, di strizzatine d’occhio da gente che la sa lunga, per i cronisti d’appendice! Cesare, il superatore di ogni elemento personale, il cui Io umano si era già quasi completamente risolto nel Noi maestoso, Cesare doveva diventare oggetto di «sensazioni» cruente nell’ambiente suo più privato. Pareva che il destino avesse congiurato di mettere continuamente alla prova la portata della sua imperiale impersonalità.
Francesco Giuseppe superò la prova. Non abbiamo nessun documento del suo dolore e della sua vergogna, nulla che sia uscito dalla sua mano o dalla sua bocca. Le uniche parole che si tramandano, stranamente lapidarie, sono quelle ch’egli avrebbe pronunciate dopo ricevuto il terribile telegramma di Ginevra: «Proprio nulla mi è risparmiato». Questo sobrio gemito fu tutto ciò che i popoli dell’Austria poterono udire del suo sentimento più profondo. Ma allora Francesco Giuseppe non sapeva ancora che questo suo sobrio gemito di uomo doveva ben presto valere anche per Francesco Giuseppe imperatore.
Per tutto il tempo interminabile del suo governo, egli aveva conservato l’Impero, aveva prolungato fino all’estremo limite il crepuscolo del suo mondo. Aveva superato un colpo via l’altro con calma tenacia: la perdita di Milano e di Venezia, la sconfitta di Sadowa [o Königgrätz, in Boemia, 1866] inflittagli dai prussiani, l’infausto scindersi dell’Impero dovuto all’impulso di predominio dei magiari, gli attacchi sferrati dal fanatismo nazionale delle altre unità demoniache. A questa dinamica sferzata dall’odio egli contrappose una statica saggia e grandiosa, che si manifestò in una magistrale abilità di procrastinare le soluzioni, di scansare e lasciar sbriciolare i conflitti.
Questa statica nell’irriverente vocabolario dell’Austriaco fu caratterizzata col concetto classico del «fortwursteln» — caratteristica espressione austriaca, che significa «tirar avanti in qualche modo, tirare a campare» — Francesco Giuseppe sapeva che bastava un passo a condurre nell’abisso. Ma egli, ottantenne, poteva sperare di non dover compiere questo passo. Quando sarebbe venuta finalmente la morte liberatrice, per sciogliere l’anima di Cesare da sette decenni di spaventosa responsabilità? Se la sbrigasse poi il suo successore, quell’uomo avido di potere, iracondo, già, con narici tremanti, in agguato della tarda eredità.
Allora avvenne la catastrofe di Sarajevo [in Bosnia-Erzegovina]. La coppia dei principi ereditari morì colpita dalle rivoltellate di un fanatico nazionale serbo. Dopo un momento di costernazione, un’ondata d’isterica frenesia, di forza e di tracotanza pervase ben presto certi strati della monarchia. «Basta» si diceva «non possiamo aspettare oltre, dobbiamo dimostrare al mondo, prima che sia troppo tardi, che siamo una grande potenza». Geniali generali di manovre videro giunto il loro «adesso o mai». Ministri reazionari, stanchi dell’abile procrastinare, si compiacquero di fare gli uomini forti alla maniera prussiana. Aizzatori reazionari d’ogni genere videro il miraggio di rosei risultati. Ma in fondo ardeva la speranza delle preminenti nazioni tedesca e magiara di sopraffare completamente mediante una guerra vittoriosa le altre razze dell’Impero.
È impressionante pensare che fra tutti quegli uomini politici e quei generali follemente illusi, in quella caldaia da streghe dell’opinione pubblica eccitata si trovasse un uomo solo, che vedeva, prevedeva tutto, un uomo che presentiva fino in fondo tutta l’amara verità. E quest’uomo aveva ottantaquattro anni. L’antichissima idea imperiale, l’idea dell’unificazione e del compito educativo, non viveva ormai più che in un vecchio cuore, nel cuore di Cesare. Questi sentiva chiaramente che l’idea non esigeva che per amore del principe ucciso si mettesse in gioco l’esistenza della monarchia. Anche l’eccitazione nazionalistica di un piccolo popolo non costituiva motivo di arrischiare la vita, poiché tutti i popoli, dentro e fuori dei confini, erano in preda a eccitazione nazionalistica. La sacra idea dell’Impero aveva superato in pace tutte le malattie della storia. Perché no anche questa? Ecco ciò che doveva sentire l’imperatore. Ma egli sapeva che ogni passo, anche il più piccolo, era un passo nell’abisso.
[…] Firmare, con un lieve slancio mettere sulla carta il nome Francesco Giuseppe, fu una funzione essenziale del suo servizio per sette decenni. Ora la terribile opera anche di questa firma è compiuta: egli solo sa che essa è una sentenza di morte per il suo regno. Allora l’Imperatore si alza e pronuncia le seguenti parole, testificate: «Se dobbiamo andare alla rovina, sia almeno con decoro…» […].
VI
Non fu l’ultima firma di Francesco Giuseppe. Per due anni ancora egli sedette instancabile al suo scrittoio dalle cinque del mattino, e firmò atti, decreti, ordini dolorosi del tempo di guerra. […] Ma un giorno non poté più. La mano tremante rifiutò l’eterna firma. Egli dovette coricarsi. La sonnolenza della morte era diventata più forte della sua volontà. Le ultime parole pronunciate dall’Imperatore furono rivolte al suo fedele cameriere, di nome [Eugen] Ketterl. […] «Ci sono molti lavori arretrati da finire…» mormorò il morente, «quindi prego di svegliarmi domani un’ora prima…» […].
La grandiosa pompa funebre non venne punto favorita dalla grazia di un vero «tempo imperiale». Dal cielo tambureggiava fitta una pioggia inesauribile. […] Lungo le strade e le piazze, su cui doveva svolgersi l’ultimo tragitto dell’Imperatore, stava schierata su molte file la spalliera delle truppe […]. Dietro la spalliera delle truppe si accalca il popolo viennese, non più una folla gaudente, ma una massa grigia, oppressa. Cittadini vestiti di nero con la fascia da lutto e il cilindro spiccavano fra gli altri. Non si curavano della pioggia. Molti piangevano. Cesare era morto e si sentiva nell’aria la minaccia di un terribile risveglio. […]
Il convoglio con la salma di Cesare sostò al Mercato Nuovo davanti al convento dei Cappuccini, che custodiscono nella loro cripta le spoglie mortali dei sovrani asburgici. La bassa porta del convento è chiusa, come se oggi fosse un giorno simile a tutti gli altri. Allora si avanza il primo intendente di corte dell’Imperatore e col suo bastone delle cerimonie bussa imperioso alla porta di legno. Dall’interno echeggiante dell’atrio del convento risuona la voce di un monaco: «Chi chiede di entrare?»
L’intendente di corte si rizza nella persona e risponde chiaro e reciso, accentuando ad alta voce ogni sillaba del seguente «Gran Titolo»: «Sua Maestà apostolica imperiale e reale Francesco Giuseppe, Imperatore d’Austria, Re d’Ungheria, Re di Boemia, Re del Lombardo-Veneto, Re di Galizia e Lodomeria, Re di Croazia e Slavonia, Re di Gerusalemme, Granduca dell’Austria superiore e inferiore, Duca di Stiria, Salisburgo, Carinzia, Carniola e della Marca Slovena, Duca di Slesia, Duca di Bucovina, Margravio di Merovingia, Conte principesco del Tirolo, Signore di Trieste».
Ancora una volta l’Impero fiammeggia, nei nomi dei Paesi indicati dal Gran Titolo, in tutta la sua grandezza e la sua gloria. Ma la voce del monaco invisibile risponde: «Non conosco costui».
L’intendente di Corte bussa per la seconda volta! Seconda domanda del monaco! L’intende risponde col cosiddetto «Piccolo Titolo», che è una modesta concentrazione del Grande. Ora l’Impero viene ristretto ai nomi e alle dignità più importanti. E di nuovo la voce del monaco: «Non conosco costui».
L’intendente batte per la terza volta! Terza domanda del monaco! Terza risposta: «Un povero peccatore!»
«Conosco costui!»
La porta del convento si apre. Alla luce fumosa delle fiaccole, l’imperatore e il suo Impero scendono vacillando entro la cripta dei padri. Il crepuscolo ha ceduto alla notte.
Note:
(1) La regione dell’Alta Austria comprendente il Salisburghese e la Stiria.
(2) Vi è qui un’allusione esplicita all’ideologia nazionalsocialista che al lettore italiano del secolo XXI potrebbe sfuggire. Il binomio Blut und Boden, «sangue e suolo», fu infatti utilizzato da Adolf Hitler (1889-1945) e da Joseph Goebbels (1897-1945), ministro della Propaganda del Terzo Reich, per indicare le basi programmatiche su cui costruire la nuova Grande Germania. In lingua italiana, è disponibile sul tema il testo [Richard] Walthe Darre (1895-1953), La nuova nobiltà di sangue e di suolo, trad. it., Ritter Milano, 2010. L’autore è stato ministro dell’Agricoltura nella Germania nazionalsocialista.
(3) Il pensiero di Werfel è globalmente caratterizzato dalla dicotomia fra impero e nazione, ovvero dalla contrapposizione fra un’idea di potere sovranazionale, religiosa, e l’irrazionale barbarico istinto nazionalistico. Quest’ultimo, dopo aver insanguinato l’Europa nel secolo XIX ed essere stato concausa della Prima Guerra Mondiale, proprio negli anni in cui Werfel scriveva questo saggio, si era incarnato in Germania in una delle sue forme più parossistiche.
(4) L’autore allude alla Prima Guerra Mondiale (1914-1918).
(5) Il sovrano fu «Francesco I» come imperatore d’Austria dal 1804 alla morte e «Francesco II» come imperatore dei Romani dal 1792 al 1806.