di David Botti
Magín Ferrer y Pons, O. de M. (1792-1853)
1. La formazione
Magín Ferrer y Pons nasce il 18 ottobre 1792 a Barcellona e fin dal 1807 veste l’abito dei mercedari, l’ordine religioso dedicato a Santa Maria della Mercede, fondato nel 1218 dal francese san Pietro Nolasco (1180 ca.-1219 ca.) per la liberazione dei cristiani schiavi dei musulmani. Seminarista, frequenta in modo irregolare gli studi a causa della guerra contro l’Impero francese (1808-1814), al termine della quale, grazie al naturale talento per gli studi e alla vivace intelligenza, può insegnare Teologia con il grado di «presentado de cátedra», cioè assistente. Negli anni 1820 è nominato rettore del collegio mercedario di Tarragona; nel corso della sua carriera sarà esaminatore sinodale del Consiglio Reale degli Ordini Religiosi e di vari vescovadi, nonché amministratore delle diocesi di Solsona e di Burgos.
Padre Magín compie fin dalla giovinezza le scelte culturali e politiche cui resterà fedele fino alla morte. Infatti, fra le sue prime pubblicazioni va registrata La morte del giusto condanna la vita dell’indolente, una orazione funebre del 1824 tenuta in occasione delle esequie di alcuni ecclesiastici fedeli alla monarchia spagnola e perciò perseguitati dai francesi durante l’occupazione.
Tuttavia, per assistere alla sua prima presa di posizione politica pubblica occorre attendere il 1827, quando al religioso mercedario viene affidata la direzione del periodico El Diario de Tarragona, di cui fa installare la tipografia nel proprio convento e nella quale egli stesso lavora. La vittoria di re Fernando VII di Borbone (1784-1833) sui francesi aveva portato alla restaurazione di un rigido assolutismo, caratterizzato da un altrettanto rigido e malevolo giurisdizionalismo e da una politica di favore verso gli «afrancesados», cioè i simpatizzanti della Rivoluzione francese del 1789. Nel 1827, all’inevitabile reazione del mondo ispanico tradizionale — detta degli «apostolicos» perchè caratterizzati dalla fedeltà alla Cattedra Apostolica —, il re risponde marciando, il 23 settembre di quell’anno, sulla principale delle regioni ribelli, appunto la Catalogna. È la Seconda Guerra Civile spagnola (1827) e padre Magín, dalle colonne del suo giornale, dà consapevolezza e consistenza dottrinale agli slogan degl’insorti, quali «Religione, Re e Inquisizione», contro «massoni, carbonari e comunardi». L’insurrezione è presto soffocata, ma lascia una impronta profonda, che si manifesterà sei anni dopo con la sollevazione militare politica tradizionalista sfociata nella Prima Guerra Carlista (1833-1839).
2. L’adesione alla causa carlista
Padre Ferrer non partecipa attivamente alla guerra, ma nel 1839 pubblica La cuestión dinastica, in cui prende decisa posizione a favore del pretendente al trono don Carlos María Isidro di Borbone (1788-1855), noto anche come Carlos V, da cui prende il nome il movimento politico-culturale noto come «carlismo». Nell’opera egli definisce la Pragmática Sanción — con cui Fernando VII aveva abolito, nel 1830, la secolare legge salica, che consentiva soltanto ai maschi di salire sul trono — null’altro che «un foglio insignificante e ridicolo». Lo scritto sarà ristampato trent’anni dopo e costituirà una delle principali fonti dottrinali di tutte le successive rivendicazioni legittimistiche, influenzando le prese di posizione degli stessi pretendenti al trono e il pensiero politico del carlismo, al punto che uno dei suoi massimi esponenti, Antonio Aparisi y Guijarro (1815-1872), pubblicherà un libro con lo stesso titolo.
Dopo la sconfitta carlista e i massacri di religiosi compiuti nel 1835 dal governo liberale, padre Ferrer diviene il simbolo dell’intransigenza nelle rivendicazioni dei cattolici e dei tradizionalisti pubblicando, nel 1841, un pamphlet contro il governo in difesa di Papa Gregorio XVI (1831-1846), che gli vale il titolo di maestro in Teologia, mentre contemporaneamente traduce dal francese e pubblica anche un’opera del protonotario apostolico monsignor M. Menghi-d’Arville, Anuario de María o el verdadero siervo de María santísima, in onore della Madre di Dio, cui fu sempre devotissimo.
Nel 1843 dà alle stampe il Compendio de la historia del derecho de la Iglesia en España en orden a su libertad e independencia del poder temporal in cui — senza tralasciare il sostegno a don Carlos, che egli continuerà a considerare come l’unico modo per il ritorno alla piena libertà religiosa —, critica i princìpi liberali che regolano i rapporti fra Chiesa e Stato.
3. Le leggi fondamentali della monarchia spagnola
Nel 1843 vede la luce l’opera principale del pensatore catalano, Las leyes fundamentales de la monarquía española, un trattato di storia e di filosofia del diritto, che occupa un ruolo chiave nella formazione della dottrina politica carlista. In esso, padre Ferrer segnala che le leggi «[…] inizialmente non sono opera del legislatore, perché provengono dai costumi, dalle consuetudini e dagli usi dei popoli; di modo che quando è necessario scriverle come leggi fondamentali, è perché sono già previamente scritte nel cuore degli abitanti del Paese». Tali leggi possono essere ridotte a cinque princìpi molto generali ma inalterabili, il primo dei quali riguarda la necessità della monarchia «assoluta»: «Il Re riunisce in sé, e deve essenzialmente riunire, i tre poteri, legislativo, esecutivo e giudiziario, la cosa si spiega più brevemente dicendo che il Re detiene in modo esclusivo tutto il potere per governare il regno». L’aggettivo «assoluta» non è, tuttavia, da intendersi nel senso dell’assolutismo o del regalismo, cioè di un potere dispotico o arbitrario, ma viene utilizzato dal dotto mercedario in contrapposizione alle monarchie costituzionali dell’epoca, come si evince dalla successiva quarta legge. La seconda legge fondamentale della monarchia concerne l’ereditarietà, personificata in una famiglia concreta e regolata da una specifica legge di successione: «La successione nel regno è radicata nella famiglia reale ed è ereditaria: essendo peculiare dell’autorità sovrana del monarca lo stabilire, d’accordo con i maggiorenti del paese, le regole che si dovranno tener presenti in ordine alla scelta di alcuni rispetto ad altri, tra quelli che hanno diritto alla successione». Basandosi sulla considerazione secondo cui l’unità religiosa della Spagna è «[…] l’unica legge che può dirsi fondamentale in tutta l’estensione del termine […] l’unica a non aver sofferto alcuna alterazione», espone la legge relativa al cattolicesimo: «Gli spagnoli uniti sotto una sola testa, che è il re, lo sono pure con i vincoli dell’unica vera religione, che è quella cattolica, apostolica e romana: di modo che così come è considerato estraneo alla società colui che non vuole essere soggetto al suo re, neppure è considerato quale spagnolo quegli che non vuole professare la religione professata esclusivamente nella società spagnola». Al quarto posto è un sistema di governo basato sulla legge naturale e nel rispetto della libertà dei cittadini: «Benché il potere sovrano e assoluto risieda essenzialmente nel re, questi deve esercitarlo nella regola del rispetto della legge naturale, delle regole della giustizia e sana prudenza, rispettando e difendendo la proprietà, la sicurezza e la libertà dei suoi vassalli, e non operando contro i legittimi usi e costumi del paese, che formano in un qualche modo il carattere peculiare della società spagnola, e costituiscono le sue leggi fondamentali consuetudinarie». La quinta e ultima delle leggi fondamentali del regno prevede la consultazione del popolo da parte del re attraverso due istituzioni principali, un consiglio reale e le Cortes, che — essendo consultive — non incorrono nei rischi del parlamento che il mercedario ha sotto gli occhi: «L’aula delle Cortes è la scuola nella quale tutti possono imparare l’insubordinazione, perché vi si sente parlare perfino in modo indecente e svergognato contro il governo; infatti i deputati non si limitano a esaminare i grandi problemi da cui dipende la salvezza dello Stato ma scendono ai particolari più minuti e irrilevanti, chiedendo al governo il perché della nomina a usciere di un ufficio di chi non ha merito per esserlo. Questo funesto spirito di ribellione legale passa con l’esempio dei deputati ai giornalisti, che si dicono direttori dell’opinione pubblica».
4. La difesa della libertà della Chiesa
Nel 1844 vede la luce la Impugnaciòn crítica, sulle relazioni fra Chiesa e Stato in Spagna, scritta in polemica con il vescovo delle Canarie, mons. Judas José Romo (1779-1855), uno dei pochi che erano riusciti a conservare le proprie funzioni nella loro diocesi durante la reggenza di Maria Cristina di Borbone (1806-1878). Costui, nella sua prima opera, pubblicata nel 1842, argomentava che la malconcia Chiesa spagnola doveva accettare la propria situazione e adattarvisi. Un passaggio divenuto famoso di tale scritto è il seguente: «La ragione dice che, prescindendo dai diritti travolti per sempre e, per così dire, sommersi in fondo al mare, ci si deve accontentare di salvare quelli che, galleggiando a riva, sono ancora suscettibili di essere ricuperati». La risposta di Ferrer è tipica della posizione carlista: «[…] i diritti della Chiesa non sprofondano mai in fondo al mare, e giammai decadono finché non decade la Chiesa stessa, che non verrà meno fino alla consumazione dei secoli. La forza bruta può impedire l’esercizio dei diritti; può mancare la persona o la corporazione ecclesiastica che eserciti tali diritti in qualità di amministratore o depositario; ma i diritti, essendo spirituali o in relazione con lo spirituale, sono una proprietà della Chiesa che nessuna forza esterna può gettare in fondo al mare e che si potranno dire perduti solo se la Chiesa voglia volontariamente perderli, vale a dire voglia rinunciare ad essi». Il successo dell’opera è tale che, nel 1845, padre Magín pubblica un secondo volume, di taglio prettamente dottrinale, la Historia del derecho de la Iglesia en España. Al di là della polemica contingente, il pensatore tradizionalista cerca una nuova forma di collaborazione fra Trono e Altare, fondata sempre sul principio per cui «[…] né la Chiesa può prescindere dalla felicità temporale dello Stato, né lo Stato deve prescindere dalla felicità eterna, né porre ostacoli al suo conseguimento», perché «[…] i mali che ne deriverebbero alla Chiesa e allo Stato sarebbero incalcolabili, se la prima non appoggiasse con la sua salutare influenza le leggi del secondo […] e se lo Stato non appoggiasse con la forza della sua autorità le decisioni della Chiesa». Tuttavia, al contrario di molti suoi colleghi, non rimpiange il secolo XVII, il Siglo de Oro, ma giunge a formulare un regime di collaborazione che conserva grande attualità: «[…] lo Stato non può penetrare nella Chiesa per controllare i provvedimenti che questa prende, se non quando esulano dalla sfera spirituale; e neppure la Chiesa può penetrare nello Stato per proporgli leggi e misure che questo giudichi conveniente emanare per la prosperità temporale del Paese».
Anche le opere successive riguardano il tema della libertà religiosa dei cattolici: sempre del 1845 è la traduzione dal francese di un’opera di Pierre-Louis Parisis (1795-1866), vescovo di Langres, Exámen sobre si la Iglesia ha usurpado al Estado, ó si el Estado ha usurpado á la Iglesia, mentre nel 1847 vede la luce la Carta en defensa del derecho de la libertad del Clero, scritta in difesa della libertà di scelta delle proprie letture da parte del clero.
Il momentaneo attenuarsi della persecuzione liberale, l’abdicazione di don Carlos a favore del figlio, Carlos Luis di Borbone (1818-1861) che prenderà il nome di Carlos VI, e l’attesa per il matrimonio di quest’ultimo con la regina Isabel II (1830-1904), che avrebbe riconciliato la Spagna, probabilmente inducono il religioso ad attenuare l’impegno politico. Così, padre Ferrer trascorre gli ultimi anni di vita in qualità di segretario dell’arcivescovo di Burgos, mons. Cirillo Alameda y Brea (1781-1872), e di direttore della Libreria religiosa di Barcellona. La morte, avvenuta a Madrid il 16 aprile 1853, lo raggiunge al completamento di una nuova traduzione de L’imitazione di Cristo, uno dei classici cristiani di ogni tempo, attribuito al sacerdote renano Tommaso da Kempis (1380 ca.-1471).
David Botti
27 ottobre 2018
Per approfondire: vedi Francisco Elías de Tejada y Spinola (1917-1978) (a cura di), Il Carlismo, trad. it. Edizioni Thule, Palermo 1972; Roberto Gavirati, Il carlismo, in IDIS. Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale, Voci per un “Dizionario del Pensiero Forte”, a cura di Giovanni Cantoni, con presentazione di Gennaro Malgieri, Cristianità, Piacenza 1997, pp. 89-94; ma, soprattutto, vedi Alexandra Wilhelmsen, La formación del pensamiento político del Carlismo (1810-1875), Actas, Madrid 1995.