Prof. Adriano Dell’Asta
A venti anni di distanza celebriamo la caduta di quello che fu definito «il muro della vergogna»; era stato tracciato in una notte, il 13 agosto 1961 (era una domenica, scelta appositamente contando sulla distrazione festiva della gente), e sarebbe crollato appunto vent’anni fa il 9 novembre 1989, dopo una disonorevole esistenza nella quale causò un numero di morti che oggi appare «irrisorio», specie se paragonato a tanti avvenimenti recenti: secondo i calcoli più pessimistici, 227 persone.
È chiaro, ogni vita umana perduta è una tragedia, tanto più se viene persa in circostanze come quelle di cui stiamo parlando; e ciascuna di queste morti fu evidentemente una tragedia, accompagnata da innumerevoli altre, ma questo non basta ancora a descrivere quello che fu il muro, la cui storia fu segnata soprattutto da un’altra tragedia, meno immediatamente toccante ma non meno devastante a lunga distanza: la gente, non solo quella che voleva abbandonare un certo sistema politico o economico, ma tutta la gente, anche quella parte di popolazione che si era rassegnata a vivere in quel sistema, venne quasi completamente defraudata della propria speranza, costretta a vivere in un mondo nel quale all’uomo non era tolta soltanto la libertà (dalla libertà di parola alla libertà di impresa e di spostamento), ma era tolta soprattutto la sua umanità quotidiana, la possibilità stessa di avere dei rapporti umani normali, nei quali l’altro non fosse guardato costantemente come la fonte di un possibile tradimento: era il fratello che tradiva il fratello, la moglie che ripudiava il marito arrestato, il figlio che denunciava il padre.
Forse qualcuno ricorda la storia di Pavlik Morozov, il quattordicenne sovietico che veniva indicato dalla propaganda come un eroe e un modello della gioventù comunista ed era diventato tale dopo essere stato ucciso dai suoi parenti, esasperati dal fatto che il piccolo Pavlik avesse denunciato il padre che aveva sottratto al partito del grano con il quale sfamare la famiglia; ma senza andare a questi episodi estremi, che forse sono solo un’invenzione della stessa propaganda sovietica e risalgono ancora all’epoca di Stalin, basterà ricordare una storia narrata da Osvaldo Figes nel suo ultimo libro, appena uscito in italiano col titolo molto indicativo di Sospetto e silenzio. È la storia di Antonina Golovina, una cittadina sovietica come tantissime altre; nella sua vita ha avuto due mariti, con ciascuno dei quali è vissuta per non meno di vent’anni, conservando poi con il primo dei rapporti amichevoli anche dopo la separazione; sia Antonina che i suoi due mariti hanno avuto l’infanzia segnata dai campi di lavoro e dalle deportazioni forzate cui erano soggetti i cosiddetti «nemici del popolo», ma, dando una dimostrazione sconcertante di cosa significasse vivere in quel tipo di regime, nessuno ne ha mai parlato al rispettivo coniuge prima della caduta del muro, e quello che è ancora più impressionante è che Antonina e il suo primo marito non raccontarono nulla di tutto ciò alla loro figlia Ol’ga sino alla metà degli anni Novanta: anche dopo la fine dell’Unione Sovietica ritennero opportuno tenere nascoste certe vicende, nell’eventualità che il sistema fosse rinato e che la conoscenza di questi particolari potesse diventare pericolosa. Ma lasciamo anche l’Unione Sovietica e il suo totalitarismo, sicuramente più compiuto e duraturo di quello che si realizzò negli altri paesi del blocco sovietico; c’è un episodio che mi ha colpito nel 2006, quando venne commemorata un’altra tragedia, quella della rivoluzione ungherese del 1956. Tra le tante cose interessanti che vennero pubblicate allora c’era un bel libro di fotografie (Z. Bayer, 1956, “…Perché rimanga un segno”); all’inizio di questo libro si accenna brevemente alla storia delle sue immagini, dicendo che erano state tenute a lungo nascoste per paura. Poi, crollato l’impero sovietico, la vedova del fotografo si era finalmente decisa a consegnare le pellicole, perché potessero essere pubblicate; a una sola condizione, però, si dice nell’introduzione al volume: «non deve essere reso noto né il suo nome né quello di suo marito. “Perché se quelli dovessero ritornare”, disse, guardando a lungo la terra davanti a sé». La paura restava a condizionare la vita anche dopo che il regime era scomparso da tempo e in maniera ormai evidentemente irreversibile, almeno per l’Ungheria.
Prima della caduta del muro, si poteva anche decidere di non rischiare la vita per abbandonare questi paesi, ci si poteva anche restare, ma restarci non significava vivere, per molti era una morte protratta e ripetuta nel tempo: la paura era la norma della vita.
Potremmo continuare a lungo per cercare l’indignazione, il disgusto e la condanna più dure, ma ci fermiamo qui perché comunque questo non basterebbe a farci capire veramente quello che è successo e a rendere la nostra memoria di oggi qualcosa di più di una celebrazione, pur sentita e doverosa, ma tutto sommato sterile. Del resto, a parte il fatto che la condanna del muro della vergogna è oggi diventata quasi un luogo comune anche per quelli che lo avevano costruito o lo avevano tollerato senza eccessivo sforzo, è un fatto che neppure la sua condanna più dura è mai bastata a scalfirne le fondamenta.
Nessuno può dubitare a questo proposito della durezza con la quale il presidente Kennedy condannò il muro nel suo famoso discorso berlinese del 26 giugno 1963, quello dell’«ich bin ein berliner» («Ogni uomo libero, ovunque viva, è cittadino di Berlino. E, dunque, come uomo libero, sono orgoglioso di dire “Ich bin ein Berliner”»). Secondo quello che si dice, fu un discorso almeno in parte improvvisato e più duro di quello preparato in precedenza; appunto in una di queste parti che si ritengono improvvisate e che, se furono veramente tali, denotano in Kennedy un vero maestro della retorica comunicativa, noi leggiamo: «Ci sono molte persone al mondo che non capiscono, o che dicono di non capire, quale sia la grande differenza tra il mondo libero e il mondo comunista. Che vengano a Berlino! Ce ne sono alcune che dicono – ce ne sono alcune che dicono che il comunismo è l’onda del futuro. Che vengano a Berlino! Ce ne sono alcune che dicono, in Europa come altrove, che possiamo lavorare con i comunisti. Che vengano a Berlino! E ce ne sono anche certe che dicono che è vero che il comunismo è un sistema malvagio, ma ci permette di compiere progressi economici. Lasst sie nach Berlin kommen! Che vengano a Berlino!». La condanna è chiara, dura e poi viene costantemente ripresa: il muro per Kennedy è davvero una vergogna.
Eppure questo stesso Kennedy, quando era stato informato della costruzione del muro aveva reagito in maniera ben diversa, quasi tirando un sospiro di sollievo: «Non è una bella soluzione – aveva detto – ma un maledetto muro è sempre meglio di una guerra. […] Questa è la fine della crisi di Berlino. Sono stati loro a farsi prendere dal panico, non noi. Non faremo nulla, perché non esiste alternativa alla guerra: è tutto finito, non invaderanno Berlino».
A Berlino nel 1963 avrebbe dunque cambiato idea, assumendo un anticomunismo più duro di quello che pure lo aveva portato alla Baia dei Porci? O c’era il cinismo che in seguito sarebbe riaffiorato molte volte in altri personaggi dell’amministrazione americana, quando di fronte a situazioni simili se la cavavano con uno sgradevole: «sono affari loro»? Probabilmente, parlando di Kennedy e della sua posizione di fronte al muro di Berlino, sono sbagliate tutte e due queste ipotesi; credo che, molto più semplicemente, nel 1961 Kennedy guardasse alla vicenda del muro con il realismo di chi sapeva che in quelle condizioni c’era davvero da temere lo scoppio di una guerra, perché davvero il mondo era diviso in due sfere di influenza e non lo era per caso o per necessità naturale, ma perché quella era la situazione che era stata sancita dagli stessi alleati occidentali, ben prima di Kennedy, da Jalta in poi. C’era dunque motivo di tirare un sospiro di sollievo e di continuare a dire che il muro era una vergogna.
Solo che a questo punto denunciare la vergogna del muro poteva anche diventare un modo per coprire una vergogna più antica: la propria o, meglio, le proprie, perché l’occidente poteva davvero far finta di credere che Jalta fosse stata inevitabile, che non fosse possibile a quel punto cacciare l’Unione Sovietica dalle posizioni che aveva conquistato sul campo, ma certo questa scusante non poteva e non può essere invocata quando si tratta di altri cedimenti dell’occidente di fronte al totalitarismo sovietico. Penso qui in particolare al fenomeno che consegnò nella braccia di Stalin milioni di russi che in diverse maniere si erano trovati alla fine della guerra in campo occidentale: erano collaborazionisti del regime nazista che si erano consegnati agli alleati occidentali, ma erano anche gente comune che era stata costretta a lavorare per i tedeschi, gente che non voleva più essere schiava del comunismo, ex prigionieri dei tedeschi che (invece di guardare con rispetto e compassione ) Stalin considerava traditori perché non si erano fatti ammazzare, gente che era uscita dalla Russia subito dopo la rivoluzione e che quindi non aveva mai avuto la cittadinanza sovietica, come non l’avevano avuta i loro figli, nati ormai nell’emigrazione; tutti (salvo qualche rara eccezione) furono restituiti indiscriminatamente ai sovietici, rivelando da parte dell’occidente un’arrendevolezza che nessuna scusante può giustificare: qui non si trattava di strappare a Stalin qualcosa su cui poteva vantare un qualche diritto di conquista, ma di non dargli qualcosa che in molti casi non aveva nulla a che fare con l’Unione Sovietica, degli esseri umani che, si sapeva benissimo, sarebbero stati trattati contro ogni regola di umanità e al di fuori di qualsiasi legalità.
Per giustificare questo comportamento venne e viene addotta la necessità di farsi restituire dai sovietici i prigionieri occidentali che i sovietici stessi avevano strappato dai campi nazisti; è una giustificazione discutibile, perché si sa che c’erano altre corde alle quali i sovietici erano molto sensibili: come avrebbe dimostrato la storia di molte fuoriuscite dalla DDR, là dove il muro era invalicabile, il denaro poteva diventare un ottimo mezzo di persuasione, non attraverso operazioni clandestine o malavitose, ma nel quadro di scambi più o meno ufficialmente concordati ai massimi livelli governativi.
Quello che invece non è discutibile è che questo giustificazionismo, che continua ancora oggi e che tende a cancellare dalla memoria tante viltà, rese l’occidente debole: l’idea che il fine giustifica i mezzi avvelena sempre chi si ripara dietro di essa perché rende debole il rapporto con il fine e con la verità in nome dei quali ci si vuole giustificare, e il veleno è tanto più letale quando si ha di fronte qualcuno per il quale non esiste più nessuna verità alla quale rispondere. Come ci ha insegnato l’intuizione artistica di Vasilij Grossman, quello che è maggiormente tragico nel carnefice totalitario, quello che è più pericoloso in lui non è il male che commette, ma il bene in nome del quale agisce. «Sapete voi cosa c’è di più ripugnante nei confidenti e nei delatori? Quel che di cattivo c’è in loro, penserete voi. No! Il più terribile è ciò che v’è di buono in loro; la cosa più triste è che sono pieni di dignità, che sono gente virtuosa. Essi sono figli, padri, mariti teneri e amorosi… Gente capace di fare del bene, di avere grande successo nel lavoro. Essi amano la scienza, la grande letteratura russa, la bella musica, alcuni di loro esprimono con intelligenza e coraggio il loro giudizio sui più complessi fenomeni della filosofia e dell’arte moderne… E quali devoti, buoni amici si riscontrano fra di loro […]. Quali pazienti intrepidi soldati fra di loro […]. E quali poeti, musicisti, fisici, medici di talento vi sono fra di loro, quali abili fabbri, falegnami […]. Questo appunto è il terribile: molto, molto di buono v’è in loro, nella loro stoffa umana».
Il nichilismo delicato di chi crede che in qualche caso il fine possa giustificare i mezzi è impotente di fronte al nichilismo scatenato di chi crede che tutto possa essere giustificato. Se nel secolo scorso il nazismo e il comunismo hanno fatto milioni di vittime non è perché avessero a disposizione mezzi di distruzione superiori a quelli del passato, o perché proprio allora fossero nati sistemi particolarmente tirannici: dispotismi, dittature, tirannie sono sempre esistite, ma il XX secolo ha portato una novità che non si era mai vista prima, la giustificazione di tutto ciò, l’ideologia, una giustificazione così radicale e irresponsabile che finisce col sostituirsi a tutto, al fine, ai mezzi, alla realtà, che vengono eliminati a favore del puro discorso ideologico: non conta più il male reale che soffriamo, e non importa nemmeno la felicità immaginata che non abbiamo, importa che questa felicità sia cantata e che ci rallegri non la sua realtà inesistente, ma il fatto che la cantiamo: «La vita è diventata migliore, compagni, la vita è diventata più allegra», diceva uno slogan staliniano nel cuore delle carestie e delle purghe che negli anni Trenta mietevano vittime a milioni; e Solženicyn commentava: «L’ideologia! È lei che offre la giustificazione del male che cerchiamo e la duratura fermezza occorrente al malvagio. Occorre la teoria sociale che permetta di giustificarci di fronte a noi stessi e agli altri, di ascoltare, non rimproveri, non maledizioni, ma lodi e omaggi».
Qui non è ancora questione di morale; la debolezza che viene prodotta in chi diventa schiavo di questo tipo di mentalità è una debolezza molto concreta e utilitaristica che, tornando al muro di Berlino, si tradusse e si manifestò nell’incapacità occidentale di vedere e di sfruttare le debolezze del nemico, perché la DDR poté sopravvivere per decenni a un occidente infinitamente più ricco e produttivo, ma in realtà era condannata da una debolezza infinita: era un paese che aveva gestito e dilapidato le sue ricchezze come solo una banda di delinquenti può fare. Come è stato recentemente precisato, parlando della situazione economica della DDR all’alba del suo crollo, «il paese andava verso il fallimento come un cavallo al galoppo verso un precipizio. Più della metà delle strutture industriali erano classificabili come rottami. Il 53,8 per cento dei macchinari era da demolire o riparabile solo a un prezzo assurdamente elevato. Metà delle infrastrutture dei trasporti era in declino. La produttività era inferiore del 40 per cento a quella dell’ovest. Il debito pubblico era salito da 12 miliardi di marchi nel 1970 a 123 nel 1988. In quello stesso periodo, i debiti nei confronti di Stati capitalisti e banche avevano registrato un incremento da 2 a 49 miliardi di marchi occidentali».
Questa situazione aveva svuotato un paese che non aveva speranze sin dalla sua nascita: tutti se ne andavano al punto che la DDR era destinata a scomparire: nel 1953 «quasi in 400.000 andarono all’ovest. Nel 1954 si scese a meno di 200.000, per poi riprendere a salire: 250.000 all’anno per il successivo triennio. Dalla fondazione della DDR sino alla fine del primo anno di servizio di Honecker come segretario della Sicurezza (1958), 2 milioni e 100.000 tedeschi fuggirono. Quasi 1 milione sarebbe partito nei successivi tre anni. Nei primi dodici anni della sua esistenza, la DDR perse circa un sesto della popolazione». Tra il giugno e i primi di agosto del 1961, la quantità di gente che se ne andò era tale che «se la situazione si fosse protratta per un anno, si sarebbero raggiunte le 500.000 [persone], facendo apparire insignificante persino la cifra dell’annus horribilis 1953».
Ma invece di crollare, come sappiamo, la DDR continuò ad esistere per molti anni ancora, e a contrabbandare ancora per molti anni il mito del suo successo, un mito che non poté sopravvivere se non per la complicità di molti occidentali, che (va sottolineato) spesso erano tutt’altro che comunisti. In effetti, conoscendo la situazione reale, si può restare stupefatti all’idea che nel luglio del 1958 Ulbricht abbia potuto dichiarare che presto la DDR avrebbe superato la Germania Federale «nella produzione di generi alimentari e di beni di consumo» e che qualche settimana dopo abbia anche specificato che «le due Germanie avrebbero raggiunto la parità economica già nel 1961»; ma non ci sono parole per qualificare l’intelligenza di chi, alla fine degli anni Settanta, nella Banca Mondiale, pubblicò dei dati in base ai quali si arrivò a concludere che la DDR aveva «un tenore di vita, in reddito pro capite in dollari, superiore alla Gran Bretagna».
Per non far cadere questo castello di carte nel quale le dimensioni reali dei successi e degli insuccessi erano sostituite dalle cifre riferite da statistiche del tutto inventate, l’occidente doveva essere non meno schiavo del principio ideologico in base al quale il reale vale sempre meno della sua rappresentazione; e così il muro è durato quasi trent’anni. Poi è crollato, quasi all’improvviso, quando nessuno se lo aspettava e quando l’aggressività del sistema comunista sembrava non avere limiti: dall’Asia, all’Africa, all’Afghanistan.
Paradossalmente un principio di spiegazione a quello che sembra inspiegabile può venire solo da quanto accadde in quegli anni di più sorprendente e apparentemente inspiegabile. Il muro è caduto dopo una presidenza americana radicalmente anticomunista succeduta a vent’anni di distensione a senso unico, è caduto sotto i colpi di questa presidenza, ma senza colpo ferire, e sotto un pontefice che aveva fatto del motto «Non abbiate paura!» la norma di una vita che tornava ad essere possibile là dove, come abbiamo visto, la paura sembrava e sembra invincibile.
Nel tempo che mi resta voglio soffermarmi su questi tre elementi non sempre presi in considerazione o il cui significato comunque è spesso ridotto.
La presidenza Reagan, innanzitutto; tutti più o meno riconoscono il ruolo di questo personaggio, inizialmente guardato con molta sufficienza (un attore che non era mai andato oltre i film di serie B, al massimo un buon caratterista, si diceva) e poi rivelatosi un politico geniale. La sua scelta di sfidare l’Unione Sovietica con il miraggio dello scudo stellare fu appunto semplicemente geniale: lo scudo era irrealizzabile, ma gli Stati Uniti potevano reggere il gioco a livello economico e tecnologico, mentre l’Unione Sovietica non poteva farlo, e alla fine perse la partita. Quello che spesso sfugge è che la vittoria non fu di carattere militare e, a ben vedere, neppure di carattere economico o politico; semplicemente Reagan, come un buon giocatore di poker, andò a vedere il bluff sovietico e vide che il re era nudo, che quella che si presentava come una potenza invincibile era invece un colosso dai piedi d’argilla; un buon giocatore o, più seriamente, un uomo di buon senso che, dopo decenni in cui si giocava con le regole dell’ideologia, tornò a chiedere che si giocasse tenendo presente la realtà. In fondo era quello che aveva fatto Kennedy nella crisi missilistica di Cuba del 1962: anche allora era andato a vedere il gioco (in quel caso di Chruščëv) e si era visto che l’Unione Sovietica non poteva reggere lo scontro perché la sua potenza militare era molto al di sotto di quello che millantava (e anzi proprio per superare quel deficit Chruščëv si era imbarcato nell’avventura cubana); poi la partita, rilanciata a Berlino nel 1963, come sappiamo, venne interrotta: venne interrotta dalla morte di Kennedy ma, prima ancora, da un’incapacità di uscire da quello che allora si chiamava l’equilibrio del terrore: i due mondi continuavano a confrontarsi militarmente e a nutrire una reciproca abissale sfiducia.
Alla fine arrivò Reagan; si noti, un militarista anticomunista (un cow-boy), dopo che l’equilibrio del terrore si era costantemente accompagnato con una distensione a senso unico, quasi che questo – il disarmo unilaterale – potesse essere l’unico strumento per uscire dalla minaccia della guerra; e qui sarebbe interessante seguire anche questo paradosso della presidenza Reagan: l’anticomunista viscerale che presentava il comunismo come l’impero del male diede invece a Gorbačëv un credito personale che prima di allora nessun pacifista aveva mai dato a nessun politico sovietico; e l’esito di questo credito fu il reale superamento, non a senso unico, dell’equilibrio del terrore. È il paradosso della caduta incruenta dell’impero del male e del regno del terrore, che inizierò qui ad affrontare in termini più generali e andando oltre la questione dei soli rapporti personali tra i due presidenti.
La questione della caduta indolore del sistema sovietico, a mio parere, non è ancora stata sufficientemente messa a tema. Certo si sono persino coniate nuove espressioni come «rivoluzione di velluto», ma non si è davvero cercato di capire cosa abbia significato il paradosso per cui negli anni Sessanta, mentre in tutto l’occidente democratico i movimenti di opposizione, pur potendosi esprimere liberamente, approdavano spesso alla clandestinità e alla lotta armata (IRA, ETA, BR, RAF, ecc.), all’est, invece, dove ogni opposizione era vietata e la società viveva in un clima di terrore e di violenza incredibili, l’opposizione stessa, costretta contro la sua volontà alla clandestinità, non solo non arrivò mai a teorizzare o a praticare la lotta armata, ma la escluse addirittura sin dall’inizio e in linea di principio. Non intendo trarre alcuna conclusione da questa osservazione, voglio solo sottolineare un fatto che merita di essere preso sul serio. Come merita di essere preso sul serio un altro fatto; all’inizio degli anni Ottanta, dopo le Olimpiadi di Mosca, il dissenso russo era stato praticamente sbaragliato, la sua sconfitta era evidente: i suoi principali rappresentanti erano stati indotti o costretti ad espatriare, oppure erano in carcere o al confino. Poi, anche qui improvvisamente, si cominciò a parlare di glasnost’: in occidente la parola evoca Gorbačëv e la perestrojka, il movimento che poi portò al crollo del muro e alla fine del regime; ma non possiamo dimenticare che la parola glasnost’ era stata una delle richieste del dissenso, molto prima di Gorbačëv (che per altro non solo non voleva neppure lontanamente rinunciare al comunismo ma, almeno agli inizi, non era neppure capace di concepire qualcosa di diverso). Non tirerò anche qui nessuna conclusione, ma solo la fondata ipotesi che il dissenso, sconfitto, avesse finito con l’imporre se non la propria mentalità per lo meno un’atmosfera. Lo stesso Sacharov aveva notato che la perestrojka si era appropriata di una parte delle idee del dissenso.
Non dimentichiamo poi che l’ultimo atto di Solženicyn dopo l’arresto e prima dell’espulsione in occidente fu la pubblicazione del suo appello a Vivere senza menzogna. Era stato arrestato, ma la paura umanissima per quello che lo aspettava non aveva avuto il benché minimo spazio nella sua reazione, che era stata preoccupata piuttosto di indicare ai propri connazionali come si poteva resistere al regime attaccandolo al suo stesso cuore. Questo cuore era la menzogna ideologica; da essa poteva nascere il regno del terrore. Ma questa paura, invincibile se si cercava di rispondere all’ideologia con un’altra ideologia, se si cercava di resistere all’ideologia ritagliandosi degli spazi di libertà particolare, scompariva non appena si andava al cuore della vicenda: non c’era bisogno di grandi gesti eroici o di escogitare nuove teorie rivoluzionarie, ma bastava tornare a guardare alla realtà per quello che era. Uno dei primi passi del disgelo era stato la pubblicazione di un articolo intitolato Della sincerità in letteratura; da quella sincerità, così difficile da definire e da raggiungere, al semplice Vivere senza menzogna di Solženicyn era cambiato un mondo: la gente non si era data un coraggio che solo degli eroi potevano avere, semplicemente aveva smesso di avere paura.
La memoria va qui inevitabilmente al ruolo di Giovanni Paolo II e al suo «Non abbiate paura!»: è l’ultimo elemento sul quale volevo soffermarmi: il ruolo del papa negli avvenimenti che stiamo ripercorrendo; questo motto indica qualcosa di più profondo del pur importante e decisivo sostegno che la persona di Giovanni Paolo II diede a movimenti come quello di Solidarność; per cercare di spiegare quello che intendo dire mi limiterò a riferire ciò che il cardinal Meisner, attuale arcivescovo di Colonia, ha recentemente raccontato a un giornalista che gli chiedeva di rievocare le sue reazioni alla notizia della caduta del muro. «L’ho sentita – dice il cardinale – il 9 novembre alle 17,00, e quindi ho disdetto un appuntamento che avevo alle 19,00, per poter vedere il notiziario in tutta tranquillità. Per essere sicuro che non stavo sognando, ho continuato per un bel po’ a darmi dei pizzicotti sulla mano. Ma un altro avvenimento successo poche settimane dopo mi ha colpito ancor più da vicino, e più fortemente. Ero in San Pietro a Roma, per la canonizzazione della beata Agnese di Praga. Agnese era una contemporanea di santa Chiara e di san Francesco, una grande donna: l’unica donna che abbia fondato un ordine maschile. Fra i cechi circolava la leggenda secondo cui, quando la beata Agnese fosse diventata santa, il popolo avrebbe ottenuto la libertà. Sono stato presente alla beatificazione e alla canonizzazione: a quest’ultima già come arcivescovo di Colonia. Dunque, ero seduto con tutti gli altri cardinali, quando improvvisamente è arrivato il segretario del papa e mi ha detto: “Il Santo Padre vorrebbe entrare nella basilica accompagnato da Lei. Lei ha aiutato tanto la povera Chiesa ceca”. Allora sono tornato indietro, e nel passaggio centrale vedo allineati a destra e a sinistra molti sacerdoti; e mi sono accorto che circa la metà degli oltre sessanta sacerdoti che avevo consacrato in segreto e che dovevano lavorare clandestinamente, erano lì presenti, assieme agli altri, e indossavano i paramenti. “Ma cosa vi è venuto in mente? Siete impazziti? Vi metteranno tutti dentro quando tornerete a casa”, ho detto loro. Al che mi hanno risposto che non sarebbero più ritornati nella catacombe, piuttosto in prigione. E che, del resto, “Una volta canonizzata la beata Agnese, il nostro popolo otterrà la libertà”. Ho fatto un respiro profondo e ho sentito un brivido corrermi lungo la schiena. Conoscevo la storia di ognuno di questi sacerdoti. Spesso nemmeno i loro genitori, i loro fratelli sapevano che erano preti. Al ricevimento del papa per la delegazione ceca era presente anche il ministro dei culti. Nel suo discorso il papa ha detto: “Signor ministro, quando tornerà a casa, troverà un altro paese. I santi cambiano la fisionomia di un popolo”. Il giorno dopo il nostro ritorno a casa, è incominciata la rivoluzione pacifica in piazza San Venceslao a Praga, sotto la guida di Vaclav Havel».
Se mi è permesso aggiungere qualcosa a questa testimonianza potrei dire che il senso del «Non abbiate paura!» di Giovanni Paolo II è tutto nella differenza tra i due commenti, quello dei preti clandestini, che sono disposti eroicamente a difendere una libertà nel cui arrivo miracoloso credono pur senza sapere perchè, e quello del papa che sa e ha quasi già visto che la libertà sta arrivando perché la forza dei santi ha cambiato il cuore dell’uomo, innanzitutto quello di quei preti clandestini; ma a quel punto non importa più essere eroi o meno, come non importa nemmeno essere particolarmente credenti, basta seguire la sete naturale del cuore, che non può più avere paura, cioè non può più sottomettersi a nulla di finito, perché è modellato sull’infinito che lo costituisce, sull’immagine di Dio che porta dentro di sé. E anche qui sarebbe da prendere sul serio la novità introdotta da Giovanni Paolo II, che tornava a parlare dell’immagine di Dio come fondamento dei diritti dell’uomo dopo secoli che negli stessi manuali di teologia il concetto era stato quasi dimenticato o veniva evocato solo per dire che l’immagine di Dio era stata offuscata o addirittura si era persa, dopo il peccato originale.
Quella che sto enunciando non è una pia esortazione morale, la cui realizzazione sarebbe del tutto opinabile e comunque significativa solo per dei credenti: è semplice cronaca. Lascio di nuovo la parola a un testimone oculare, anzi a uno dei protagonisti della rivoluzione pacifica della DDR nel 1989, Thomas Brose, membro ordinario dell’Accademia europea delle scienze e delle arti: «Certo l’esodo di massa attraverso l’Ungheria (in brevissimo tempo erano fuggiti all’Ovest 10.000 tedeschi dell’Est) e la miseria economica hanno contribuito a far implodere il sistema. Ma chi allora si era impegnato attivamente nella rivoluzione pacifica, lo sa per esperienza personale: gli avvenimenti non si sono mai svolti in modo automatico. A Berlino le persone brutalmente perseguitate dalla polizia cercavano rifugio nella Chiesa del Getzemani, e temevano che, se questa fosse stata espugnata, ci sarebbe stato uno spargimento di sangue. E il 9 ottobre il regime avrebbe voluto reprimere violentemente una volta per tutte la dimostrazione di lunedì a Lipsia: ma erano in troppi coloro che erano arrivati per dimostrare pacificamente con le candele in mano.
In quel periodo Angela Kunze, che pregava e digiunava nella chiesa del Getzemani a Berlino, era diventata un punto fermo della resistenza non violenta. Nel suo diario, il 10 ottobre annotava: “Dopo la funzione, alcuni se ne sono andati; altri, in compenso, sono entrati, la chiesa è rimasta completamente piena; fuori, in piedi, c’era una gran folla pacifica che brandiva le candele, e… niente polizia! Da Lipsia è arrivata la notizia: 70.000 persone in centro città, e la polizia non interviene. (…). Alle finestre delle case vicine sono accese candele dappertutto”.
“Eravamo pronti a tutto, ma non alle candele e alle preghiere”, avrebbe osservato in seguito con perspicacia un alto funzionario. Molti, che erano stati educati nello spirito dell’ateismo militante, nel 1989, per paura e per disperazione, avevano osato per la prima volta accendere una candela in una chiesa: meno male che lo si poteva fare quasi dappertutto. Cosa rimane di tutto questo? “Niente violenza!”: quel grido che ha aiutato una rivoluzione pacifica a scoppiare. “È stato un miracolo”, dicono in molti. E io non ho nulla da obiettare».
Ovviamente nemmeno io, anche perché un miracolo di questo tipo è molto più ragionevole di tante ricostruzioni che sono magari molto ingegnose ma non fanno i conti con fatti tanto clamorosi come il realismo non ideologico dell’anticomunista Reagan, il carattere indolore della caduta del muro e il ruolo di Giovanni Paolo II nella vittoria sulla paura che attanagliava sia l’est che l’ovest.
Una celebrazione ragionevole della caduta del muro deve necessariamente fare spazio a questo superamento della paura e a quella purificazione della coscienza dalla quale siamo partiti: come in Giovanni Paolo II, non è un segno di debolezza o la rinuncia alla propria identità ma, esattamente al contrario, la confessione di una forza che è più grande delle nostre virtù e dei nostri peccati e che, come nel caso delle rivoluzioni di velluto, ci può rendere capaci di una creatività sorprendente anche nei momenti di crisi più gravi.