GIOVANNI CANTONI, Cristianità n. 270 (1997)
Il 12 luglio 1997, in seguito a un tragico incidente stradale, è mancato all’età di settant’anni — era nato il 27 marzo 1927 — lo storico francese François Furet, noto soprattutto per aver “ripensato”, cioè pensato criticamente, la Rivoluzione detta francese, le sue origini anche remote, i suoi sviluppi e la sua influenza di lunga durata fuori dalla vulgata progressista (20), e per aver affrontato con altrettanta libertà, nel 1995, la storia dell’idea comunista nel secolo XX (21). A meno di due mesi dalla scomparsa, nel numero di settembre, la rivista Reset. Un mese di idee offre ai lettori, con il titolo “Società borghese, quanto sei fragile!”, l’ultima intervista rilasciata dallo studioso e raccolta un mese prima della sua morte da Fabrizio Intonti (22).
In genere rimando al documento nella sua integralità, perché mi pare già un sunto — meglio, un consuntivo intellettuale e in qualche modo anche esistenziale per chi ha dedicato la vita allo studio —, quindi difficilmente suscettibile di essere ulteriormente compendiato. Infatti, credo abbia veramente natura — e anche allure — “testamentaria”. Né credo di abbandonarmi a cattiva retorica dicendo che il testo meriterebbe di essere glossato parola per parola, aggettivo per aggettivo, per mettere in risalto sia la problematica affrontata che quella implicita, relativa al pensiero dell’autore, non solo per apprezzarlo, ma talora per contestarlo in qualche particolare o per contraddirlo radicalmente. Nell’impossibilità di realizzare, almeno nell’immediato, quanto ho detto essere necessario, comunque possibile, mi limito a registrare un’affermazione dominante, sia perché reiterata, sia perché non riguarda solo il passato, ma — soprattutto — il futuro di cui è gravido il presente, quindi il “che fare”.
Dopo aver conclusivamente notato come non vi sia ragione per immaginare che “il mondo liberale nel secolo XXI” sia “[…] più sicuro e più stabile di quanto non sia stato in passato”, Furet afferma che tale mondo liberale “[…] è per definizione un mondo di conflitti, un mondo fragile, vulnerabile, tenuto sempre a confrontarsi con le promesse che dischiude agli individui senza poterle mantenere”. Qual è questo deficit, questa “debolezza della società liberale”, come la chiama lo storico? Consiste “[…] nell’incapacità della società liberale di costituire un corpo politico”, sì che essa “[…] deve la sua fragilità al fatto di avere come postulato l’autonomia degli individui, idea difficilissima da tradurre in termini di corpo politico”. La risposta a questa incapacità fornita nel secolo XX dal comunismo e dai fascismi “[…] in fondo […] sta nel fatto di pensare il corpo sociale come unità, il che significa ritrovare l’unità del corpo sociale, attraverso il partito-Stato”. Infatti, la Rivoluzione francese, della quale Furet indica come dominante l’aspetto politico, “[…] può essere considerata una vittoria della borghesia sull’aristocrazia, ma è anche la scoperta, da parte della nuova classe media, dell’universo politico moderno, liberal democratico, in cui i cittadini sono liberi e uguali. Ma la cosa appassionante è che mentre le conquiste sociali, con l’ascesa d’una nuova classe dirigente in nome dell’eguaglianza civile, avvengono immediatamente con le famose leggi del 4 agosto 1789, a partire da questa vittoria contro l’aristocrazia la storia della Rivoluzione francese si caratterizza per una serie di fallimenti politici”. Così — prosegue lo studioso —, “la ricchezza e il carattere enigmatico della Rivoluzione francese […] consistono proprio in questa ricerca incessante d’un nuovo corpo politico, corrispondente alla società civile borghese, che è poi uno dei grandi problemi della democrazia liberale moderna”. E ancora: “[…] il vero problema della Rivoluzione francese non è l’uguaglianza civile, questione risolta subito e in modo definitivo, ma l’articolazione del nuovo corpo politico, ossia il destino della libertà“. Di nuovo: “Il problema della società moderna, che convive con essa, sta nel fatto che il corpo politico deve essere dedotto dalla società civile, e nella società liberale moderna c’è un’infermità costante, una difficoltà a costruire la sfera politica. Questa difficoltà è rimasta nascosta nella rivoluzione americana, rivoluzione addirittura troppo facile, avvenuta con la benedizione della religione su un popolo cristiano, che non ha avuto bisogno di rinnegare un passato aristocratico e feudale e ha avuto anche la fortuna di trovare cento grandi uomini politici. Ed è una difficoltà che per la prima volta nella storia dell’umanità appare in modo straordinario nella rivoluzione francese”.
Ho seguito un itinerario importante; per certo uno dei molti, ma, a mio avviso, il più sostanzialmente rilevante dopo il 1989, dopo la vittoria della società liberale e la sconfitta del totalitarismo comunista. E su questa via ho tentato — spero con successo — di non lasciarmi distrarre dai numerosi bivi segnalati dallo stesso intervistato. Ripercorro il cammino fatto con Furet: il mondo nato dalla Rivoluzione francese ha ridotto la società a un insieme di individui pretesamente autonomi, quindi esso, che di questa autonomia ha fatto un postulato, non soltanto si è trovato ma si trova di fronte alla necessità sia di ricostruire la società a partire dagli individui, sia di organizzarla statualmente con loro. Fra le proposte per fronteggiare la problematica è stata storicamente avanzata quella d’inventare la società storica, liberamente, volontaristicamente e artificialmente, prospettando diverse utopie, internazionali e/o nazionali, e inducendo in essa nomenklature partitiche, “piccoli popoli” a dirigere il “grande popolo” dal quale non sono naturalmente “dedotti”. Ma gli esiti dell’”esperimento profano” realizzato attraverso la libertà, la volontà e l’artificio sono stati tragici, quindi — nella sostanza — non più proponibili; ma — ancora — alla loro improponibilità non sembra si voglia far fronte attraverso la modifica radicale dell’impostazione del problema stesso: ci si limita a indicarlo come di difficile soluzione. È il dramma della società liberale.
Esiste una soluzione? François Furet fornisce tracce non esigue per uscire dall’empasse, dal vicolo cieco, sia quando parla di vittoria della borghesia sull’aristocrazia, sia quando evoca le leggi del 4 agosto 1789 come specifico della Rivoluzione francese, sia quando segnala il carattere ambiguo della cosiddetta Rivoluzione americana. Infatti, nonostante gli sforzi messi in campo dagli ugualitari di ogni specie per accreditare una coincidenza fra aristocrazia e nobiltà — di suo importante, ma semplice frutto del riconoscimento giuspubblicistico di una realtà esistente, cioè riconoscimento del rilievo politico di una realtà non solo politica —, aristocrazia rimanda piuttosto a famiglia e a pedagogia di lungo respiro, come a famiglia e a proprietà familiare dice relazione la legislazione formalmente antifeudale del 4 agosto 1789, mentre famiglia e mestiere riguarda la legislazione anticorporativa del 1° giugno 1792; così la guerra d’indipendenza americana ha trovato non per “fortuna”, ma naturalmente, “cento grandi uomini politici” perché non si è realizzata sulla base del rinnegamento né dell’aristocrazia né del feudalesimo.
Ergo, la soluzione del dramma non consiste nell’integrare il deficit della società liberale con elementi di fantasia, cioè con “utopie al potere” — per usare la formula di Mihail Geller e di Aleksandr Nekric’ (23) — e con nomenklature artificiali e burocratiche eventualmente “oneste”; e non sta neppure nel ricercare l’equilibrio perduto fra uguaglianza e diversità (24). Infatti, se la tesi secondo cui “tutti gli uomini sono uguali” non costituisce un errore, ma una verità parziale, così come quella per cui “tutti gli uomini sono diversi”, Furet però identifica la causa della debolezza congenita delle società liberali a monte delle due tesi e del loro uso dialettico e non complementare, cioè nel postulato dell’autonomia dell’uomo, che — da parte sua — non è una verità dimezzata, ma un errore simpliciter (25). Perciò la soluzione del dramma identificato sta nell’abbandonare il postulato dell’autonomia e nel ritornare alla consapevolezza della condizione umana, che mostra l’individuo non solo ma concretamente causato, circondato e condizionato da un habitat sociale e storico, la cui prima cerchia — il riferimento è alla sociologia di Georg Simmel (26) — è la famiglia, che, dal canto suo, è carica di benefici diversi agli occhi di ogni suo membro e li proietta sulla società, sulla patria, sulla nazione e sullo Stato che le organizza e le protegge, e in questo modo rende amabili società, patria, nazione e Stato. Infatti — nota Furet —, “la società moderna, borghese o capitalistica, una definizione vale l’altra, in sé è difficile da amare, perché non ha una legittimità profonda, che invece ha la legittimità aristocratica, perché l’aristocratico viene da un mondo più lontano di lui, ed è legittimato dal tempo. Anche la società monarchica è legittima, in quanto un re è qualcosa di più che il suo semplice corpo: è una presenza immaginaria in cui l’insieme del corpo sociale può riconoscersi”. Quasi perfetto, con il dotto richiamo ai “due corpi del re” descritti da Ernst H. Kantorowicz (27). Ma va ricordato che l’aristocratico è un uomo qualunque, quidam de populo, divenuto nobile, notabilis, cioè noto, per quanto ha fatto per la res publica (28), per il bonum commune, per il commonwealth, per il Reich — termini diversi per uno stesso concetto con diverse sfaccettature e accentuazioni — non per ragioni di tempo, cioè di conservazione del potere per esempio politico, ma attraverso la perpetuazione di autorevolezza. Né si deve dimenticare che questa continuità opera nel tempo attraverso l’istituto familiare, tipo appunto dell’eterno, del costante, del permanente nella storia: nello stesso tempo vivaio o seminario in cui si garantisce la continuazione biologica della specie, cenacolo per la trasmissione della cultura comune, della tradizione, cenobio dove si pratica l’ascesi nella prospettiva della perfezione sociale, della perfezione del servizio agli altri e della convivenza orientata alla perfezione di ogni singolo, e Chiesa domestica (29), in cui si opera la piantagione della fede, orientata questa al servizio di Dio e alla sua gloria.
“[…] nelle società borghesi — afferma sempre Furet — non c’è forza nel consenso all’obbedienza, perché l’autorità non è legittima. E proprio quando le società hanno maggior bisogno del consenso per governare, essendo democratiche dunque fondate sulla libera volontà, il consenso è più difficile da ottenere, perché non vi è classe politica dirigente e rispettabile. Si spiega così la crisi delle società borghesi che stiamo attraversando. La fine del comunismo infatti non ha reso le società borghesi più facili da amare, ma le ha lasciate con i loro difetti, e ha soltanto privato una parte delle loro frustrazioni di quello sbocco illusorio rappresentato da una società di tipo sovietico”. Infatti, “[…] noi viviamo in una società dove gli elementi di instabilità sono evidenti: la globalizzazione, la creazione d’un mercato unico sul piano mondiale e d’una umanità in fondo sempre più omogenea, sempre più uniforme. La tirannia dell’economico e della tecnica non era mai apparsa così potente. Si ha l’impressione di essere spinti dietro la schiena da una forza che non controlliamo, che è la rivoluzione scientifica e tecnologica, la corsa al profitto, che porta a licenziare per guadagnare in termini di produttività. Le classi politiche in Europa non hanno mai avuto una tale sensazione d’impotenza di fronte a fenomeni tecnico-economici. Cosa mai potrà arrestarli?”.
La risposta naturale — che non esclude quella soprannaturale, il cui unico intervento configura il miracolo — è che tali fenomeni possono essere fronteggiati e arrestati in una certa misura solo da chi li ha attivati: il di più, il frutto dell’eterogenesi dei fini, comporta che ne vengano sopportate — né si può fare diversamente — le conseguenze impreviste, se non assolutamente e completamente imprevedibili. Perciò, la soluzione del problema della società liberale non sta nel rinunciare alla libertà, che ne costituisce piuttosto la verità e il pregio; non sta nel tentare di correggerne il deficit attraverso la realizzazione di qualche utopia con l’imposizione artificiale di qualche nomenklatura, ma nel coniugare il presupposto indispensabile costituito dalla libertà con la verità sull’uomo e sulle diverse articolazioni della vita umana e sociale, prima necessariamente con la verità naturale, poi liberamente con quella rivelata.
Ergo, importa che, in regime di libertà, si riconosca la “famiglia sovrana” — secondo un’espressione di Papa Giovanni Paolo II (30) —, quella sovranità della famiglia che, emblematicamente espunta dall’organizzazione delle società occidentali il 4 agosto 1789, fonda invece etnia e nazione, corpi intermedi e Stato; inaugura incoativamente il processo di aristocratizzazione, cioè di perfezionamento, del corpo sociale — non obbligatoriamente con esiti istituzionali nobiliari e monarchici —, quindi lo svolgersi di aristocrazie dal corpo sociale stesso, e sempre di tale corpo rende amabili, da conservare e da difendere, la realtà e le articolazioni. Diversamente, senza abbandonare il postulato dell’autonomia e senza riattivare il processo sociale di elaborazione di élite, di aristocrazie, nessuna promessa potrà essere mantenuta, perché non si può portare a termine, cioè non si può perfezionare nulla senza rispettare la coerenza con il suo principio, con la sua natura. E l’utopia, un’ennesima utopia, è già all’opera o, almeno, è pronta dietro l’angolo, pronta a illudere e a deludere tragicamente.
Voglia Dio che anche le riflessioni “testamentarie” di François Furet, storico del “passato di un’illusione” che ha segnato il secolo XX e ha infierito e continua a infierire nel mondo intero, aiutino a evitare il futuro di qualche altra illusione e favoriscano un autentico ritorno al reale. Per me, tali riflessioni costituiscono un pressante invito a rileggere le opere di tre maestri del pensiero storico-politico dell’Occidente cristiano nel secolo XX, maestri in tema di realismo, di aristocrazia e di ordine civile nordamericano: lo svizzero Gonzague de Reynold (31), lo statunitense Russell Kirk (32) e il brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (33). Si tratta di tre autori cattolici che non cito “tanto per far nomi”, ma sia con riferimento specifico e sostanziale alle tematiche evocate dallo storico francese, sia perché, secondo il colombiano pure cattolico Nicolás Gómez Dávila, “i testi reazionari sembrano obsoleti ai contemporanei e di un’attualità sorprendente alla posterità” (34), e il nostro, rispetto a loro, è già il mondo dei posteri. E, alla luce delle riflessioni di Furet e della lezione di questi autori, cresce in me l’apprezzamento per l’ascolto del e per l’attenzione al Magistero della Chiesa cattolica, madre e maestra di verità non solo soprannaturale ma anche naturale, in quanto custode di quel decalogo che compendia il diritto naturale, Magistero che incita, con Papa san Pio X, i costruttori e i difensori della città degli uomini a lottare, fra l’altro e anzitutto, “contro gli attacchi sempre rinascenti della malsana utopia” (35).
Giovanni Cantoni
* Articolo ampiamente anticipato, senza note e con il titolo redazionale Il pericolo della società instabile ed uniforme, in Secolo d’Italia. Quotidiano di Alleanza Nazionale, anno XLVI, n. 213, 11-9-1997, pp. 1 e 15.
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(20) Cfr. François Furet, Critica della Rivoluzione francese, trad. it., Laterza, Bari-Roma 1995.
(21) Cfr. Idem, Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX secolo, trad. it., Mondadori, Milano 1995.
(22) Cfr. Idem, “Società borghese, quanto sei fragile!”, intervista a cura di Fabrizio Intonti, in Reset. Un mese di idee, n. 40, settembre 1997, pp. 55-63. Tutte le citazioni senza rimando sono tratte da questo testo.
(23) Cfr. Mihail Geller e Aleksandr Nekric’, Storia dell’URSS dal 1917 a oggi. L’utopia al potere, trad. it., Rizzoli, Milano 1984.
(24) Cfr. Alain Touraine, Eguaglianza e diversità. I nuovi compiti della democrazia, trad. it., Laterza, Roma-Bari 1997.
(25) Cfr. Gaio Plinio Secondo detto il Vecchio, Naturalis historia, VII, 1, trad. it. Storia naturale, ed. diretta da Gian Biagio Conte con la collaborazione di Alessandro Barchiesi e Giuliano Ranucci, vol. II, libri 7-11, Antropologia e zoologia, trad. e note di Alberto Borghini, Elena Giannarelli, Arnaldo Marcone e Giuliano Ranucci, Einaudi, Torino 1983, pp. 8-11. Del fatto esposto nel testo “classico” — trascritto con il titolo redazionale La condizione umana in Cristianità, anno XXV, n. 261-262, gennaio-febbraio 1997, p. 10 — cfr. il “commento” “classicista” in Charles Maurras, Le mie idee politiche, trad. it., Volpe, Roma 1969, pp. 5-11, e quello “romantico” in Arnold Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, con un’introduzione di Karl-Siegbert Rehberg, trad. it., Feltrinelli, Milano 1990, pp. 58-67.
(26) Cfr. Georg Simmel, Sociologia, con un’introduzione di Alessandro Cavalli, cap. VI, L’intersezione di cerchie sociali, trad. it., Comunità, Milano 1989, pp. 347-391.
(27) Cfr. Ernst Hartwig Kantorowicz, I due corpi del Re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, trad. it., Einaudi, Torino 1989.
(28) Cfr. Marcel de Corte, Fenomenologia dell’autodistruttore, trad. it., Borla, Torino 1967, pp. 99-100 e 122-123.
(29) Cfr. Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, n. 11; e Idem, Decreto sull’apostolato dei laici Apostolicam actuositatem, n. 11.
(30) Giovanni Paolo II, Lettera alle famiglie “Gratissimam sane”, del 2-2-1994, n. 17.
(31) Cfr., limitando i riferimenti ai pochi brani di qualche consistenza tradotti in italiano, Gonzague de Reynold, Che cosa è la storia, in Cristianità, anno XI, n. 93, gennaio 1983, pp. 13-14; Idem, A che cosa serve la storia, ibid., n. 95, p. 3; Idem, La filosofia della storia, ibid., anno, XVI, n. 153-154, gennaio-febbraio 1988, pp. 11-12; e Idem, Il federalismo e la sua filosofia, ibid., anno XXIV, n. 256-257, agosto-settembre 1996, pp. 7-16.
(32) Cfr. Russell Kirk, Stati Uniti e Francia: due rivoluzioni a confronto, a cura di Marco Respinti, Centro Grafico Stampa, Bergamo 1995; e Idem, Le radici dell’ordine americano. La tradizione europea nei valori del Nuovo Mondo, trad. it., a cura di M. Respinti, con un epilogo di Frank Shakespeare, Mondadori, Milano 1996.
(33) Cfr. soprattutto Plinio Corrêa de Oliveira, Nobiltà ed élites tradizionali analoghe nelle allocuzioni di Pio XII al Patriziato ed alla Nobiltà romana, trad. it., Marzorati, Settimo Milanese (Milano) s.d. (ma 1993).
(34) Nicolás Gómez Dávila, Sucesivos escolios a un texto implícito, Cara y Cuervo, Santafé de Bogotá 1992, p. 23.
(35) San Pio X, La concezione secolarizzata della democrazia. Lettera agli Arcivescovi e ai Vescovi francesi “Notre charge apostolique”, del 25-8-1910, n. 11, trad. it., Cristianità, Piacenza 1993, p. 12.