Da Tempi del 17/05/2018. Foto da articolo
Non cambierà nulla fino a quando il Sud non diventerà priorità nazionale, come lo è stato l’Est della Germania, in ginocchio dopo oltre quarant’anni di comunismo
Due emergenze interessano oggi l’Italia. Una è di ordine istituzionale, e riguarda – in linea con quanto avviene in giro per l’Europa – la perdita di spazi di rappresentatività popolare a vantaggio di istituzioni comunitarie non elette, e di corti giudiziarie. L’altra è di ordine sociale, e riguarda il nostro Sud. È un caso se il 4 marzo M5s, che pure ha incrementato i consensi in tutto il territorio nazionale – con la sola eccezione di Piemonte, Liguria e Friuli – ha realizzato l’exploit al Sud, con le punte incredibili del 49,4 per cento in Campania e del 48,8 in Sicilia?
I sentimenti di frustrazione, accentuati al Sud, sono la principale ragione del successo del “sindacato” di rancorosi incarnato dal M5s. Come è stato osservato, «dieci anni di crisi non passano senza conseguenze. (…) Le persone non si lament(a)no quando sanno di essere tutte insieme in mezzo ai guai – vedono da sole la necessità di tirare la cinghia – ma appena vedono che l’economia riparte, presentano il conto e avvertono i governanti: abbiamo tirato la cinghia per anni, voi adesso ci dite che la crisi è finita, che va tutto bene, ma noi non vediamo i benefici di cui voi parlate, anzi ci saremmo attesi qualcosa di più che non arriva, mentre, al contrario, siamo arrabbiati perché qualcuno ne sta approfittando” (P. Feltrin e S. Menoncello, 2018: l’annunciata riscoperta del voto di classe, “in direzione ostinata e contraria”, in corso di pubblicazione).
A Sud non tutto è eguale, e le condizioni di vita non sono omogenee. Ma, nella diversità fra realtà regionali e sub-regionali, alcuni dati accomunano: la quasi totale scomparsa di insediamenti industriali significativi; la demagogica e aprioristica opposizione a infrastrutture energetiche (vale per tutti il caso della Tap, mentre nessuno parla dei danni dell’eolico o delle sopravviventi centrali a carbone); una rete di trasporti che alterna tratte accettabili ad altre primitive; l’attrattività turistica dipendente dalle bellezze naturali e artistiche molto più che da una accoglienza diffusa e professionale; la ripresa dell’emigrazione, soprattutto giovanile e di qualità; un calo demografico accentuato, non compensato, nemmeno nel breve periodo, da una immigrazione stabilizzata. Le due voci da ultimo menzionate danno l’idea di un deficit di speranza, che non fa restare chi ha titoli e risorse per far crescere il territorio, né fa immaginare una proiezione di sé stessi e di una propria eventuale famiglia per il futuro: ciò che per secoli per il Sud è stata una delle risorse più importanti.
Ma chi ne parla? Chi la individua come una delle priorità sulle quali misurare la sfida della nuova legislatura e del governo che la esprime? Chi elabora per il Sud un progetto non meramente rivendicazionistico e ripetitivo di slogan? Chi va oltre il miraggio del reddito di cittadinanza? Le indicazioni di voti non sono stabili: i consensi espressi dal Sud e dalle isole al M5S (tanti) e alla Lega (novità rispetto al passato) manifestano il rifiuto per chi lì ha governato negli ultimi anni, dal Pd a Forza Italia. Manifestano pure rigetto e rottura verso un patto “scellerato”, stretto in prevalenza nelle aree interne, fra classi dirigenti logore e compromesse e una società indebolita e in cerca di protezione. Riflettono una domanda di protagonismo e di libertà dall’oppressione della vecchia politica e delle sue logiche.
«Poveri anche di clientele»
Lo scrive lo storico Paolo Macry (Il Mattino, 6 marzo 2018), quando parla di un Sud stanco di «amministratori locali, sindaci, governatori, che hanno svuotato la rappresentanza di qualsiasi radicamento e di qualunque legittimazione. Un pugno di notabili, ormai poveri anche di clientele, che agli elettori hanno proposto candidati improbabili, nomi usurati dal tempo, amici degli amici, figli d’arte, compaesani, clienti di ogni provenienza». Ma tutto ciò resterà protesta, e quindi inevitabile delusione, se non sarà seguito da una riflessione su come uscirne.
Non è faccenda per i soli meridionali, pur se a costoro spetta darsi una mossa prima di altri. Non cambierà nulla fino a quando il Sud non diventerà priorità nazionale, come lo è stato l’Est della Germania, impoverito e disperato dopo oltre quarant’anni di comunismo, al momento della riunificazione, nel 1989. È questione di volontà e di visione politica prima che di risorse.
Alfredo Mantovano