Francesco Pappalardo, Cristianità n. 289 (1999)
«L’Italia una e diversa nel sistema degli Stati europei (1450-1750)»
L’unificazione politica italiana — compiuta nel 1860 e ufficializzata l’anno seguente con la proclamazione del Regno d’Italia — ha lasciato nell’ombra la memoria storica degli antichi Stati della penisola, con la sola eccezione del Regno di Sardegna, lo Stato- guida del processo risorgimentale. Anche se negli ultimi anni l’attenzione degli studiosi si sta appuntando, in modo meno frammentario che nel passato, sulla complessa e originale storia delle plurisecolari formazioni territoriali italiane, è ancora diffusa la tendenza a leggere gli avvenimenti degli ultimi due secoli alla luce di un’unità che non vi era ancora, secondo il modello delineato da Benedetto Croce (1866-1952), il quale riteneva che la storia d’Italia cominciasse nel 1860, cioè «dalla costituzione di uno stato italiano comprendente tutte o quasi le popolazioni chiuse nei confini geografici del paese» (1). A questo modello si attengono tanto gli undici volumi di Giorgio Candeloro (1909-1988) (2), quanto la recente Storia d’Italia, curata da Giovanni Sabbatucci e da Vittorio Vidotto (3). Un’altra tradizione, invece, fa rientrare nella storia d’Italia anche tutto quanto ha riguardato le vicende della nazione prima della formazione dello Stato unitario: sono espressione di questa tendenza la Storia d’Italia della Einaudi, curata da Ruggero Romano e da Corrado Vivanti (4), e quella diretta da Giuseppe Galasso (5), che offre anche una ricostruzione analitica delle vicende di tutti gli Stati della penisola.
Galasso, autore di studi innovativi sul tema e uno dei maggiori storici italiani contemporanei, nel 1998 ha pubblicato anche una vasta opera di sintesi, ponendo sul tappeto, fin dal titolo — L’Italia una e diversa nel sistema degli Stati europei (1450-1750) (6) — la questione dell’unità della storia italiana.
1. Il sistema degli Stati italiani
Nato a Napoli nel 1929, Galasso si è laureato in lettere presso l’ateneo partenopeo, dov’è ordinario di Storia Medioevale e Moderna dal 1966. Condirettore della Rivista Storica Italiana da quell’anno e preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli dal 1971 al 1979, è presidente della Società Nazionale di Storia Patria dal 1980 e socio nazionale dell’Accademia dei Lincei dal 1986. Parallelamente alla carriera accademica ha intrapreso quella politica: esponente del Partito Repubblicano Italiano, viene eletto consigliere comunale di Napoli nel 1970 — rivestendo per tre anni la carica di assessore all’Edilizia Scolastica — e sindaco di quella città nel 1975, carica alla quale rinuncia per motivi politici. Presidente della Mostra Biennale del Cinema di Venezia dal 1979 al 1982, è stato deputato dal 1983 al 1994 e sottosegretario di Stato dal 1983 al 1991, prima ai Beni Culturali, quindi alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e infine per gli Interventi Straordinari nel Mezzogiorno.
Come storico si è occupato delle principali tematiche della storia d’Italia (7), con attenzione particolare alle vicende dei secoli XV e XVI (8) e ai problemi di Napoli (9) e del Mezzogiorno (10), sostenendo che gli Stati italiani hanno rappresentato l’ambito in cui si sono sviluppati gli elementi della nazionalità e della caratteristica civiltà italiana e che, dunque, una storia della nazione non può assolutamente ignorarli nelle loro autonomie e specificità. Poiché dalla discesa dei longobardi, nel 568, all’unificazione del 1860, l’Italia non è mai stato un paese unito politicamente, a suo avviso occorre tener presente sia la storia parallela delle singole formazioni statali presenti nella penisola, sia quella del sistema degli Stati italiani, cioè dei rapporti di forza fra loro e con le potenze non italiane. L’aspetto della pluristatualità, ricco di implicazioni culturali e civili, deve conciliarsi, dunque, con quello della «[…] complessiva unità di caratteri (lingua, cultura, vita civile, forme istituzionali etc.) per cui da sempre non era possibile confondere gli italiani con altri popoli europei ed era, anzi, naturale distinguerne e riconoscerne la nazionalità prima dell’unificazione politica del paese nel 1861» (11).
Esisteva, dunque, una ben individuata civiltà in cui la nazionalità italiana per secoli si è espressa ed è stata riconosciuta come tale, anche se fra i caratteri unificanti è difficile indicare la lingua, a meno che non si faccia riferimento alla lingua letteraria o a quella delle persone colte, e le istituzioni, considerando il radicato particolarismo italiano, che generava una mirabile varietà istituzionale e rendeva ben diverse, per esempio, l’esperienza del Piemonte sabaudo, quella dell’aristocratica Repubblica di Venezia e quella degli Stati minori dell’area emiliano-romagnola.
Nella breve ma significativa premessa dell’opera Galasso osserva che tutti gli elementi — politici, diplomatici, istituzionali, sociali, culturali ed economici — della storia italiana «[…] danno l’idea della nazionalità italiana e della coscienza che se ne aveva rispetto a quelle degli altri popoli europei nel lungo periodo nel quale, in Italia come altrove in Europa, di nazione nel senso assunto dal termine a partire dalla fine del secolo XVIII e dello Stato nazionale come poi fu inteso si era ancora lontani dal parlare.
«Si conferma, anche per questa via, che “l’Italia considerata come un solo paese” è una realtà storica molto prima che una petizione storiografica. Si conferma, soprattutto, che la storia nazionale italiana è del tutto parallela fin dalle origini a quella degli altri popoli europei e trascende di gran lunga la divisione politica del paese durata fin oltre la metà del secolo XIX» (p. XV).
La nozione dell’Italia come entità unitaria risale al 1200. «Al secolo XIII risale, inoltre, l’aggettivo “italiano” quale nome moderno del popolo e del paese. E da allora era pure nata e si era venuta sviluppando una civiltà letteraria e artistica sempre più sentita e caratterizzata come italiana» (p. 407). Questi elementi di ordine culturale, insieme a quelli politici e diplomatici, determinano nella coscienza e nella cultura europea e italiana «[…] la percezione e l’immagine via via più nette di una realtà complessiva dell’Italia, connessa e, insieme, distinta rispetto alla identità degli altri paesi europei nel comune contesto di quella “Santa Romana Repubblica”, che anche oltre i tempi del suo declino continuò a esprimere in Europa l’idea e il senso di una comunione tutt’altro che solo religiosa» (p. 408).
Già fra il secolo XII e il secolo XIII si delinea nella penisola un sistema di Stati e si configura uno spazio politico sentito e considerato unitariamente, e, come tale, distinto rispetto agli altri spazi politici europei. Gradualmente, alla spinta egemonica di Pontefici e di imperatori, al grande disegno dei sovrani angioini, in particolare di Roberto (1278-1343), re di Sicilia, alla «coordinazione guelfa e ghibellina» (12) delle lotte locali, subentra l’iniziativa delle potenze — comuni, signorie, principati e monarchie — selezionate nel corso di quei conflitti. Sui potentati dell’Italia centro-settentrionale il Sacrum Imperium continua a vantare un’alta sovranità, pari a quella che la Chiesa rivendica sulle isole maggiori, sul Mezzogiorno e sui territori di dominio diretto, e i suoi diritti saranno formalmente riconosciuti per lungo tempo e anzi invocati quando tornava utile. Così accadrà per il titolo ducale dato ai Savoia nel 1416 e agli Este nel 1452, dopo quello concesso a suo tempo a Gian Galeazzo Visconti (1351-1402) nel 1395 e quello marchionale dato ai Gonzaga nel 1403. Di diritto imperiale è anche un gran numero di feudi che in varie regioni — soprattutto in Piemonte, in Liguria e nella Lunigiana — compongono «una trama di signorie dalla maglia assai larga»(p. 16) e di grande importanza per gli Stati ai cui confini o nel cui contesto si trovavano. Tuttavia, la dissoluzione della potenza sveva, dopo la morte dell’imperatore Federico II di Hohenstaufen (1194- 1250), segna la piena fioritura delle forze locali — la cui azione nei secoli XIV e XV può svolgersi quasi del tutto senza interferenze dall’esterno della penisola — e consente, attraverso una dura selezione, la semplificazione del minuto mosaico comunale e l’affermazione dei cosiddetti Stati regionali nell’Italia Centrale e Settentrionale. Altre alternative politiche e diplomatiche falliscono e risultano sbarrate sia la via della decisa prevalenza di uno degli Stati regionali sugli altri, sia quella di una confederazione fra il Ducato di Milano e le Repubbliche di Venezia, di Firenze e di Genova.
Con la pace di Lodi e con la costituzione della Lega Italica, nel 1454 — «punto di arrivo e realistica conclusione di tutta una lunghissima fase della precedente storia italiana» (p. 18) —, emerge fra gli Stati italiani un sostanziale equilibrio di forze e si determina un efficace bilanciamento diplomatico e militare dei loro rapporti. Accanto ai cinque Stati maggiori — il Ducato di Milano, la Repubblica di Venezia, la Repubblica di Firenze, gli Stati della Chiesa e il Regno di Napoli — continuano a figurare quelli minori, con la loro influenza e le loro iniziative, facendo valere o la capacità militare dei propri sovrani-condottieri — come i Montefeltro di Urbino e i Gonzaga di Mantova —, o la particolarità delle proprie forze armate — come gli Este di Ferrara per l’artiglieria —, oppure le attività economiche e finanziarie, come le Repubbliche di Genova, di Lucca, di Siena e di Firenze, così che «[…] nessuna realtà della geografia politica della penisola poteva essere considerata con indifferenza» (p. 11). Il Pontefice non prende parte alla Lega, ma la benedice come suo protettore e custode. Neppure Venezia vi aderisce, ma la costruzione del suo «Stato da mar» nel Levante ha l’effetto di proteggere meglio lo spazio politico e il sistema degli Stati italiani in Europa.
Le guerre d’Italia (1494-1559) modificano questo quadro e mettono in crisi l’autonomia del sistema politico peninsulare, ma Galasso non accetta l’ambiguo paradigma storiografico della «decadenza» (13), fondato sul criterio per cui la costruzione di uno Stato unitario sia stato l’unico filo conduttore della storia italiana dei secoli XVI e XVII. In realtà, «[…] in Italia come nell’altro grande paese europeo che pure conobbe la sua unificazione nel secolo XIX, ossia la Germania, quasi fino in ultimo la prospettiva dell’unità non fu quella dominante nella coscienza politica del paese e nell’azione delle potenze italiane e non italiane che agirono nella penisola o ebbero influenza nelle sue vicende» (pp. 54-55). Dalla crisi attraversata nella prima metà del Cinquecento «il senso di una comunità di destini degli Stati peninsulari» (p. 64) esce rafforzato rispetto al periodo precedente, pur rimanendo anche in seguito lontano dal tradursi in una più concreta definizione e prassi politica. Inoltre, se da quel momento le sorti degli Stati italiani saranno decise pure da potenze esterne, è però vero che molte realtà continueranno ad avere interessi rilevanti anche fuori dalla penisola. Al di là della particolarità del Papato, che operava su una scala ormai mondiale, va ricordato che la Repubblica di Venezia era proiettata nei Balcani e nel mar Egeo, che il Ducato di Firenze e le Repubbliche di Lucca, di Siena e di Genova avevano cospicui interessi mercantili e finanziari all’estero e che i Savoia non erano ancora una potenza esclusivamente italiana, tanto che il loro Stato si estendeva per buona parte al di là delle Alpi. La «decadenza», pertanto, «[…] non volle dire affatto arresto di ogni creatività, assenza di moralità, riduzione della vita civile a semplice conformismo o a vuota formalità, esaurimento della incontenibile vitalità che il paese aveva manifestato nei cinque secoli precedenti» (14), ma fu soprattutto «[…] il molteplice processo di adeguamento a tutta una serie di sfide imprevedibili, simultanee e di grande portata a cui su ogni piano l’Italia rinascimentale si trovò esposta dalla fine del secolo XV in poi» (p. 437). «Non, dunque, un paese e un tempo immobile e senza storia — prosegue lo storico napoletano —. Piuttosto, un paese e un tempo con problemi nuovi, dei quali si cercò (e alla fine, su strade in gran parte diverse e a loro volta nuove, si trovò) una soluzione che consentisse una piena ripresa e un rinnovato protagonismo storico del paese e della sua tradizione di civiltà» (p. 439).
2. La Spagna nella vita italiana
Galasso si sofferma quindi sul predominio esercitato nella penisola dalla monarchia spagnola nei secoli XVI e XVII, e ripropone alcune considerazioni svolte in altra sede contro la «leggenda nera» sulla Spagna cattolica, «[…] permeata di elementi ideologici che hanno fatto fortemente premio non solo sulla ragione storica, ma pressoché su ogni altra ragione […] [e] costruita sulla scorta di due secoli di polemiche protestanti e illuministiche, liberali e nazionali, sociali e democratiche, massoniche e umanitarie» (15).
La presenza spagnola contribuisce a fare dell’Italia un’area politica omogenea, comprendente Napoli, Palermo, Cagliari, Milano, Genova, Firenze e le capitali dei ducati padani, e caratterizzata da forme d’integrazione dei prìncipi e dei signori italiani, dalla circolazione delle carriere di magistrati e di uomini di governo, dal movimento di capitali, d’idee e di progetti politici (16). Tuttavia, al di là dell’unità dinastica, i dominii italiani rimasero, sotto gli Asburgo di Madrid prima e di Vienna poi, entità istituzionali e giurisdizionali differenti, ciascuna con la sua personalità storica, culturale e sociale, con le sue leggi e con i suoi obbiettivi di amministrazione e di governo. «Su questo punto — osserva lo storico partenopeo — è opportuno insistere. Nei varii paesi la qualità ereditaria e patrimoniale di “signori naturali” propria dei sovrani asburgici spagnoli o un graduale processo di adattamento e di amalgamazione avevano dato luogo nel corso di un paio di secoli non solo all’osservanza e al senso di appartenenza dinastica di cui si è detto, variamente ma ovunque sentiti sia nelle classi alte che in quelle popolari, ma avevano pure fatto della monarchia e della dinastia, al più tardi a partire dal regno di Filippo II [1527-1598], un binomio inscindibile e una grande realtà della vita civile e morale d’Europa. Pur nel declino della monarchia all’indomani delle paci di Westfalia [1648] e dei Pirenei [1659], questa base etico-politica non venne meno» (p. 298). Quindi, prosegue Galasso, «[…] l’Italia dei secoli XVI e XVII fu lontana, in particolare, dal vivere il rapporto con la Spagna nell’ottica di un’oppressione straniera. […] Nell’etica civile di quel tempo l’appartenenza di più paesi alla medesima corona e dinastia non configurava alcun problema di nazionalità oppressa. Se la sovranità regia era legittima, la coscienza pubblica e il sentimento politico non potevano trovarvi alcunché di incongruo col proprio orizzonte psicologico e culturale» (p. 480). Non va dimenticato, infatti, che nelle società complesse del tempo la dimensione nazionale era considerata solo uno degli aspetti della vita associata e gli uomini, prima ancora di sentirsi appartenenti a una nazione, si sentivano legati alla famiglia e al vicinato, alla dimensione locale e regionale, alla Chiesa e alla Cristianità: «La norma è quella di una pluralità di lealismi: verso il titolare della sovranità; verso la classe o il ceto, verso le organizzazioni e i corpi professionali, verso i gruppi gentilizi a cui si appartiene; verso gli organismi amministrativi e sociali, più o meno politici, da cui ci si trova ad essere rappresentati o in cui si esercitano determinate funzioni; verso i valori religiosi assunti in maniera ufficiale come filosofia e fondamento etico del regime civile e verso le istituzioni e gli organi che ne sono titolari e li amministrano» (p. 481).
Alla Spagna gl’italiani del tempo riconobbero il merito di aver assicurato al paese un periodo felice e tranquillo, in contrasto con la condizione insicura di altre parti d’Europa. Era, del resto, la Spagna del siglo de oro, cioè un paese che viveva la più fiorente stagione della sua vita culturale e dava un contributo altissimo alla letteratura, all’arte e alla vita spirituale e morale dell’Occidente. Il Barocco e la Contro-Riforma vissuti dai popoli italiani e spagnoli «[…] appaiono come grandi iniziative del loro spirito creativo e del loro genio, come una rivelazione di alcune loro intime vocazioni (in qualche caso, se così si potesse dire, quasi di un loro destino: così, in particolare, per quanto riguarda l’Italia, nel caso di Napoli)» (p. 484).
Galasso rievoca, infine, l’uso di milizie italiane negli eserciti imperiali, che risale a Ferdinando II di Asburgo (1578-1637), imperatore dal 1619, e alla guerra dei Trent’anni (1618-1648), osservando che proprio la «[…] liquidazione e, prima ancora, la pessima gestione delle forze militari italiane» (p. 377) da parte degli Asburgo di Vienna, subentrati al ramo spagnolo nella penisola italiana durante il secolo XVIII, fu la ragione più importante della sconfitta imperiale in Italia durante la guerra di successione polacca (1730-1738).
In realtà, al servizio della Santa Sede, della monarchia spagnola e del Sacro Romano Impero, le case regnanti, i ceti dirigenti, i condottieri e i soldati italiani serviranno per secoli la Cristianità fin nelle aree più lontane. Le gesta di Alessandro Farnese (1545-1592), duca di Parma e Piacenza, e del generale Ambrogio Spinola (1569-1630) contro i calvinisti olandesi, di Ottavio Piccolomini (1600-1656), feldmaresciallo e principe dell’impero, contro i protestanti in Boemia, del principe Raimondo Montecuccoli (1609-1689), conte dell’impero, contro i luterani svedesi e i turchi musulmani, del principe Eugenio di Savoia (1663-1736), feldmaresciallo dell’impero ed eroe delle guerre contro gli ottomani, e di altri comandanti meno noti — come il friulano Gian Battista Colloredo (1609-1649), caduto in combattimento durante l’assedio turco dell’isola di Candia, l’odierna Creta, Michele d’Aste (1647-1686), barone di Acerno, morto alla testa dei suoi granatieri mentre per primo entrava nella fortezza di Buda occupata dai turchi, e il napoletano Giovan Vincenzo Sanfelice (1575 ca.-1645), distintosi nella lunga campagna del Brasile contro gli olandesi e gl’inglesi —, nonché l’eroismo di migliaia di valorosi e sconosciuti soldati, sono parte integrante dell’epopea del popolo italiano (17).
3. Una storia «multinazionale»
Galasso descrive la nazionalità italiana «come una realtà molteplice e differenziata fino al limite della massima possibile compatibilità con la realtà storica ed effettiva di una serie di piccole nazioni o di nazioni regionali» (p. 174). In Italia, infatti, la «dimensione multinazionale» (18) della nazionalità s’identifica con la tradizione di formazioni politiche durate per secoli — settecento anni i Regni di Napoli e di Sicilia, da quattrocento a seicento anni gli Stati provinciali o regionali del Centro e del Nord — e dotate di una logica di sviluppo autonoma.
Il pluralismo politico italiano e l’assenza di un potere centrale e dominante non hanno costituito un dato negativo, ma hanno reso possibile la fioritura di innumerevoli centri di cultura e di floridezza, e furono sentiti dagl’italiani del tempo come condizione di un elevato livello di vita morale e civile. Del resto, il problema nazionale si configurava allora in termini molto diversi da paese a paese: in Italia di «nazionale», agli inizi del Cinquecento, vi erano sia il sistema degli Stati cosiddetti regionali sia un patrimonio culturale «[…] di cui era componente non trascurabile anche la coscienza di una individualità nazionale degli Italiani, ma le cui caratteristiche determinanti […] erano date da un sentimento metapolitico […] della vita civile e della vita morale» (p. 63). La formula «libertà d’Italia», coniata nel secolo XV, non aveva il significato nazionale che a posteriori vi può essere ravvisato, ma fu intesa come affermazione di principio dell’autonomia dei singoli Stati italiani contro le mire espansionistiche di alcuni di essi e, quindi, come salvaguardia degli interessi e delle tradizioni dei vari centri del particolarismo italiano.
Questo particolarismo va considerato non solo nel senso geografico e territoriale e neppure soltanto come pluralismo di tradizioni e di culture, ma anche come un dato sociologico, secondo cui la vita politica e sociale italiana ha il suo fondamento nell’attività di gruppi particolari, anzitutto la famiglia, intesa in un senso non puramente biologico. Gli organismi politici preunitari sono caratterizzati dalla presenza di numerose autonomie locali, di giurisdizioni particolari, laboriosamente coordinate, e di intermediazioni personali che rispecchiavano la vitalità della società civile e ne garantivano l’autonomia. Galasso condivide la tesi dello storico Giorgio Chittolini, secondo cui lo Stato regionale non è «[…] un’armoniosa e compatta costruzione, […] frutto di una volontà assolutistica ferma e incontrastata: ma piuttosto una struttura flessibile, predisposta a un delicato dosaggio di autonomie e di particolarismi, elastica fino al punto di apparire in molti casi fin troppo debole, o addirittura inconsistente: l’unica però che potesse servire come strumento di unificazione di un particolarismo tanto vivace, e riuscisse ad abbracciare in un unico assetto forme di organizzazione politica così vivaci e diverse» (19). Inoltre, mentre il pensiero politico svolgeva la teoria della ragion di Stato, le dottrine giuridiche continuavano a muoversi nel solco della grande tradizione medioevale, con un’attenzione preminente non agli svolgimenti assolutistici del potere sovrano, bensì alla sua delimitazione e qualificazione giuridica. «Sicché, in definitiva, e in altri termini, può dirsi pure che, se modelli italiani di elementi dello Stato moderno si possono indubbiamente cogliere nell’azione di sovrani e governi transalpini, il modello complessivo di Stato moderno che finì con l’affermarsi in Europa non fu un modello italiano» (p. 445). La ricerca storica ha rivalutato, inoltre, «[…] quella statualità cosiddetta “minore” […] e quelle esperienze a basso tasso di statualità, considerate un tempo anomalie dello sviluppo o casi marginali, tra cui possiamo inserire pienamente l’ italiana. […] Ricollocata in una prospettiva europea, anche l’esperienza italiana può assumere un valore emblematico, non più in chiave di anomalia, eccezione, ritardo, marginalità, bensì nella direzione della riscoperta di quel regionalismo di fondo che anima l’intera storia occidentale» (20).
Le pagine dello storico napoletano evidenziano un livello comune di storia politica e sociale e di storia culturale, artistica e civile della nazione italiana che la differenzia dalle altre realtà europee, così che si può parlare di unità nella diversità, grazie soprattutto al comune sentimento religioso, che ha rappresentato l’elemento di raccordo e di comunicazione culturale fra le diverse componenti della civiltà italiana, fiorita su un coacervo di realtà differenziate. Sulla Chiesa cattolica, considerata come uno degli elementi unificanti della realtà italiana — grazie anche alla convergenza romana della grande aristocrazia —, si sofferma in chiusura Galasso, che respinge sia la tesi di un’Italia mutilata dalla repressione clericale e assolutistica, sia la valutazione puramente negativa della Contro-Riforma, ritenendo «[…] sempre più difficile disconoscere la qualità e l’autenticità dell’impegno di due o tre generazioni di uomini di chiesa e di laici intellettuali che contribuirono allora a dare alla Chiesa, alla sua azione e alla vicenda religiosa e civile del paese un nuovo tono e un nuovo corso» (p. 454).
Eredi dell’universalismo romano e cristiano, e nello stesso tempo consapevoli della ricchezza della loro storia sociale e politica, gl’italiani oscilleranno sempre fra l’apertura all’universale e l’attenzione al particolare, fra il senso dell’appartenenza nazionale e l’attaccamento alla comunità locale, in una tensione inevitabile ma feconda, finché vissuta con equilibrio. I grandi e i piccoli tasselli del mosaico italiano saranno caratterizzati da vicende che non vanno concepite come un lungo prologo a una inevitabile unità politica, ma che daranno vita anche a una comunanza di cultura e di civiltà che trascende i singoli Stati. L’ethos italiano, che affonda le sue radici in un’eredità cristiana consapevolmente vissuta e responsabilmente accolta, si dimostrerà capace di governare anche le transizioni del paese nell’epoca della modernità senza perdere il collegamento con le tradizioni e le peculiarità delle diverse Italie (21).
Francesco Pappalardo
Note:
(1) BENEDETTO CROCE, La storia come pensiero e azione, Laterza, Roma-Bari 1978, p. 303.
(2) Cfr. GIORGIO CANDELORO, Storia dell’Italia moderna, Feltrinelli, Milano 1968- 1986.
(3) Cfr. AA. VV., Storia d’Italia dalla fine del Settecento ai giorni nostri, Laterza, Roma-Bari, di cui sono usciti, fra il 1994 e il 1997, cinque dei sei volumi previsti.
(4) Cfr. AA. VV., Storia d’Italia, Einaudi, Torino 1972-1976, 6 voll. in 10 tomi.
(5) Cfr. AA. VV., Storia d’Italia, UTET, Torino, di cui sono stati pubblicati ventiquattro volumi, dal 1976 a oggi.
(6) Cfr. GIUSEPPE GALASSO, L’Italia una e diversa nel sistema degli Stati europei (1450- 1750), in G. GALASSO e LUIGI MASCILLI MIGLIORINI, L’Italia moderna e l’unità nazionale, vol. XIX della Storia d’Italia da lui diretta, UTET, Torino 1998, pp. 3-492. Tutti i riferimenti fra parentesi nel testo rimandano a quest’opera.
(7) Cfr. G. GALASSO, Potere e istituzioni nella storia d’Italia, Einaudi, Torino 1974; e IDEM, L’Italia come problema storiografico, Introduzione alla Storia d’Italia, UTET, Torino 1979.
(8) Numerosi saggi sull’argomento sono raccolti in IDEM, Dalla «libertà d’Italia» alle «preponderanze straniere», Editoriale Scientifica, Napoli 1997.
(9 ) Cfr. IDEM, Intervista sulla storia di Napoli, a cura di Percy Allum, Laterza, Bari 1978; e IDEM, Napoli capitale. Identità politica e identità cittadina. Studi e ricerche 1266-1860, Electa, Napoli 1998, raccolta di studi sulla città partenopea dal Medioevo all’Unità.
(10) Fra le opere recenti, cfr. Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno angioino e aragonese (1266-1494), vol. XV, tomo 1, della Storia d’Italia, UTET, Torino 1992; Alla periferia dell’Impero. Il Regno di Napoli nel periodo spagnolo (secoli XVI-XVII), Einaudi, Torino 1994; e L’altra Europa. Per un’antropologia storica del Mezzogiorno d’Italia, nuova edizione accresciuta, Argo, Lecce 1997, nelle quali ribadisce con forza la singolarità dell’esperienza storica del Mezzogiorno.
(11) G. GALASSO, Il «caso Italia» nella storia. Unità profonda oltre i confini, in Il Mattino, 17-4-1988.
(12 ) GIOVANNI TABACCO, Egemonie sociali e strutture del potere nel Medioevo italiano, Einaudi, Torino 1979, p. 316.
(13) «Le esigenze polemiche dell’epoca illuministica e del Risorgimento, che si cumularono le une sulle altre, avevano […] già da tempo preparato ed elaborato l’opinione riferita poi, in una delle sue più classiche formulazioni, dal Croce nel 1915» (G. GALASSO, Dalla «libertà d’ Italia» alle «preponderanze straniere», cit., pp. 76-77. Il riferimento è a B. CROCE, La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza, Laterza, Bari 1949, p. 257).
(14) Ibid., p. 133.
(15) IDEM, Alla periferia dell’Impero. Il Regno di Napoli nel periodo spagnolo (secoli XVI-XVII), cit., pp. X-XI.
(16) Cfr. ANGELANTONIO SPAGNOLETTI, Prìncipi italiani e Spagna nell’età barocca, Bruno Mondadori, Milano 1996.
(17) Per un primo accostamento al tema, cfr. ALDO VALORI (1882-1965), Condottieri e generali del Seicento, Istituto Editoriale Italiano Tosi, Roma 1946; e GREGORY HANLON, The twilight of a military tradition. Italian aristocrats and European conflicts. 1560- 1800, University College London Press, Londra 1998.
(18) G. GALASSO, L’Italia come problema storiografico, cit., p. 179.
(19) GIORGIO CHITTOLINI, Introduzione a AA.VV., La crisi degli ordinamenti comunali e le origini dello stato del Rinascimento, a cura dello stesso, il Mulino, Bologna 1979, pp. 7-50 (p. 40).
(20) LUIGI BLANCO, Genesi dello Stato e penisola italiana: una prospettiva europea?, in Rivista Storica Italiana, anno CIX, fasci- colo II, maggio 1997, pp. 678-704 (pp. 698- 699).
(21 ) Cfr. MASSIMO INTROVIGNE, L’«ethos» italiano e lo spirito del federalismo, con una presentazione di Pierferdinando Casini, Gruppo Parlamentare Centro Cristiano Democratico — Camera dei Deputati-Di Giovanni, San Giuliano Milanese (Milano) 1995.