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Ma per Renzi viene prima l’Italicum o la riforma Boschi? Il dubbio è lecito

27 Ottobre 2016 - Autore: Alfredo Mantovano

Da Tempi on-line del 25 ottobre 2016 – Foto Ansa

Il presidente del Consiglio ha ragione quando invita a guardare alla riforma costituzionale facendo attenzione ai contenuti e non agli slogan, alle polemiche, alle ricadute del referendum sulle sorti del governo. Peccato che abbia impostato la campagna elettorale più lunga della storia (da aprile a dicembre, otto mesi) in modo diametralmente opposto: all’inizio trasformando il voto in un plebiscito pro o contro se stesso, poi chiudendo ogni spiraglio a modifiche del sistema elettorale. In tal modo ha confermato che la vera posta in gioco è il link esistente fra la riscrittura dei 47 articoli della Costituzione e l’Italicum. Da una parte c’è il cambiamento di oltre un terzo delle disposizioni costituzionali, e con esse dell’ordinamento parlamentare, mentre il sistema elettorale può essere sostituito in ogni momento con legge ordinaria: ma l’impressione che il respiro lungo della legge fondamentale conti meno delle regole per stabilire chi guida la nazione c’è tutta, e non è smentita dai fatti.

Se la gerarchia delle fonti fosse rispettata, non sarebbe caduto nel nulla l’auspicio formulato dall’ex capo dello Stato Napolitano, di cambiare l’Italicum e in tal modo sminare una parte del terreno di confronto referendario. Dopo quell’intervento, il premier ha dapprima manifestato una disponibilità di genere, poi si è rimesso all’iniziativa dei gruppi parlamentari (in modo non del tutto coerente con l’approvazione dell’Italicum avvenuta con l’imposizione della fiducia), infine ha rinviato ogni decisione all’esito del voto del 4 dicembre. In tal modo mostra di tenere più al nuovo sistema elettorale che al nuovo sistema costituzionale: altrimenti non porrebbe a rischio il varo di quest’ultimo, a causa della fascia consistente di persone che voteranno No pur di non far passare l’Italicum; la priorità è quest’ultimo!

Una legittimazione ex post
Nell’immediato la riforma costituzionale sembra avere una duplice funzione: da un lato quella di cornice rafforzata al nuovo meccanismo elettorale, invertendo in qualche modo l’ordine di importanza dei fattori; punta, cioè, a far sì che la minoranza più forte che grazie all’Italicum consegue il 55 per cento dei seggi alla Camera, possa grazie alla nuova Costituzione governare senza rendere conto all’altro ramo del Parlamento, abbia minori vincoli da parte delle Regioni, e usi meccanismi in apparenza più efficaci per far prevalere la propria volontà.

Dall’altro lato punta col referendum a ottenere quella legittimazione popolare che è mancata all’avvio dell’esperienza di questo governo, e che gli è venuta solo indirettamente dalle elezioni europee del 2014. Per questo, molto più che per i toni enfatici, talora apocalittici, usati da alcuni settori del variegato fronte del No, il referendum ha assunto il peso dell’evento politico più saliente nella legislatura in corso.

Sufficit? No: corollario di questa interminabile partita elettorale è l’accento posto sul Sì come manifestazione di voto responsabile, distante dai cosiddetti populismi, bene accetto alla comunità internazionale, all’Europa e agli investitori. E qui i conti rischiano veramente di non quadrare. I sostenitori del Sì usano questo tasto in modo francamente esagerato: prima o poi il boomerang riprenderà la strada del ritorno.
Se ripeti con insistenza che ogni voto non gradito all’establishment è per ciò stesso “populista”; se demonizzi, l’uno dietro l’altro, referendum che hanno logiche e contesti profondamente diversi, dalla Brexit al Canton Ticino, dalla Colombia all’Ungheria, quali presunti esempi della irrazionalità popolare di fronte a temi delicatissimi; se pretendi di insegnare che le scelte della politica non possono dipendere da un voto espresso sull’onda delle emozioni; se mandi il messaggio che è meglio limitare il più possibile il voto stesso, soprattutto quando passa per un referendum, la conclusione che ne trae chi ti ascolta è che alla fine conviene che decidano solo le élite. Il primo effetto è che chi tiene al proprio voto non si farà sfuggire l’occasione del 4 dicembre per dirti nella maniera più chiara possibile che non è d’accordo.

Alfredo Mantovano

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