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L’Italia del 2050: il futuro che ci aspetta

8 Febbraio 2018 - Autore: Maurizio Milano

di Maurizio Milano

Le previsioni demografiche descrivono l’Italia di domani come una vecchia signora. Estrapolando le tendenze attuali, cioè risalenti a stime per il 2016 ‒ età media 44,9 anni; tasso di fertilità 1,34 figli per donna; deficit annuale nati-morti pari a 134.000 unità; anziani 22,3% del totale, con 39 pensioni erogate e 27 pensionati ogni 100 abitanti ‒, l’Istituto Nazionale di Statistica, ISTAT, prevede che gl’italiani del 2050 saranno molti meno di oggi e ancora più anziani: il 34% sul totale della popolazione, che si appoggerà a una fascia ristretta di giovani e di giovanissimi, con 60 anziani (oggi sono 35) ogni 100 persone in età lavorativa (addirittura 1,6 milioni di persone in meno nella fascia 35-44 anni), con un bilancio annuo nati-morti in deficit di 400mila unità e, rispetto a oggi, 640mila bambini in meno nella fascia 0-9 anni, 800mila ultra-novantenni e 46mila ultra-centenari in più. Ne ha fatto stato Gian Carlo Blangiardo, docente di demografia nell’Università degli Studi di Milano Bicocca, al convegno Oltre l’inverno demografico svoltosi a Roma il 27 gennaio per iniziativa di Alleanza Cattolica e del Comitato Difendiamo i Nostri Figli.

Si tratta di un vero e proprio «[…] suicidio demografico», come denunciato profeticamente da Papa san Giovanni Paolo II (1978-2005) a partire dal lontano 1985, per l’intera Europa. Una “trasformazione di struttura” che cambierà il volto dell’Italia che conosciamo: chiuderemo scuole e apriremo ricoveri, licenzieremo insegnanti e assumeremo badanti, con i centri diagnostici, i pronto soccorso e le case di cura che saranno presi d’assalto da legioni di anziani. I pochi giovani italiani del 2050 saranno prevalentemente figli unici, senza né zii né cugini, con famiglie di origine molto anziane. Riusciranno a fare meglio dei propri padri e madri, nonni e nonne, a ritrovare fiducia e speranza per formare famiglie stabili e avere figli? In caso contrario, li attende una grande solitudine, esito ultimo di un processo pluridecennale di lacerazione del tessuto sociale, di statalismo invadente e di svilimento della famiglia, attaccata, in una guerra senza frontiere, da un mix diabolico di leggi cattive, fisco oppressore e aggressione culturale.

I rischi d’implosione del sistema pensionistico sono più che evidenti. Ma se per le pensioni esistono leve per raddrizzare la rotta ‒ passaggio al sistema contributivo puro, ancoraggio dell’età pensionabile alle aspettative di vita, integrazione con pensioni private volontarie ‒, il capitolo di spesa più mal messo, a causa del combinato disposto dell’allungamento dell’aspettativa di vita e della denatalità, è la sanità pubblica.

Nel 2016 le spese sanitarie ammontavano a ben 112,5 miliardi di euro, pari al 6,7% del prodotto interno lordo (Pil) e al 13,6% della spesa pubblica totale, come documentato dal ministero dell’Economia e delle Finanze), ma va da sé che nei prossimi lustri l’incremento marcato degli anziani comporterà una forte lievitazione dei costi del Servizio sanitario nazionale (SSN), sia in valore assoluto sia in percentuale sul Pil. Chi farà fronte a queste spese? Il SSN sarà costretto a ridurre drasticamente il perimetro del proprio intervento? Le assicurazioni private, in probabile forte crescita, riusciranno a coprire la progressiva ritirata della sanità pubblica? Si spingerà darwinisticamente l’acceleratore sulla “morte dignitosa”, incentivando le logiche eutanasiche e liberticide recentemente introdotte in Italia con le famigerate Disposizioni anticipate di trattamento, per non “sprecare” risorse per persone la cui “qualità di vita” non rientrerà nei nuovi standard? Le persone, anziane e sempre più sole a causa della piaga del divorzio, saranno abbandonate a se stesse?

Cercherò di abbozzare una risposta.

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