Stefano Nitoglia, Cristianità n. 409 (2021)
L’occupazione di Roma e la Questione Romana
Con l’occupazione di Roma da parte delle truppe italiane, il 20 settembre 1870, e la sua annessione al Regno d’Italia, si aprì la cosiddetta Questione Romana.
Il regnante Pontefice, il beato Pio IX (1846-1878), per protestare contro l’atto, definito sacrilego, si rinchiuse in Vaticano, rifiutando di accettare la legge n. 214 «sulle prerogative del Sommo Pontefice e della Santa Sede», e sulle relazioni dello Stato con la Chiesa più nota come «legge delle guarentigie» (1), e la Santa Sede proibì ai cattolici di partecipare alle elezioni nazionali secondo la formula del non expedit (2).
Sebbene il presidente del Consiglio Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861), nelle cosiddette Istruzioni segrete inviate a Diomede Pantaleoni (1810-1885) e a Carlo Passaglia (1812-1887) il 28 novembre 1860, avesse scritto: «L’era dei concordati è passata», auspicando la regolamentazione dei rapporti unicamente sulla base del principio «libera Chiesa in libero Stato» (3), i contatti fra le parti per risolvere la Questione Romana, prima in sordina e sotterranei, poi sempre più alla luce del sole, non furono interrotti.
Tralasciamo le pur importanti questioni della lotta mossa dal neonato Regno d’Italia, e prima dal Regno di Sardegna, alla Chiesa cattolica — con le «leggi eversive dell’asse ecclesiastico», ovvero il regio decreto n. 3036 del 7 luglio 1866 di soppressione degli ordini e delle congregazioni religiose, e la legge n. 3848 del 15 agosto 1867, che dispose la confisca dei beni degli enti religiosi, e numerosi altri provvedimenti, nonché la nascita di un embrionale movimento cattolico «intransigente» (4) nel Regno di Sardegna negli anni 1850 — per concentrarci solo sui rapporti fra le parti, che poi sfociarono nei Patti Lateranensi del 1929.
L’ultima offensiva delle élite risorgimentali liberali contro la Chiesa si ebbe con le circolari anticlericali del settembre-ottobre 1897 del governo presieduto da Antonio Starabba, marchese di Rudinì (1839-1908). Di fronte all’avanzare del pericolo socialista i liberali moderati avevano avvertito l’esigenza di un’intesa con gli ambienti cattolici, concretizzatasi la prima volta in occasione delle elezioni amministrative di Roma e Milano, nel 1895, sulla base di un programma che comprendeva la rinuncia all’anticlericalismo, l’insegnamento religioso, il riposo domenicale, la partecipazione delle giunte comunali alle festività religiose e la tutela delle opere pie.
Con la Grande Guerra (1914-1918), che produsse un enorme cambiamento nella geopolitica europea, i nuovi Stati iniziarono a prendere in considerazione il fatto che il principio della rigida separazione fra Chiesa e Stato aveva fatto il suo tempo e danneggiava i loro stessi interessi.
Avvenne, così, che molti nuovi Stati allacciarono relazioni diplomatiche con la Santa Sede e molti dei vecchi, che ne avevano preso le distanze, si riavvicinarono, cogliendo spunto dall’allocuzione concistoriale di Benedetto XV (1914-1922) In hac quidem in occasione della Conferenza internazionale di Washington per il disarmo, nella quale il pontefice si dichiarava disposto a trattare con i governi per regolare le questioni dei loro rapporti con la Chiesa cattolica (5).
L’allocuzione concistoriale diede impulso a quella che è stata definita «la nuova era concordataria», che si evolveva verso concordati fondati non più soltanto sul confessionalismo statale, ma pure sulla garanzia del rispetto della libertà della Chiesa postulata spesso anche dalla presenza di un’alta proporzione di cattolici fra la popolazione. Ne derivarono i concordati con la Lettonia (30 maggio 1922), con la Baviera (29 marzo 1924) e con la Polonia (10 febbraio 1925).
I primi contatti per risolvere la Questione Romana
Con Papa Pio XI (1922-1939) le cose nei rapporti fra Santa Sede e Italia iniziarono a cambiare in modo sensibile. Il suo pontificato, con ben diciotto accordi, è ricordato come l’era dei concordati con gli Stati totalitari (6).
La sua elezione al soglio pontificio venne favorita dalla confluenza, in conclave, dei voti dei cardinali «conciliatoristi», guidati da Pietro Maffi (1858-1931), con quelli di alcuni presuli stranieri, che vedevano nella soluzione della Questione Romana un’occasione per una più ampia riforma della Chiesa nel senso di una sua «deitalianizzazione» (7).
I primi segnali si ebbero con la benedizione Urbi et orbi, seppur silenziosa, di Pio XI dalla loggia esterna della basilica di San Pietro e dall’udienza concessa il 16 febbraio 1922, subito dopo la sua elezione, al barone Carlo Monti (1851-1924), rappresentante ufficioso del Regno d’Italia presso la Santa Sede durante il pontificato precedente. «Nei mesi che seguirono, gli incontri con il barone Monti furono sempre improntati a cordialità, e il ministro italiano rilevava come “per quanto riguarda l’Italia” rispetto a Benedetto XV, “educato ad altra scuola, Leone XIII e Rampolla”, Pio XI apparisse libero da preconcetti e da precedenti» (8).
In effetti, il nuovo pontefice, nato nel 1857, e quindi praticamente coetaneo alla proclamazione del Regno d’Italia (1861), «cresciuto in clima di Risorgimento» (9), per estrazione apparteneva alla piccola borghesia lombarda che aveva accolto favorevolmente l’Unità italiana e da giovane aveva frequentato la cerchia del cattolicesimo liberale lombardo, pur rimanendo sempre fedele alla Santa Sede sulla Questione Romana.
«La sera del 19, forse del 20 gennaio 1923, in un palazzo della vecchia Roma, si incontrarono semi-clandestinamente il card. Gasparri e il nuovo presidente del Consiglio italiano, Benito Mussolini. È da questo colloquio che, di solito, si fa iniziare il cammino della Conciliazione» (10). L’incontro, nel quale non venne affrontata la Questione Romana, era stato sollecitato da Benito Mussolini (1883-1945) poche settimane dopo la marcia su Roma (28 ottobre 1922). Si trattò di un colloquio «[…] esplorativo e mirante a stabilire quali potessero essere le eventuali prospettive comuni a lungo termine, ma — per il momento — non impegnativo» (11). I successivi contatti informali furono affidati alla intermediazione del gesuita Pietro Tacchi Venturi (1861-1956).
Iniziarono allora una serie di attenzioni nei confronti della Santa Sede — affidati alla regìa del consigliere di Stato e segretario generale del contenzioso del ministero degli Esteri Amedeo Giannini (1886-1960) — che, pur senza giungere a delineare una politica organica e senza costituire una novità radicale rispetto alle ultime tendenze dei governi liberali, vennero ben accolti al di là del Tevere: il Crocifisso nelle aule scolastiche e giudiziarie; la parificazione delle scuole private religiose a quelle statali; una campagna contro la bestemmia; la reintroduzione dei cappellani nelle forze armate e dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole elementari; il rifiuto di riprendere la discussione parlamentare sul divorzio; la legge contro la massoneria nel 1925; il riconoscimento civile di molte festività religiose; l’aumento di più del doppio del contributo dello Stato per gli assegni di congrua ai parroci; l’esonero dal servizio militare dei chierici in sacris.
Tra la fine del 1925 e gli inizi del 1926 Carlo Maria Santucci (1849-1932), avvocato concistoriale e militante del movimento cattolico, centrista moderato, elaborò uno studio su alcuni ritocchi alla prima parte della legge delle guarentigie nel quale si attribuiva alla Santa Sede la capacità giuridica di acquistare e di possedere e si dichiarava la Sede apostolica «altissimo istituto di diritto pubblico internazionale» (12); ma ciò non poteva soddisfare il Vaticano, che desiderava molto di più e puntava su un territorio, seppur ristretto, sul quale esercitare la sovranità. Su uno Stato, appunto.
Il 26 luglio 1926 mons. Luigi Haver, della Congregazione di Propaganda Fide, incontrò il consigliere di Stato Domenico Barone (1879-1929), al quale era legato da antica amicizia, proponendogli di metterlo in rapporto, per discutere dell’argomento Questione Romana, con l’avvocato Francesco Pacelli (1874-1935), legale della Santa Sede e fratello maggiore del futuro Pio XII (1939-1958), che godeva della piena fiducia del pontefice. Il 5 agosto 1926 Francesco Pacelli annotava sul suo diario: «Il Cons. Barone domanda di avere un colloquio con me intorno alla questione romana» (13).
Le trattative per il Trattato e la Convenzione finanziaria
I Patti Lateranensi furono stipulati fra la Santa Sede e il Regno d’Italia l’11 febbraio 1929 (14) e rinnovati — fra Santa Sede e Repubblica Italiana — con i cosiddetti Accordi di Villa Madama, il 18 febbraio 1984 (15).
L’8 agosto 1926, dopo essere stato autorizzato dal Papa, che gli aveva posto come pregiudiziale il «riconoscimento, da parte delle altre nazioni, della sovranità assoluta del Papa sul territorio che gli verrà assegnato» (16), Pacelli incontrava Barone. Avevano così inizio le trattative per il Trattato e la Convenzione finanziaria, che si svolsero in diverse fasi.
La prima fase, di carattere ufficioso e segreto, durò sino alla fine del 1926. La seconda si svolse dall’inizio del 1927 alla fine del giugno dello stesso anno. Dopo un’interruzione, durante la quale però i contatti non cessarono del tutto, le trattative ripresero alla fine del mese di maggio del 1928 entrando nella fase conclusiva, alla quale, dopo la morte del consigliere Barone, partecipò lo stesso Mussolini, coadiuvato nelle ultime settimane dal giurista Alfredo Rocco (1875-1935), allora ministro di Grazia e Giustizia e degli Affari di Culto.
Sulla questione della sovranità territoriale su un territorio più o meno ampio, corrispondente a quello di fatto occupato dal Vaticano uti possidetis, «così come possedete» — si parlò anche di un corridoio fino a Civitavecchia in modo da permettere lo sbocco al mare del costituendo Stato, ipotesi poi abbandonata dallo stesso Pontefice — si dilungarono e si giocarono gran parte delle trattative, con Mussolini e Barone restii a concederla, e Pio XI assolutamente fermo sul punto. Complicava la questione la resistenza del re Vittorio Emanuele III di Savoia (1869-1947) a risolvere la Questione Romana.
Alla fine, la fermezza del Papa ebbe ragione e, per la prima volta, nella bozza del trattato del 31 gennaio 1929 apparve la parola fatidica «Stato», che sarebbe rimasta nel testo definitivo: «Alla sua volta l’Italia riconosce lo Stato della Città del Vaticano sotto la sovranità del Sommo Pontefice» (17).
Sulla questione del risarcimento del «maltolto» delle «spogliazioni» del 1860-1870, alla fine Pio XI, il 13 gennaio 1929, si disse disposto ad accettare la somma di un miliardo e mezzo con pagamento immediato o di due miliardi in consolidato. Nel testo definitivo della Convenzione finanziaria si raggiunse un compromesso: lo Stato italiano si impegnava a versare alla Santa Sede al momento dello scambio delle ratifiche del Trattato la somma di 750 milioni in contanti e un miliardo in consolidato al 5%.
Le trattative per il Concordato
L’attribuzione di una sovranità territoriale comportava come logica conseguenza il riconoscimento di una personalità giuridica internazionale alla Santa Sede. Le due cose erano intimamente legate e Pio XI, all’inizio delle trattative, dichiarò a Pacelli che esse dovevano sboccare in «due separate convenzioni, una costituzionale e l’altra concordataria» (18).
Ciò venne sostanzialmente confermato nella lettera d’incarico del 26 ottobre 1926 del cardinale Pietro Gasparri (1852-1934) a Pacelli, nella quale il segretario di Stato di Pio XI avvertiva che «alla convenzione politica conviene abbinare una convenzione concordataria che regoli la legislazione ecclesiastica in Italia» (19).
Contrariamente al Trattato e alla Convenzione, che ebbero una faticosa elaborazione, non sembra che ciò sia accaduto per il Concordato, il cui percorso fu abbastanza spedito. Mussolini, infatti, dava più importanza al Trattato, che considerava una questione politica, che al Concordato, per il quale era disposto a fare maggiori concessioni alla controparte, convinto che poi, con la struttura totalitaria del regime, sarebbe riuscito a limitarne gli effetti in sede di applicazione. Le questioni più dibattute furono l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole e gli effetti civili del matrimonio religioso (20), nonché il riconoscimento delle organizzazioni dipendenti dall’Azione Cattolica Italiana.
Il 29 gennaio 1929 Mussolini spingeva i negoziatori ad affrettare la firma. Il 7 febbraio successivo, il cardinale Gasparri comunicava a titolo di cortesia la notizia dell’accordo ai diplomatici accreditati presso la Santa Sede e il giorno stesso si fissò la data dell’11 febbraio, alle ore 12, per la firma degli accordi nel palazzo del Laterano.
La notizia venne battuta la sera stessa dall’Agenzia Stefani e pubblicata sull’Osservatore Romano, ed ebbe un’eco mediatica internazionale.
La firma dei Patti Lateranensi
L’11 febbraio 1929 Mussolini e il card. Gasparri firmavano i Patti Lateranensi che comprendevano, oltre al Concordato, un Trattato, che ne costituiva il presupposto giuridico, e una Convenzione Economica.
I Patti — prescindendo dalle intenzioni del governo e della monarchia — sancivano la chiusura del conflitto apertosi con la formazione del Regno d’Italia e fermavano la realizzazione del programma di separazione tra la Chiesa e lo Stato. «Quest’ultimo, infatti, proclamava la religione cattolica fondamento della vita associata e riconosceva a Roma un carattere sacro, in quanto sede del Romano Pontefice e centro della Cristianità. Si adeguava, poi, sia pure con qualche limitazione, ai principi della Chiesa sulla celebrazione e sul contenuto del matrimonio tra cattolici: riconosceva i diritti della Chiesa in materia di educazione, di assistenza e di beneficenza, sia pure limitandone l’esercizio con una serie di vincoli e di controlli; sottraeva in una certa misura gli enti ecclesiastici al regime del diritto comune; imponeva allo Stato una serie di oneri finanziari in relazione alle necessità religiose dei cittadini e riconosceva agli ecclesiastici alcune esenzioni, imposte dalla natura del loro ministero» (21).
La firma dei Patti Lateranensi fu generalmente salutata da manifestazioni di giubilo in tutta Italia, che indussero Mussolini a richiamare la stampa a «una maggiore sobrietà» (22).
La soluzione della Questione Romana mediante il Trattato, cioè un patto a due fra la Santa Sede e l’Italia, con esclusione delle altre potenze, non accolse completamente i desiderata del Vaticano, che avrebbe preferito una «internazionalizzazione» della questione e, in questo senso, segnò un punto a favore del governo. Questa soluzione, comunque, sebbene non comportasse un ampliamento del territorio pontificio ma il riconoscimento di uno stato di fatto, implicò il riconoscimento della piena sovranità della Santa Sede sul piccolo territorio, che diveniva in tal modo un soggetto di diritto internazionale.
«Tutto ciò fu raggiunto — scrive Pertici — attraverso un accordo bilaterale, sanzionato con atti giuridici (il Trattato e il Concordato), certamente tra loro di indole diversa, ma che avevano entrambi valore a livello internazionale: il loro contenuto fu poi tradotto, con norme legislative, nel diritto interno italiano. Veniva in questo modo superato il carattere unilaterale della legislazione ecclesiastica precedente, in particolar modo del suo perno, la legge delle guarentigie del 1871. Ciò rifletteva un radicale cambiamento nell’approccio a tali questioni: la Chiesa veniva ora riconosciuta un soggetto di diritto coordinato allo Stato, e non subordinato, e, cioè, un vero soggetto di diritto internazionale. Si passava, insomma, da una concezione puramente individuale e privata del fatto religioso, da regolarsi nei suoi aspetti pubblici e patrimoniali, attraverso la legislazione ordinaria, a una visione della Chiesa come istituzione sociale, dotata di autonoma sovranità nel proprio ambito» (23).
L’opposizione cattolica
Le trattative per risolvere la Questione Romana erano state condotte direttamente dal Pontefice, mentre il Sacro Collegio ne era stato tenuto a margine, essendosi Pio XI limitato a interpellare i cardinali in maniera generica e indiretta; ciò aveva provocato malumori in quella che è considerata l’aristocrazia della Chiesa. «Il Sacro Collegio — scrive Coco — apprese dell’imminente Conciliazione solo il 18 novembre 1928, pochi mesi prima della firma dei Patti Lateranensi. Tutti i cardinali di Curia furono convocati nell’appartamento del segretario di Stato e Gasparri lesse una “dichiarazione” che spiegava in termini molto generici le trattative intercorse, annunciando come prossima la stipulazione di un accordo definitivo ed ufficiale, ma tuttavia senza entrare in dettagli più concreti.
«Sebbene i cardinali — prosegue Coco — non avessero posto alcun “rilievo”, essi in realtà rimasero perplessi e disorientati da quell’anomalo modus operandi, che impediva loro di conoscere il testo dei Patti Lateranensi, che fu loro comunicato solo a firma avvenuta» (24).
Anche per questo — ma non solo — le trattative e i successivi accordi furono osteggiati non soltanto dagli ambienti laicisti massonici, ma altresì da alcune alte personalità ecclesiastiche, fra le quali i cardinali Lorenzo Lauri (1864-1941), Rafael Merry del Val (1865-1930) e Basilio Pompilj (1858-1931), come riporta l’allora ambasciatore del Regno d’Italia presso la Santa Sede Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon (1884-1959), in un rapporto a Mussolini (25). Neppure il cardinale Bonaventura Cerretti (1872-1933) provava, all’inizio, simpatia nei confronti del Concordato, puntando invece tutto sul Trattato, destinato, a suo avviso, a durare per sempre (26). Anche il patriziato «nero» romano era su posizioni piuttosto critiche (27).
Scrive De Vecchi, a proposito della menzionata resistenza di alcuni cardinali: «Prima della visita (giro diplomatico con diversi cardinali di Curia per sondare le loro opinioni in materia, ndr) mi ero informato delle loro idee sulla Conciliazione — e ciò mi fu particolarmente utile per avviare i discorsi sui contrasti fra Vaticano e Governo. In complesso erano tutti sulla nostra linea e molti dei loro propositi non si discostavano granché dai propositi e dalle intenzioni dello stesso Mussolini. Capii, inoltre, che il Collegio Cardinalizio, in generale, rispettava e temeva il Pontefice. Non tutti, però, si dichiararono entusiasti per la maniera in cui era stata risolta la “Questione Romana”; in Vaticano esistevano due “blocchi”, uno dei favorevoli e l’altro degli scontenti, i quali criticavano il Concordato e naturalmente il Papa che l’aveva sottoscritto. Le critiche, poi, erano di natura diversa; alcune blande e rispettose, altre addirittura implacabili e velenose. Devo dire, però, che nel Collegio Cardinalizio erano più i favorevoli che i contrari, ma devo anche aggiungere, per la verità, che gli avversari si esprimevano con violenza inaudita» (28).
Le voci di dissenso emersero gradualmente. «Da alcune confidenze carpite a mons. [Luigi] Maglione [1877-1944], nunzio a Parigi ma in quel momento in congedo a Roma, i cardinali Pompilj, Merry del Val e [Gaetano] Bisleti [1856-1937] avevano criticato “aspramente la politica di Pio XI” e “il disprezzo” che il pontefice “mostra di sentire per loro ed il Collegio dei Cardinali”» (29).
Diversa e più articolata, per quanto se ne sappia, era la posizione di mons. Domenico Tardini (1888-1961), il quale aveva partecipato alle trattative per l’intesa. All’inizio favorevole, il suo giudizio mutò a distanza di cinque anni dalla firma, quando era sottosegretario della Congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari.
Quel Concordato, diceva Tardini, poteva dare l’impressione alle altre nazioni di un appiattimento della Santa Sede sulla politica estera del governo italiano, quando, invece, era stata proprio «la rottura con l’Italia […] la garanzia più certa dell’indipendenza del Papa» (30). Tardini criticava anche l’organizzazione di quel piccolo Stato «così minuscolo e così presuntuoso, così povero e così … sciupone, così lillipuziano e così (…) saturo di impiegati e (…) onusto di stipendi.
«Giova alla Santa Sede — si chiedeva — istituto sopranazionale, spirituale, immenso, questo spettacolo di arrivismo, di idiotismo, di parassitismo, dato da coloro che si annidano nel tessuto della Città Vaticana?» (31). Parole profetiche, lette alla luce dei più recenti avvenimenti, e non solo.
Per Tardini, fine diplomatico, il testo del Concordato era troppo complesso, composto da «circa quaranta articoli, con disposizioni così varie così complesse così molteplici» che ne sarebbero, inevitabilmente scaturiti «ad ogni piè sospinto […] dissidi e […] lotte» (32). Neppure lo stretto legame, creato dal Pontefice, fra il Concordato e il Trattato con il famoso «simul stabunt, simul cadent», lo convinceva: «L’esperienza avrebbe dovuto insegnare qualche cosa: tutti i concordati sono destinati ad essere trasgrediti ed infine a cadere» e, quindi, quale sarà l’effetto, si domandava il prelato, di aver sostenuto per anni il «legame inscindibile tra Concordato e Trattato?» (33); fino ad auspicare, quale soluzione, la conservazione del Trattato e la fine del Concordato.
Un’altra insospettabile voce si levò in sordina per interrogarsi sui vantaggi dell’intesa, quella di mons. Giovanni Battista Montini (1897-1978), allora assistente ecclesiastico degli universitari cattolici della FUCI, successivamente eletto al soglio pontificio con il nome di Paolo VI (1963-1978): «Si fa sempre un gran discorrere — scriveva mons. Montini ai familiari, il 19 gennaio 1929 — su una cosiddetta imminente soluzione della questione romana; e la soluzione, per attesa e lusinghiera che sia alle due parti, sembra non essere priva di un certo aspetto ridicolo per entrambi: valeva la pena di protestare sessant’anni a quel modo per così (così? Almeno come si dice nella chiacchiera) esiguo risultato? E valeva la pena di far tanta professione d’indipendenza per poi cedere sul principio territoriale?» (34).
Un altro ecclesiastico, degno di menzione per la sua resistenza a ogni forma di intesa concordataria che sminuisse i diritti della Chiesa, fu don Paolo de Tőth (1881-1965) (35). Dotato di una grande preparazione teologica, fondata sul pensiero di san Tommaso d’Aquino (1225-1274) e di san Giovanni della Croce (1542-1591), definito «uno dei più fieri esponenti della Contro-Rivoluzione nell’Italia contemporanea» (36), il battagliero direttore del periodico cattolico Fede e ragione «[…] temeva una soluzione di compromesso che avrebbe fatto servire la Chiesa agli interessi dello Stato acattolico, venuto su dalla Rivoluzione nazionale del “risorgimento” a certi filoni del quale il fascismo sembrava riallacciarsi» (37).
Commentando dalle colonne di Fede e ragione il discorso tenuto da Mussolini alla Camera il 13 maggio 1929 sui patti del Laterano, don de Tőth scriveva che dopo lungo peregrinare si era «sempre a Febronio» (38), che non si poteva affatto parlare, nel senso proprio del termine, «di Stato cattolico», ma tutt’al più «di Stato concordatario, perché Stato concordatario può essere anche uno Stato acattolico, come è la Cecoslovacchia», concludendo che «la paura di Dio, nella quale si risolve, in pratica, la paura della Chiesa, non porta benedizione» (39).
La Conciliazione alla prova dei fatti
I contrasti fra le parti contraenti non cessarono con la firma degli accordi ma già in sede di ratifica emersero diversi gravi problemi, in primis quelli legati all’educazione della gioventù e all’Azione Cattolica.
I patti del Laterano, infatti, «[…] furono considerati dalle due controparti non solo come la fine di una lunga contesa, ma anche come l’inizio di una partita nuova, in cui ciascuno cercò di farne la base dei propri progetti. Da parte fascista, essi furono concepiti come lo strumento di un inglobamento della Chiesa nello stato totalitario, che tuttavia non doveva perdere il suo carattere laico e “fascista”; una parte non piccola della gerarchia ecclesiastica credette, invece, che la Conciliazione segnasse l’inizio della restaurazione di uno stato cattolico in Italia, in cui la vita pubblica, sia nel campo legislativo che amministrativo, si dovesse svolgere in totale armonia con i princìpi del cattolicesimo romano» (40).
Già alla metà del 1929, però, soprattutto dopo il discorso di Mussolini alla Camera del 13 maggio, il Pontefice si rese conto che le speranze cattoliche andavano incontro a una cocente delusione; e la crisi esplosa violenta nel 1931 glielo confermò. Il pomeriggio di lunedì 13 maggio, infatti, in sede di discussione sulla ratifica dei patti, Mussolini intervenne alla Camera con uno dei suoi più lunghi e articolati discorsi, che durò più di tre ore e occupò l’intera seduta, nel quale «[…] precisò, spesso, in modo duro e polemico, la linea del regime sulle questioni discusse in quelle settimane» (41). È interessante notare come Mussolini, per documentarsi in quella occasione sulla storia del cristianesimo, si fosse avvalso della consulenza di Ernesto Buonaiuti (1881-1946) (42), sacerdote scomunicato nel 1925 dalla Chiesa con l’accusa di modernismo.
All’esordio del discorso, a proposito dell’affermazione fatta dall’on. Arrigo Solmi (1873-1944), in una precedente seduta, «Chiesa libera e sovrana; Stato libero e sovrano» (43) Mussolini faceva subito una precisazione, rivendicando puntigliosamente e orgogliosamente la preminenza dello Stato sulla Chiesa: «Questa formula — disse il Duce — potrebbe far credere che ci sia la coesistenza di due sovranità. […] Bisogna persuadersi che fra lo Stato italiano e la Città del Vaticano c’è una distanza che si può valutare in migliaia di chilometri […]. Vi sono quindi due sovranità ben distinte, ben differenziate, perfettamente e reciprocamente riconosciute. Ma, nello Stato, la Chiesa non è sovrana e non è nemmeno libera […] perché, nelle sue istituzioni e nei suoi uomini, è sottoposta alle leggi generali dello Stato ed è, anche, sottoposta alle clausole speciali del Concordato».
Passando all’educazione dei giovani e, precisamente alla questione dei boy-scout cattolici, Mussolini disse: «Un altro regime che non sia il nostro, un regime demo-liberale, un regime di quelli che noi disprezziamo, può ritenere utile rinunciare all’educazione delle giovani generazioni. Noi no, in questo campo siamo intrattabili. Nostro deve essere l’insegnamento. Questi fanciulli debbono essere educati nella nostra fede religiosa, ma noi abbiamo bisogno di integrare questa educazione, abbiamo bisogno di dare a questi giovani il senso della virilità, della potenza, della conquista; soprattutto abbiamo bisogno di ispirare loro la nostra fede e accenderli delle nostre speranze».
Evidente, in questo passo del discorso, l’influenza delle idee gentiliane sullo Stato etico, per le quali la religione è solo una fase, la prima, dell’educazione dei giovani, da integrare successivamente con la filosofia, per una completa e più ampia maturazione dell’uomo.
Mussolini andò all’attacco anche sul fronte del Trattato, da lui considerato il più importante dei protocolli firmati: «Ebbene, o signori, non abbiamo resuscitato il potere temporale dei Papi: lo abbiamo sepolto».
Passando al Concordato, il capo del fascismo sottolineava di aver respinto la richiesta della Chiesa di introdurre l’insegnamento religioso anche nelle Università e ne evidenziava il carattere facoltativo e non catechistico.
Quanto all’impegno dei cattolici in politica — una delle questioni forse più importanti del Concordato, che avrebbe ridotto al silenzio per tanti anni ogni presenza cattolica nel campo sociopolitico, impedendo la nascita di un vero movimento cattolico in Italia — il capo del Governo esclamava: «È curioso che in tre mesi io ho sequestrato più giornali cattolici che nei sette anni precedenti! Era questo forse il modo per ricondurli all’intonazione giusta. […] è opportuno, anche in questa sede, far sapere che il Regime è vigilante e che nulla gli sfugge. Nessuno creda che l’ultimo fogliucolo che esce dall’ultima parrocchia non sia a un certo momento conosciuto da Mussolini. Non permetteremo resurrezioni di partiti o di organizzazioni che abbiamo per sempre distrutto (Vivissimi applausi)».
Mussolini concludeva il discorso con una forte riaffermazione dello Stato etico fascista e della sua superiorità rispetto al cattolicesimo, che lo integrava ma non si sostituiva ad esso: «Lo Stato fascista rivendica il pieno suo carattere di eticità, è cattolico, ma è fascista, anzi è soprattutto, esclusivamente, essenzialmente fascista. Il Cattolicesimo lo integra, e noi lo dichiariamo apertamente, ma nessuno pensi sotto la specie filosofica o metafisica di cambiarci le carte in tavola (Applausi). Ognuno pensi che non ha di fronte a sé lo Stato agnostico, demoliberale, una specie di materasso sul quale tutti dormivano a vicenda; ma ha dinanzi a sé uno Stato che è conscio della sua missione e che rappresenta un popolo che cammina; uno Stato che trasforma questo popolo continuamente, anche nel suo aspetto fisico. A questo popolo lo Stato deve dire delle grandi parole, agitare delle grandi idee e dei grandi problemi, non fare soltanto dell’ordinaria amministrazione. Per questa ordinaria amministrazione anche dei piccoli ministri dei piccoli tempi erano sufficienti».
Se il discorso di Mussolini, dai toni molto duri, fu accolto con favore dalle componenti più «laiche» della cultura e del partito fascista (44), esso deluse profondamente le speranze, forse un po’ ingenue, del mondo cattolico, in primis quelle del Papa, e costituì per essi un amaro ritorno alla realtà. Nel suo Diario della Conciliazione, Francesco Pacelli scrive che Pio XI rimase «fortemente amareggiato dal discorso» (45).
Il Pontefice rispose a Mussolini alla prima occasione, cioè nel pomeriggio del 14 maggio, rivendicando la priorità della famiglia e della Chiesa e sottolineando la funzione meramente sussidiaria dello Stato nel campo della famiglia e dell’educazione dei giovani: «La missione dell’educazione spetta innanzi tutto, soprattutto, in primo luogo alla Chiesa e alla famiglia: alla Chiesa, e ai padri e alle madri; spetta a loro per diritto naturale e divino e perciò in modo inderogabile, ineluttabile, insurrogabile. […] Lo Stato non è fatto per assorbire, per inghiottire, per annichilire l’individuo e la famiglia; sarebbe un assurdo, sarebbe contro natura, giacché la famiglia è prima della società e dello Stato» (46).
Il discorso pontificio non ebbe particolari echi di stampa, né suscitò polemiche, probabilmente perché Mussolini, fautore della politica «del bastone e della carota», aveva disposto così.
Il Papa, comunque, chiese a Mussolini, attraverso i canali diplomatici, una chiarificazione del suo discorso alla Camera, sperando che lo facesse nella successiva discussione al Senato. Nell’attesa, decise di rinviare la sua prima uscita pubblica, che tutti si attendevano per la processione del Corpus Domini in piazza San Pietro il 30 maggio.
Le sue attese furono, però, deluse. «Nonostante tutte le raccomandazioni del negoziatore pontificio, Mussolini volle ancora essere aggressivo, rivendicando l’opportunità delle “punte polemiche” di cui era costellato il suo discorso alla Camera» (47). In Senato, infatti, il discorso di Mussolini, tenuto il 25 maggio, «[…] non ebbe il respiro e l’ampiezza di quello del 13 maggio, ma sostanzialmente ne ribadì l’impostazione e, sia pure con qualche attenuazione, il tono polemico» (48).
Degno di nota è il fatto che il duce affermasse che «di questi Protocolli Lateranensi ve ne è uno che non può essere oggetto di discussione; ed è il Trattato. Gli eventuali dissidi avranno un altro terreno, quello del Concordato» (49). Era chiara l’allusione al fatto che il Concordato sarebbe stato terreno di scontro e che Mussolini si riservava di violarlo appena possibile: a dimostrazione di quanto aveva previsto mons. Tardini sulle «lotte e dissidi» che ne sarebbero scaturiti «ad ogni piè sospinto» e che «tutti i concordati sono destinati ad essere trasgrediti ed infine a cadere» e di quanto insegna la storia, anche recente: si pensi alla limitazione della libertas Ecclesiae operata dal governo italiano in tempo di emergenza Covid-19 unilateralmente e con provvedimenti amministrativi.
Di ciò era divenuto consapevole lo stesso Pontefice, il quale, commentando con Francesco Pacelli i discorsi di Mussolini, affermavache «quanto alla inscindibilità del Trattato e del Concordato egli [Pio XI] non avrebbe pensato a sollevare tale questione, se non vi fosse stato costretto dalle imprudenti dichiarazioni dell’altra parte che ha osato formulare la ipotesi che si possa tranquillamente non osservare il Concordato» (50).
Altra circostanza significativa è la citazione, da parte di Mussolini, nel discorso al Senato, a sostegno della sua «[…] affermazione puramente storicistica e niente affatto religiosa, che il cristianesimo ha trovato l’ambiente più favorevole a Roma» (51), di due storici ecclesiastici come Pierre Batiffol (1861-1929) e Louis Duchesne (1843-1922), entrambi in sospetto di modernismo, e il secondo messo all’Indice dei Libri Proibiti nel 1912, a conferma dell’ipotesi che le parti del discorso del Duce sulla storia del cristianesimo fossero dovute alla penna di Buonaiuti; il che assumeva, agli occhi della controparte, un carattere sottilmente provocatorio.
In ogni caso, dopo sottili schermaglie diplomatiche, durante le quali si rischiò di mandare tutto all’aria, si giunse finalmente allo scambio delle ratifiche, che avvenne il 7 giugno 1929 in Vaticano.
La crisi del 1931
Non erano passati nemmeno due mesi dalla cerimonia dello scambio delle ratifiche che il prefetto di Roma ordinava l’immediato sequestro di tutte le copie del quaderno 1899 del 20 luglio 1929 de La Civiltà Cattolica, la prestigiosa rivista dei gesuiti, ogni numero della quale non usciva senza il benestare del Vaticano. Ne diede notizia la stessa rivista il 2 agosto successivo. Il prefetto giustificava il provvedimento «per il contenuto generico e specifico antitaliano e antifascista dell’articolo di fondo, intitolato: “Tra ratifiche e rettifiche”» (52).
Come inizio non era male.
«Il sequestro della Civiltà Cattolica dovette sorprendere il papa: contrariamente alle sue previsioni, Mussolini mostrava chiaramente di non temere lo scontro e, se necessario, di saperlo condurre con risolutezza» (53). Tramite l’ambasciatore italiano presso la Santa Sede, De Vecchi, il Pontefice cercò, invano, di evitare la pubblicazione del decreto prefettizio sulla rivista dei gesuiti. «Pio XI temeva gli echi internazionali di questa vicenda (la rivista — diceva — “va in tutto il mondo”): si sarebbe rafforzata l’impressione, già viva in parte della gerarchia e dell’opinione pubblica cattolica, che con i patti lateranensi la Santa Sede avesse fatto molti sacrifici in cambio di una situazione che continuava ad essere precaria» (54).
«Paradossalmente — scrive lo storico Renato Moro — i rapporti fra Chiesa e regime erano peggiorati dopo il febbraio del 1929» (55).
Pio XI, nel discorso tenuto ai vescovi italiani in Piazza San Pietro la sera del 25 luglio 1929 — la prima solenne uscita del Papa sulla piazza —, disse: «Non possiamo poi esimerci dal raccomandare di aver spesso l’occhio sull’articolo 43 del Concordato. In esso si dice che l’Azione Cattolica deve farsi al di fuori di ogni partito politico e che i sacerdoti non possono e non devono iscriversi a nessuno di tali partiti: uno solo è infatti il nostro partito, quello degli Apostoli, quello di salvare le anime» (56).
Fra la primavera e l’estate del 1931, sul tema dell’Azione Cattolica, definita da Pio XI «la pupilla dei miei occhi» (57), si svolse la più ampia crisi fra il regime e la Chiesa Cattolica dopo la Conciliazione.
I prodromi della crisi si ebbero nei primi mesi dell’anno ed ebbero ad oggetto l’obbligo delle associazioni cattoliche di utilizzare la bandiera nazionale e solo in casi eccezionali i propri stendardi e la contestazione, fatta al cardinale Pacelli, della datazione «da Roma presso San Pietro» degli atti ufficiali della Santa Sede, ritenuta, da Mussolini, lesiva delle prerogative del re e del Regno d’Italia sulla Città eterna (58). Ci fu anche la questione della santificazione delle feste, sollevata dall’arcivescovo di Bologna card. Giovanni Battista Nasalli Rocca da Corneliano (1872-1952) in una notificazione al clero e ai fedeli della diocesi l’11 gennaio 1929, nella quale si contestava l’apertura dei negozi, il lavoro dei dipendenti e i pubblici spettacoli e balli nei giorni festivi, sostanzialmente attribuendone la responsabilità alle locali autorità fasciste, il che provocò attriti fra le parti. Sul tema intervenne anche il nunzio apostolico Francesco Borgongini Duca (1884-1954), con una nota indirizzata a Mussolini il 31 gennaio di quell’anno, e lo stesso Pio XI con un forte discorso ai parroci e ai quaresimalisti romani.
Allarmò il regime, poi, una circolare interna dell’avvocato Emilio Traglia (1903-1955), presidente della Gioventù Cattolica Italiana, del 19 marzo 1931, nella quale si annunciava la creazione di un Segretariato Nazionale Operai, in cui esso intravedeva «[…] l’ennesima prova di un embrione di cospirazione, le cui fila erano tenute da quegli ex-popolari, adesso militanti dell’Azione Cattolica, “che in Vaticano hanno trovato ospitalità” e che essendo stati trattati male in passato dai fascisti sono indotti dal risentimento a consigliare male il pontefice» (59).
Vi erano tutti gli elementi per lo scoppio di una crisi.
L’innesco fu un discorso tenuto a Milano dal segretario del Partito Nazionale Fascista Giovanni Battista Giuriati (1876-1970), nel quale si riaffermava il carattere «totalitario» e «cattolico» dello Stato fascista. Il discorso ebbe notevole risonanza internazionale perché ad esso rispose, fatto insolito, lo stesso Pontefice, con una lunga lettera all’arcivescovo di Milano, il cardinale benedettino beato Alfredo Ildefonso Schuster (1880-1954) (60).
La crisi era aperta. Il 26 maggio il ministero dell’Interno procedette allo scioglimento di tutte le associazioni giovanili non dipendenti direttamente dal Partito Nazionale Fascista e dall’Opera Nazionale Balilla; furono chiuse e incendiate sedi dell’Azione Cattolica, oratori e tipografie.
Il 1° giugno Pio XI decise di sospendere a Roma il congresso eucaristico e vennero proibite in tutte le parrocchie le processioni del Corpus Domini. Quindi, con la lettera enciclica Non abbiamo bisogno, del 29 giugno, condannava senza mezzi termini, ma anche senza rompere completamente i ponti, il proposito «[…] di monopolizzare interamente la gioventù, dalla primissima fanciullezza fino all’età adulta, a tutto ed esclusivo vantaggio di un partito, di un regime, sulla base di una ideologia che dichiaratamente si risolve in una vera e propria statolatria pagana non meno in pieno contrasto coi diritti naturali della famiglia che coi diritti soprannaturali della Chiesa» (61).
La crisi, che sembrava irreversibile, venne però risolta in seguito alla paziente opera di mediazione del gesuita Tacchi Venturi, conclusasi con l’intesa del 2 settembre 1931, grazie alla quale l’Azione Cattolica poteva riaprire, anche se ne venivano ridotti gli spazi di operatività.
La «Riconciliazione della Conciliazione» (62) verrà sancita momentaneamente dall’incontro di Mussolini con il Papa, l’11 febbraio 1932.
Note:
1) La «legge delle guarentigie», emanata il 13 maggio 1871, fu un atto unilaterale con il quale il governo italiano intese regolare i rapporti con la Santa Sede. Respinta da Pio IX con l’enciclica Ubi nos del 15 maggio di quell’anno, la legge era ispirata al principio cavouriano della separazione fra Chiesa e Stato.
2) Il non expedit («non giova», «non conviene») è una formula usata dalla Santa Sede per esprimere una dissuasione, un divieto, sebbene attenuato. Nel caso di cui si parla fu usata per la prima volta dalla Sacra Congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari il 30 gennaio 1868 in risposta a un quesito dei vescovi piemontesi che chiedevano se fosse lecito partecipare alle elezioni politiche. Ribadito in una comunicazione della Sacra Penitenzieria Apostolica il 9 novembre 1870 e il 10 settembre 1874, e da Pio IX in diverse occasioni, il divieto divenne particolarmente cogente con un atto del Sant’Uffizio, nel luglio 1886, sotto il pontificato di Leone XIII (1878-1903), che si espresse con la formula: «non expedit prohibitionem importat», «la non convenienza implica il divieto». Tale divieto non si applicava, però, alle elezioni amministrative e fu attenuato da Papa san Pio X (1903-1914) che, con il cosiddetto Patto Gentiloni, nel 1913, praticamente autorizzò i cattolici a partecipare alle elezioni politiche. Fu abolito da Benedetto XV (1914-1922) nel 1919.
3) Tale principio in realtà venne applicato solo nelle questioni in cui risultava sfavorevole alla Chiesa. «Chiesa non pienamente libera in libero Stato», scriveva il giurista Francesco Ruffini (1863-1934) in Idem, La libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo, il Mulino, Bologna 1992, p. 361. Ruffini teorizzava una sorta di «giurisdizionalismo liberale» o «mitigato» (ibidem).
4) Sul tema cfr. Marco Invernizzi, Il movimento cattolico in Italia dalla fondazione dell’Opera dei congressi all’inizio della seconda guerra mondiale (1874-1939), 2a ed. rivista, Mimep-Docete, Pessano (Milano) 1995; e I cattolici contro l’unità d’Italia? L’opera dei congressi (1874-1904), Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 2002.
5) «Vediamo parimenti che alcuni Stati, in seguito a così gravi e radicali sconvolgimenti politici, si sono trasformati al punto da non poter più essere considerati come la stessa persona morale con la quale la Sede Apostolica aveva trattato in precedenza. Dal che naturalmente consegue che anche i patti e le convenzioni che prima erano stati conclusi tra la Santa Sede e quegli Stati non hanno più alcun valore. Tuttavia, se i Capi delle Repubbliche e degli Stati sopraddetti volessero stipulare con la Chiesa nuovi patti che siano più appropriati alle mutate condizioni politiche, sappiano che la Santa Sede, qualora non vi si opponga particolare ostacolo, non è aliena dal trattare con essi come sta già trattando con alcune Nazioni» (Benedetto XV, Discorso ai cardinali riuniti in concistoro segreto in occasione della Conferenza Internazionale di Washington per il Disarmo «In hac quidem», del 21-11-1921).
6) Cfr. Antony Rhodes (1916-2004), Il Vaticano e le dittature. 1922-1945, trad. it., Mursia, Milano 1973.
7) Cfr. Giovanni Coco, Il Labirinto romano. Il filo delle relazioni Chiesa-Stato tra Pio XI, Pacelli e Mussolini (1929-1939), 2 tomi, Archivio Segreto Vaticano, Città del Vaticano 2019, tomo I, p. 28.
8) Ibid., tomo I, p. 31.
9) Così si espresse il card. Carlo Confalonieri (1893-1986): cfr. ibid., tomo I, p. 27.
10) Roberto Pertici, Chiesa e Stato in Italia. Dalla Grande Guerra al Nuovo Concordato (1914-1984), il Mulino, Bologna 2009, p. 102.
11) Renzo De Felice (1929-1996), Mussolini il fascista, 2 voll., Einaudi, Torino 1966, vol. I, La conquista del potere. 1921-1925, p. 495.
12) R. Pertici, op. cit., p. 115.
13) Francesco Pacelli, Diario della Conciliazione, con verbali e appendice di documenti, a cura di [don] Michele Maccarrone (1910-1993), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1959, p. 3.
14) Per un inquadramento generale, cfr. Oscar Sanguinetti, Novanta anni fa: la Conciliazione, in Cristianità, anno XLVII, n. 396, marzo-aprile 2019, pp. 39-62.
15) Cfr. Mauro Ronco, Concordato: una revisione nella linea della separazione, ibid., anno XII, n. 107-108, marzo-aprile 1984, pp. 3-4.
16) R. Pertici, op. cit., p. 123.
17) F. Pacelli, op. cit., pp. 100-101.
18) R. Pertici, op. cit., p. 133.
19) Ibid., p. 134.
20) «Accesissima e lunga (si protrasse per due sedute) fu la discussione sull’art. 34 riguardante il matrimonio religioso, e sul relativo schema di progetto di legge» (Mario Casella, Stato e Chiesa in Italia dalla Conciliazione alla riconciliazione (1929-1931). Aspetti e problemi nella documentazione dell’Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri, Congedo Editore, Galatina (Lecce) 2005, p. 34).
21) M. Ronco, art. cit., pp. 3-4.
22) «Il 24 febbraio Mussolini telegrafò ai prefetti: “Richiamare i quotidiani fascisti a una maggiore sobrietà quanto concerne la Città del Vaticano ed a non dare notizie premature o cervellotiche di viaggi pontifici aut altro stop vigilare su talune inopportune amplificazioni della stampa cattolica, richiamandola alle misure del Regime ed alla discrezione» (M. Casella, op. cit., p. 28, nota 22).
23) R. Pertici, op. cit., p. 143.
24) G. Coco, op. cit., tomo I, p. 63.
25) De Vecchi riferiva di aver appreso «[…] per confidenziali comunicazioni di vari prelati la viva campagna che in sordina per noi, ma chiaramente nell’interno della Chiesa viene condotta da vari di questi porporati contro l’avvenuta conciliazione» (cit. in M. Casella, op. cit., p. 77, nota 130). De Vecchi riferisce ancora di aver avuto modo di far conoscere al Segretario di Stato e allo stesso Pontefice queste critiche, il quale ultimo «ne aveva qualche sentore se non tutte le prove che erano a mie mani». Critiche piuttosto dure, sui termini e sulla forma delle quali è forse lecito dubitare, ma non sulla sostanza. Prosegue, infatti, De Vecchi: «gli riferivo [a Pio XI] ad esempio che il Cardinale Lauri aveva detto “che il Concordato e il Trattato del Laterano erano stati fatti da un tonto e da un furbacchione”. Il tonto sarebbe Sua Santità Pio XI° e il furbacchione “l’Eccellenza Vostra”. Il Cardinal Merry del Val, noto per aver desiderato una conciliazione ma alquanto indispettito di essere stato estraneo a questa, aveva detto: “Si vede ben chiaro che il Concordato è stato fatto da un Alpinista (Sua Santità). Infatti è fatto coi piedi!”. Lo stesso Cardinal Lauri alcuni giorni prima della Processione Eucaristica Pontificale in Piazza San Pietro si era pubblicamente doluto di dover “subire la umiliazione di assistere e partecipare alla uscita del Papa in Piazza San Pietro”» (ibid., p. 78, nota 130).
26) Cfr. Giuseppe Dalla Torre del Tempio di Sanguinetto (1885-1967), Memorie, Mondadori, Milano 1967, p. 93. Il card. Cerretti cambiò parere, probabilmente più per ragioni politiche — a causa dei benefici e dell’opera «disciplinatrice» del popolo italiano fatti dal regime — che per ragioni dottrinali. Scrive, a questo proposito, Giovanni Coco: «Ma la “conquista” più significativa per il Regime fascista era stata rappresentata dal card. Bonaventura Cerretti, nel passato fermamente ostile ai Patti Lateranensi […]. Il 15 febbraio del 1932, in occasione del decennale dell’elezione di papa Ratti, il cardinale aveva tenuto un discorso al Circolo “San Pietro”, nel quale ha parlato con entusiasmo dell’opera della Conciliazione» (G. Coco, op. cit., tomo I, p. 396).
27) «Il patriziato nero romano non era meno acido di certi porporati i quali, bene o male, potevano anche avere delle ragioni per criticare l’operato del Santo Padre. La frase più tagliente e più crudele fu pronunciata dal Principe Ruspoli che ricopriva allora un’alta carica vaticana. “Mi dispiace che non si sia più nel Medioevo”, disse, “per non poter somministrare un po’ di veleno a questo Papa!”» (cfr. M. Casella, Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon Primo Ambasciatore d’Italia in Vaticano (Giugno 1929-Luglio 1935), in Storia e Diplomazia, vol. 2, fasc. 1, Ministero degli Affari Esteri, Roma giugno 2009, pp. 11-28 (p. 21).
28) Ibidem.
29) G. Coco, op. cit., tomo I, p. 63. «Cerretti — aggiunge Coco, citando una Informativa del 15 giugno 1929 del Ministero dell’Interno — “avrebbe detto fra l’altro che il papa si è fatto mangiare da Mussolini la pappa in testa”».
30) Carlo Felice Casula, Domenico Tardini (1888-1961). L’azione della Santa Sede nella crisi fra le due guerre, Studium, Roma 1988, pp. 294-295.
31) R. Pertici, op. cit., p. 286.
32) C. F. Casula, op. cit., pp. 294-295.
33) Ibidem.
34) Giovanni Battista Montini, Lettere a casa. 1915-1943, a cura di Nello Vian (1907-2000), Rusconi, Milano 1987, pp. 168-169.
35) Su di lui cfr. M. Invernizzi, Paolo de Tőth (1881-1965), in Idis. Istituto per la Dottrina e la Formazione Sociale, Voci per un «Dizionario del pensiero forte», a cura di Giovanni Cantoni (1938-2020), presentazione di Gennaro Malgieri, Edizioni di «Cristianità», Piacenza 1997, pp. 239-244.
36) Gianni Vannoni (1949-2017), Don Paolo de Tőth (1881-1965), in Cristianità, anno III, n. 14, novembre-dicembre 1975, pp. 10-13 (p. 10).
37) Ibid., p. 12. «In effetti — scrive Vannoni — la valutazione del fascismo presso Fede e Ragione è sostanzialmente negativa, mentre suona di frequente positivo, per quanto con riserva, il giudizio via via espresso sulle realizzazioni del regime. La distinzione tra movimento fascista e regime, che solo in questi ultimi anni è stata acquisita dalla migliore storiografia, è chiaramente formulata sulle pagine della rivista fiesolana, che tendeva a favorire una evoluzione in senso cattolico dello Stato autoritario, stigmatizzandone nel contempo le propensioni al totalitarismo» (ibidem).
38) Ibidem. Johann Nikolaus von Hontheim (1701-1790), giurista e teologo tedesco noto sotto lo pseudonimo di Febronio, propugnava la subordinazione della Chiesa allo Stato.
39) Ibidem. Secondo Vannoni «la soluzione concordataria era stata condotta innanzi, nell’ambito del mondo cattolico, dalla corrente “modernizzante” che faceva capo al cardinal Gasparri, avendo nel padre Tacchi-Venturi l’uomo delle trattative private, e nel padre [Enrico] Rosa [1870-1938] il portavoce pubblico. De Töth si era mosso, e non solo come giornalista, per rettificare il processo in corso, cercando di imprimergli la direzione intransigente auspicata dalla corrente “integralista”, in auge con san Pio X e ora in sott’ordine, alla quale appartenevano, tra gli altri, l’ex-segretario di Stato Merry del Val, il padre [Louis] Billot S. J. [1846-1931] e il cardinal [Tommaso Pio] Boggiani [1863-1942] domenicano. Era una lotta di vecchia data, di cui il nodo concordatario rappresentava soltanto un episodio, anche se per molti versi terminale. A essa De Töth aveva partecipato in varie fasi, con alterna fortuna» (p. 129).
40) R. Pertici, op.cit., p. 149.
41) Ibid., p. 189.
42) «C’est Bonaiuti qui a documenté Mussolini», rivelava il giornalista Emanuele Barabino a mons. Alfred Henri Marie Baudrillart (1859-1942), futuro cardinale (cfr. Les carnets du cardinal Alfred Baudrillart (26 décembre 1928-12 février 1932), CERF, Parigi 2003, p. 331, sub 4 octobre 1929).
43) Il discorso di Mussolini è riportato in Camera dei Deputati, Atti Parlamentari, Legislatura XXVIII, Discussioni, 13 maggio 1929, pp. 129-154, e in R. Pertici, op. cit., pp. 603-645. Le citazioni che seguono, senza riferimento, sono tratte da questo discorso.
44) Il filosofo Guido Calogero (1904-1986) nel saggio Mussolini, la Conciliazione e il congresso filosofico del 1929, pubblicato sulla rivista La cultura, anno IV, n. 2, 1966, pp. 433-467, sottolinea la sorpresa e gli echi favorevoli che il discorso di Mussolini ebbe negli ambienti gentiliani dell’Enciclopedia italiana.
45) F. Pacelli, op.cit., p. 143.
46) Pio XI, Allocuzione ai professori ed agli alunni del Collegio di Mondragone «Ecco una», del 14-5-1929.
47) R. Pertici, op. cit., pp. 214-215.
48) Ibidem.
49) Ibid., p. 218.
50) F. Pacelli, op. cit., pp. 149-150.
51) R. Pertici, op. cit., p. 215.
52) Cfr. il decreto prefettizio, in La Civiltà Cattolica, anno 80°, vol. III, quad. 1899, 2-8-1929, p. 193.
53) R. Pertici, op. cit., p. 238.
54) Ibidem.
55) Renato Moro, La formazione della classe dirigente cattolica (1929-1937), il Mulino, Bologna 1979, p. 124.
56) Parole Pontificie sugli accordi del Laterano (Subito dopo la firma – Al Corpo Diplomatico – Dopo i discorsi e le discussioni parlamentari), Edizione L’Osservatore Romano, Roma 1929, pp. 73-74. L’articolo 43 del Concordato stabiliva, al primo comma: «Lo Stato italiano riconosce le organizzazioni dipendenti dall’Azione Cattolica Italiana, in quanto esse, siccome la Santa Sede ha disposto, svolgano la loro attività al di fuori di ogni partito politico e sotto l’immediata dipendenza della gerarchia della Chiesa per la diffusione e l’attuazione dei principî cattolici». E al secondo comma: «La Santa Sede prende occasione dalla stipulazione del presente Concordato per rinnovare a tutti gli ecclesiastici e religiosi d’Italia il divieto di iscriversi e militare in qualsiasi partito politico» (Il testo è nel sito web <http://www.vatican.va/roman_curia/secretariat_state/archivio/documents/rc_seg-st_19290211_patti-lateranensi_it.html>. Gl’indirizzi Internet dell’intero articolo sono stati consultati il 29-6-2021).
57) Cfr. Pio XI, Discorso all’assemblea diocesana di Azione Cattolica di Roma, 9-3-1924, cit. in M. Casella, Pio XI e l’Azione Cattolica Italiana, in Achille Ratti pape Pie XI. Actes du colloque de Rome (15-18 mars 1989), École Française de Rome, Roma 1996, pp. 605-640 (p. 637); cfr. altresì «Il Signore degli eserciti, dopo che la sua gloria mi ha inviato, dice alle nazioni che vi hanno spogliato: Chi tocca voi, tocca la pupilla dei miei occhi» (Zc. 2, 12).
58) M. Casella, Stato e Chiesa in Italia dalla Conciliazione alla riconciliazione (1929-1931). Aspetti e problemi nella documentazione dell’Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri, cit., p. 280.
59) Appunto di Amedeo Fani (1891-1974), sottosegretario agli Affari Esteri, del 25-5-1931, cit. in G. Coco, op. cit., p. 116. Sull’infiltrazione progressista dell’Azione Cattolica in Brasile, cfr. Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), Em defesa da Ação Católica, con una prefazione di S. E. Rev.ma il Nunzio Apostolico mons. Benedetto Aloisi Masella [1879-1970], 1943, reprint Artpress, San Paolo (Brasile) 1983.
60) Cfr. M. Casella, Stato e Chiesa in Italia dalla Conciliazione alla riconciliazione (1929-1931). Aspetti e problemi nella documentazione dell’Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri, cit., pp. 292-293.
61) Pio XI, Lettera enciclica «Non abbiamo bisogno» sull’Azione Cattolica Italiana, del 29-6-1931, capo III.
62) Daiana Menti, voce Tacchi Venturi, Pietro, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 94, 2019, consultabile nel sito web <https://www.treccani.it/enciclopedia/pietro-tacchi-venturi_%28Dizionario-Biografico%29>.