Marco Invernizzi, Cristianità n. 131 (1986)
Il contributo di S.E. mons. Joseph Khoury, arcivescovo di Tiro, e del dottor Camille Tawil, rappresentante in Europa delle Forze Libanesi, per una migliore comprensione del momento attuale del secolare problema del loro popolo, costretto – dopo la rottura con Israele e il sostanziale abbandono da parte dell’Occidente – a cercare un accordo con la Siria che salvaguardi la sua integrità fisica e la sua identità culturale.
Alla luce di opinioni significative
Lo stato della comunità cristiana libanese dopo i drammatici avvenimenti del 15 gennaio 1986
Tutti coloro che seguono, con passione umana e cattolica, le tragiche vicende della nazione libanese e della comunità cristiana che sostanzialmente la fonda, si auguravano che le divisioni violente – che non da oggi oppongono nel paese le diverse componenti del mondo musulmano – non toccassero almeno tale comunità cristiana e che le divergenze politiche in essa eventualmente esistenti non degenerassero in scontro militare.
Purtroppo, invece, all’inizio del 1986, all’interno delle stesse Forze Libanesi – i combattenti cristiani unificati da Bashir Gemayel nel 1976 e che da allora combattono per difendere la libertà e l’identità della comunità cristiana – diverse prospettive operative sono state all’origine di una giornata di scontri, mercoledì 15 gennaio, tra gli uomini dei servizi di sicurezza fedeli all’ex presidente delle Forze Libanesi, Elie Hobeika, e quelli del capo di stato maggiore dei combattenti, Samir Geagea.
Al termine di questa triste e drammatica giornata, Elie Hobeika, sconfitto, ha dovuto lasciare il Libano e andare in esilio a Parigi, e ha successivamente raggiunto Damasco. Oggi, i siriani stanno cercando di servirsi di lui per costituire fra i cristiani libanesi un fronte a loro favorevole e, a questo scopo, hanno facilitato la sua installazione nella città di Zahle, situata nella valle della Bekaa e controllata appunto dall’esercito siriano.
Con ogni verosimiglianza, la divisione interna alla comunità cristiana sembra essere stata causata dall’accordo firmato a Damasco il 28 dicembre 1985 da Nabih Berri, a nome del movimento sciita Amal, da Walid Jumblatt, per conto del Partito Socialista Progressista druso, e dall’allora presidente delle Forze Libanesi, Elie Hobeika. Tale accordo consisteva sostanzialmente di tre parti: le prime due prevedevano una immediata tregua militare e il ritorno dei profughi ai paesi di origine, e vennero evidentemente accolte con favore da tutti i cristiani; la terza parte, il risvolto politico dell’accordo, affermava la «complementarietà» del Libano rispetto alla Siria, da realizzare attraverso la instaurazione di «relazioni privilegiate con la sorella Siria» in tutti gli aspetti fondamentali della vita nazionale, per mezzo della «abolizione del sistema confessionale», cioè sostituendo l’attuale sistema istituzionale, basato sul patto di coesistenza tra le diverse comunità religiose, con un regime democratico di tipo occidentale moderno, quindi fondato sulla figura del cittadino slegato dall’appartenenza alla comunità religiosa di origine. In questa prospettiva, e molto significativamente, l’accordo prevedeva, nel settore dell’educazione e dell’istruzione, di arrivare «a un insegnamento obbligatorio, gratuito e globale, e di sviluppare e di unificare i programmi scolastici, soprattutto i manuali di storia e di educazione civica» (1).
Questa parte politica dell’accordo era stata oggetto di molte riserve da parte delle autorità religiose e civili più rappresentative della comunità cristiana, ed era stata disapprovata anche dalla metà del comitato esecutivo delle Forze Libanesi, a nome delle quali Elie Hobeika aveva firmato l’accordo stesso nella sua globalità. Con queste premesse non meraviglia che all’interno della comunità cristiana sia venuta crescendo la tensione, proprio nel periodo in cui la Santa Sede nominava nuovo amministratore apostolico S.E. mons. Ibrahim Hélou, arcivescovo maronita di Sidone.
Sui molti problemi che continuano a incombere sul presente e sul futuro del Libano ho potuto raccogliere l’autorevole opinione di S.E. mons. Joseph Khoury, arcivescovo maronita di Tiro e della Terrasanta, presidente della commissione per i rapporti ecumenici dell’assemblea dei patriarchi e dei vescovi cattolici del Libano e membro del segretariato vaticano per l’unità dei Cristiani. Martedì 20 febbraio 1986, infatti, il presule – invitato dal Pontificio Istituto Missioni Estere – ha tenuto a Milano una pubblica conferenza e ha incontrato alcuni giornalisti. Prima di rispondere alle domande dei rappresentanti della stampa, S.E. mons. Joseph Khoury ha esposto importanti premesse sulla storia del Libano e, in modo particolare, della comunità maronita che, in quanto comunità fondatrice della nazione libanese, è indissolubilmente legata con esso nella cultura e nella storia.
Si tratta di una storia segnata da persecuzioni e da lotte per difendere l’identità religiosa e culturale cristiana soprattutto nei confronti dell’espansionismo islamico, e caratterizzata da una mirabile fedeltà alle proprie origini e da un singolare spirito di accoglienza verso tutte le minoranze oppresse della regione mediorientale. Quest’ultimo tratto, specifico del popolo libanese, spiega la presenza, nella terra dei cedri, sia degli sciiti – un ramo staccatosi dall’albero islamico – che dei drusi e di tutte le varie altre comunità cristiane, come quelle melkita, siriaca e armena, per un totale di ben diciassette realtà religiose diverse, che hanno sempre trovato modo di convivere proprio perché il Libano non è mai diventato un paese musulmano grazie alla rilevante presenza anche politica dei cristiani maroniti.
«Purtroppo il verme era dentro il frutto – nota S.E. mons. Joseph Khoury – e quando il Libano venne proclamato indipendente scoppiò la questione palestinese». Avuta l’indipendenza nel 1943, il Libano conosce – dopo la nascita dello Stato di Israele, nel 1948 – una sempre crescente immigrazione di palestinesi, che aumenta vistosamente in seguito alla loro espulsione dalla Giordania dopo il famigerato e tragico «settembre nero» del 1970. «Dapprima pacifici – continua l’arcivescovo di Tiro -, si sono poi armati successivamente alla fuga dalla Giordania. L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina ha fatto del Libano meridionale una propria cittadella per le incursioni contro Israele, tentando così di trasformare il paese nella sua patria, nel quadro di un complotto contro il Libano che non si è realizzato soltanto grazie alla resistenza dei libanesi». Rispondendo a una mia specifica domanda, S.E. mons. Joseph Khoury ha detto di fare riferimento a un «piano Kissinger» in base al quale, negli anni Settanta, sarebbe stata offerta ai cristiani libanesi la possibilità di emigrare per permettere che la loro terra fosse occupata definitivamente dai profughi palestinesi.
In proposito – ha sostenuto ancora il presule maronita – «bisogna correggere molte informazioni errate:
1. i cristiani non sono mai stati contrari alle giuste rivendicazioni palestinesi;
2. i cristiani non vogliono fare del Libano una patria unicamente cristiana, ma una terra che accolga tutte le comunità religiose;
3. la preoccupazione cristiana consiste nel salvaguardare la propria libertà e la propria indipendenza;
4. proprio le divergenze sul ruolo dei palestinesi hanno fatto scoppiare il conflitto nel 1975;
5. la guerra in Libano continua a essere alimentata dall’esterno;
6. la lotta armata, che sembra avere avuto successo contro i cristiani, ha lo scopo di eliminare il ruolo politico dei maroniti e proprio questa è la minaccia che incombe sulla presenza cristiana nel paese».
L’arcivescovo di Tiro – che nella sua diocesi, nel sud del paese, è stato per lunghi anni testimone diretto della possibile coesistenza tra le diverse comunità religiose – ha quindi fornito alcuni orientamenti per una realistica soluzione della questione libanese:
«1. Occorre anzitutto fermare i massacri aumentando la presenza delle forze militari delle Nazioni Unite;
2. bisogna che anche il Libano benefici della famosa dichiarazione sui diritti umani, sottoscritta anche dalle sue autorità civili;
3. bisogna svegliare la solidarietà cristiana in un mondo che l’ha dimenticata;
4. si deve operare per fare del Libano un luogo d’incontro delle varie comunità e del vero ecumenismo;
5. occorre trovare la formula che garantisca l’unità e l’indipendenza del paese nell’ambito della questione mediorientale;
6. è necessario aggiungere che, nel frattempo, il nostro popolo ha bisogno dell’aiuto di tutti per ricostruire il proprio paese».
«In conclusione – secondo S.E. mons. Joseph Khoury – è bene ricordare che la soluzione non può venire soltanto dall’interno del paese, ma deve essere trovata nell’ambito internazionale perché, se è vero che nessuna comunità libanese può imporsi definitivamente sulle altre, è anche importante ricordare che nessuno Stato straniero ha il diritto di interferire nei nostri affari interni allo scopo di sottometterci e di dominarci: non sarebbe bello vedere cancellati un popolo e una nazione voluti da Dio».
Nel corso della vivace conferenza stampa, l’arcivescovo di Tiro ha avuto modo di ritornare sul tema costituito dalla questione palestinese, tanto importante in Occidente dove l’azione propagandistica a favore di questo popolo ha chiaramente superato l’opera di sostegno al suo legittimo originario diritto ad avere una terra e si è trasformata in una campagna ideologica di stampo socialcomunista tesa, tra l’altro, a indicare nei cristiani libanesi, che combattono per la loro sopravvivenza, i nemici della causa palestinese. «I cristiani non possono rifiutare di accogliere nessuno, ma chiedo perché i palestinesi non vanno nei paesi musulmani più ricchi e più vasti; non solo, ma domando anche come mai Israele viene attaccato soltanto attraverso la frontiera libanese e non lungo quelle che ha in comune con la Siria, la Giordania e l’Egitto».
Infine, S.E. mons. Joseph Khoury si è espresso a proposito dell’accordo firmato a Damasco il 28 dicembre 1985 dai rappresentanti delle milizie sciite, druse e cristiane. «Il problema di questo accordo – ha detto – sta nella sua parte politica. Faccio alcuni esempi: il presidente della Repubblica diventerebbe un semplice simbolo; verrebbe costituito un direttorio di sei membri, in rappresentanza delle maggiori comunità, al di sopra del consiglio dei ministri e con diritto di veto; i deputati maroniti, che oggi rappresentano un terzo del parlamento, ne diverrebbero un sesto. E poi il problema maggiore è rappresentato dalla complementarietà con la Siria, che significa completo allineamento militare, economico e in politica estera, e soprattutto nel sistema educativo. Ricordate, inoltre, che questo accordo deve essere accettato così com’è, senza possibilità di trasformazioni».
Dopo i tristi accadimenti del 15 gennaio 1986, ho potuto conversare anche con il dottor Camille Tawil, rappresentante in Europa delle Forze Libanesi. La conversazione su quelle drammatiche vicende interne alla comunità cristiana e al suo braccio armato è partita da un antefatto che, secondo il mio interlocutore, è molto importante per capire l’attualità. Il 12 marzo 1985, un movimento di riforma, denominato Intifada e guidato da Samir Geagea, aveva restituito alle Forze Libanesi la loro indipendenza nei confronti del partito Kataeb e del presidente della Repubblica Amin Gemayel: il senso di questa operazione politica – che si era realizzata senza alcuna violenza – era consistito nell’affermare la tesi secondo cui le decisioni relative alla comunità cristiana non dovevano essere prese solamente da una parte di essa, ma da un organismo che la rappresentasse nella sua globalità.
«Fu un avvenimento molto importante per la comunità cristiana – spiega Camille Tawil – perché restituì a tutta la comunità il potere decisionale e quindi contribuì a rafforzare la sua unità, così come è avvenuto dopo i drammatici avvenimenti del gennaio 1986, quando tutte le forze cristiane si sono ritrovate a Bkerké, la sede del patriarcato maronita, per una sorta di Consiglio Nazionale Cristiano a cui dovrebbero spettare tutte le decisioni politiche future relative al mondo cristiano libanese».
Ma, da allora, le cose non sono andate nel giusto verso: Elie Hobeika ha sostituito Samir Geagea alla guida delle Forze Libanesi e ha autonomamente stipulato l’accordo con i siriani, gli sciiti del movimento Amal e i drusi del Partito Socialista Progressista di Walid Jumblatt, provocando divisioni fra i cristiani.
«Sia il patriarcato maronita che il presidente della Repubblica, il partito Kataeb e quello Nazional-Liberale hanno rifiutato il risvolto politico di questo accordo – dice il portavoce delle Forze Libanesi -, cioè quella parte che prevedeva la complementarietà con la Siria in politica estera, l’unificazione del sistema educativo e di quello finanziario e la deconfessionalizzazione politica. Inoltre, la metà del comitato esecutivo delle Forze Libanesi lo aveva rifiutato, anche se tutti approvavano la cessazione dello stato di guerra contemplata nello stesso accordo».
In questa prospettiva, quindi, gli avvenimenti del 15 gennaio 1986 non sembrano essere la conseguenza diretta dell’accordo in quanto tale. «L’obiettivo prioritario di questa operazione è il tentativo di unificare i combattenti cristiani, facendone il braccio armato di tutta la comunità e non una milizia di parte; in secondo luogo, lo sforzo di restituire libertà e unità a tutta la comunità cristiana, appunto attraverso la costituzione di un Consiglio Nazionale Cristiano con poteri decisionali. La riunione del popolo cristiano attorno alla sua Chiesa è stato, nei secoli, il mezzo con cui ha conservato la propria libertà e l’attaccamento alla propria civiltà. Vogliamo che tutto ciò continui, a fondamento di quella unità tra i cristiani libanesi che è necessaria a tutta la nazione, secondo gli auspici del Santo Padre nei suoi continui appelli».
La costituzione e il reale funzionamento del Consiglio Nazionale Cristiano dovrebbero, in prospettiva, evitare il ripetersi di avvenimenti negativi come quello del 15 gennaio 1986, carico di conseguenze politiche e non privo, tragicamente, di costo umano. «La stampa – precisa Camille Tawil – ha generalmente gonfiato le cifre. I morti sono stati meno di cento, ma, comunque, per noi è stato un prezzo altissimo, sia dal punto di vista morale che da quello militare».
Quanto al futuro, «anche se ciò che è accaduto non era diretto contro la Siria», ma contro un inaccettabile rapporto con essa, «oggi ci aspettiamo una vendetta siriana. E, di fatto, è già cominciata con la ripresa dei bombardamenti e dei tentativi del partito nazionalsocialista siriano di entrare nella montagna cristiana».
«Le Forze Libanesi – conclude il loro rappresentante in Europa – non vogliono lo scontro con la Siria, ma pretendono che qualsiasi rapporto con questo Stato si svolga nel rispetto dell’identità e della sovranità della comunità cristiana e dello Stato libanese, in tutte le sue componenti, anche quella sunnita, completamente esclusa dall’accordo del 28 dicembre 1985».
Marco Invernizzi
Note:
(1) Cfr. il testo dell’accordo in L’Orient – le Jour, 30-12-1985.