Daniele Fazio, Cristianità n. 423 (2023)
Il testo di Invernizzi e Sanguinetti è diviso in otto parti, più una Prefazione (pp. I-IV) del politologo Giovanni Orsina, della Libera Università Internazionale degli Studi Sociali (LUISS) «Guido Carli» di Roma, e un Indice dei nomi di persona (pp. 281-295).
Orsina fa notare che il frangente storico in Italia e in Europa è probabilmente propizio per discutere di conservatorismo in quanto nell’arco dell’ultimo decennio si sono verificate numerose reazioni, per quanto prive di una certa riflessività e di vario segno politico, in qualche modo contraddistinte dalla loro contrapposizione a una bisecolare «“antropologia della tabula rasa” che ha la pretesa di sradicare l’uomo, di isolarlo dalle tradizioni e peculiarità culturali del contesto storico e geografico nel quale è cresciuto, così che possa auto-costruirsi in astratto come cittadino del mondo» (p. I). Rilanciare il conservatorismo, dunque, significa non solo riproporre l’antropologia naturale, ma anche riprendere le ragioni del mondo precedente alla Rivoluzione francese e alla modernità, individuando i princìpi e sapendo discernere fra «princìpi non negoziabili» e ciò che dei secoli post-rivoluzionari non va conservato.
Nell’Introduzione (pp. 7-31) l’affermazione fondamentale è che per quanto la dottrina del conservatorismo sia suscitata e provocata dagli eventi della Rivoluzione francese, vera cesura epocale all’interno del mondo occidentale, essa non è e non può mai essere un’ideologia. Mentre tutte le ideologie, infatti, sono rintracciabili in nuce nelle viscere delle varie fasi rivoluzionarie, il conservatorismo s’identifica con la resistenza a tale processo e a quanto esso ha prodotto e produce nella storia. Esso non può che opporsi a ogni tentativo, in ultima analisi neo-gnostico, di ri-creare la realtà naturale e di negare quella soprannaturale.
La dottrina conservatrice ha avuto tempi e momenti di sedimentazione diversi nei vari contesti europei. Laddove essa si è sviluppata, nella costellazione delle produzioni filosofiche, culturali e letterarie che costituiscono riferimento alla resistenza alla modernità, gli autori individuano in essa tre motivi comuni. Innanzitutto, il conservatore non condivide i princìpi dell’Ottantanove che ispirano il mondo scaturito dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione francese. Quindi, fa riferimento ai valori attorno a cui il mondo precedente si è costruito, ossia quelli che hanno dato vita alla cristianità romano-germanica. Infine, considera l’uomo nella sua realtà e nei suoi bisogni spirituali e materiali, riconoscendone altresì i caratteri di imperfezione segnati dal peccato originale.
Ne consegue che «[…] nel Dna del conservatore non c’è il fissismo, né la Rivoluzione, ma uno strutturale riformismo per migliorare l’eredità ricevuta, correggere le distorsioni che la storia crea e per scongiurare le rivoluzioni.
«Essere conservatori implica necessariamente opporsi a ciò che domina il presente, ma va sottolineato che anche questa opposizione ha, come la Rivoluzione che è un processo, una prassi e una metodica.
«Rivendicare un proprium ormai lontano nel tempo non equivale, infatti, a coltivare una sterile nostalgia, né a pascersi di utopie di segno contrario a quelle che animano la Rivoluzione. Il conservatore autentico è conscio che ripristinare in forme aggiornate quel plesso di valori che propugna probabilmente comporterà che la società attui riforme volte a sanare le patologie che il processo rivoluzionario ha indotto nel corpo sociale e a ricostruirne il tessuto deteriorato e disgregato» (p. 20). Gli autori non hanno dubbi che in prospettiva lo sforzo del conservatore non può che essere quello di lavorare per l’edificazione — le parole sono mutuate da Papa san Giovanni Paolo II (1978-2005) — di «una società a misura d’uomo e secondo il piano di Dio» (p. 23).
Non si tratta, dunque, di tornare a forme storiche del passato o a rispolverare legittimismi dinastici, bensì a puntare l’attenzione sui princìpi eterni e universali che, già incarnati nella società pre-rivoluzionaria — senza mitizzarli, ricordando di trovarci sempre in una «valle di lacrime» —, hanno prodotto una società equilibrata e tendenzialmente naturale, anche nei suoi aspetti istituzionali. Diversamente, la società dominata dalla Rivoluzione ha pervertito e continua a pervertire i retti rapporti sociali, mancando alla promessa — tante volte enunciata — di voler costruire un mondo felice. Dunque, «il conservatorismo autentico, in essenza, è sì a favore del mantenimento di ciò che di buono esiste, ma il suo scopo è piuttosto “aggiungere valore” da trasmettere alle generazioni future, nonché operare per riedificare un mondo “diverso”, il quale ha la sua impellente ragione d’essere, la sua verità, la sua moralità, la sua bellezza» (p. 26).
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Uno snodo per capire i nuclei tematici del conservatorismo è la Rivoluzione francese. Il secondo capitolo, Il conservatorismo: un profilo ideale e storico (pp. 32-124), si apre proprio con una descrizione sintetica ma densa di tale evento di rottura della continuità ideale della storia europea. La Rivoluzione del 1789 — che non riguarda semplicemente la Francia ma si estende alla maggior parte delle nazioni europee, soprattutto quanto a lascito culturale e giuridico, assorbito sostanzialmente anche dai successivi regimi restaurati dopo la sconfitta di Napoleone Bonaparte (1769-1821) — è stata preparata dalla filosofia rinascimentale, dai cambiamenti della prima Età Moderna e dall’Illuminismo in campo culturale e, in campo filosofico e politico, dall’esperienza dell’assolutismo illuminato. Essa può essere letta «[…] come un attacco radicale alla tradizione sia come contenuti sia come metodo; come abolizione, almeno tentata, della famiglia non tanto come tale — anche se le famiglie aristocratiche e la dinastia saranno falcidiate —, ma piuttosto come modello della regalità e, in genere, dell’autorità politica e sociale. Sarà altresì espressione massima del rifiuto radicale del principio di ereditarietà delle funzioni sociali, dalla monarchia alla titolarità dei mandati. E non sarà l’ultimo e nemmeno il più radicale rigetto del passato, perché dal suo grembo ugualitario e libertario germineranno la Rivoluzione comunista e la dissoluzione delle gerarchie in interiore hominis di cui il 1968 è l’anno-simbolo» (p. 55).
Essere conservatori significa innanzitutto resistere di principio ai nuclei teorici pienamente moderni proclamati dalla Rivoluzione e, pertanto, ogni tentativo di «restaurazione» non può che essere integralmente alternativo ai princìpi rivoluzionari: esso risulterà a lungo andare sterile se restaurerà solo alcuni aspetti del mondo precedente, come per esempio —così è accaduto nell’Europa post-napoleonica — il legittimismo dinastico. Da un punto di vista dottrinale a reagire contro le idee rivoluzionarie saranno in primis Edmund Burke (1729-1797) e Joseph de Maistre (1753-1821), che con i loro scritti disegneranno appunto il primo profilo dell’ottica conservatrice. Tre princìpi alternativi animano la reazione al fenomeno rivoluzionario: l’idea che l’ordine civile debba essere fondato metafisicamente, la considerazione anti-razionalistica che l’uomo non è perfetto e, infine, il rinnovato riferimento, anche in funzione sociale, alla Chiesa cattolica, soprattutto, da questo momento in poi, al magistero del Papa, in contrasto con il chiaro carattere anti-religioso e nazionalistico della Rivoluzione. Dalla Francia, la prima interessata dallo scoppio rivoluzionario, le resistenze «dottrinali» si diffonderanno anche negli altri Paesi, cui Invernizzi e Sanguinetti dedicano alcuni paragrafi sintetici, esplorando fenomeni di conservatorismo nel Nord-America, in Spagna, nel Regno Unito, nella Confederazione Elvetica, nel mondo germanico e in Austria.
Da questa mappatura storiografica in prospettiva diacronica si giunge fino alla storia dei nostri giorni, mostrando come al primo nucleo del conservatorismo a mano a mano vengono aggiunti ulteriori aspetti teorici. Pur non essendo una filosofia, la visione conservatrice è sostenuta da una filosofia anti-razionalistica, aderente al realismo filosofico e alla nozione di legge naturale, nonché a un forte riferimento al senso comune. Ne risulta che «il conservatore si ispira dunque a princìpi e a valori perenni, quelli che hanno creato e retto la civiltà europea e occidentale per secoli. E li vive in un tempo dove gli è imposto di coabitare, in una condizione minoritaria, con una serie di idee e di processi che allontanano sempre più i popoli dai princìpi originari che egli desidera reincarnare, fenomeni che egemonizzano lo spazio pubblico e, dalla fine del XX secolo, hanno ormai invaso, devastandola, anche la sfera individuale e familiare» (p. 90).
In concreto, il conservatore sostiene la tradizione, ma allo stesso tempo non si esime da una saggia riforma nella continuità ed è legittimista, nel senso della proposta di un ordine sociale e politico che rispetti un ordine superiore, che per il credente è ispirato al Decalogo. Egli guarda alla società come a un corpo in cui i vari organi possano avere il loro giusto posto e possano servire agli altri senza che siano sostituiti o negati dalla struttura dello Stato burocratico, che di suo è risultato fra i più importanti «successi» della modernità. Ancora, il conservatore considera la storia quale importante fonte per l’ordine politico e soprattutto quale luogo d’incontro fra la libertà umana e la provvidenza divina; il pluralismo sociale e territoriale è un valore e la libertà non è ideologica ma viene declinata come «le libertà», ossia nella sua concretezza, mentre rifiuta ogni teoria di «contratto sociale», perché essa proietta la natura umana in una dimensione ideologico-astratta da cui consegue una ricetta politica erronea. Il conservatorismo è essenzialmente religioso ma critico del fideismo, del clericalismo e di ogni tendenza teocratica.
Riassumendo: «Conservatore, secondo chi scrive, è chi vuole il progresso dei singoli e della società nella continuità; chi vuole mantenere e trasmettere a chi viene dopo non solo quello che di buono vi esiste, ma anche e soprattutto quello che vi è in esso di perenne, di originario, di conforme alla legge di Dio, a una retta antropologia e al senso comune e all’esperienza, arricchito da quanto le generazioni precedenti hanno “capitalizzato” in termini di progresso e la generazione presente può aggiungervi in termini di valore.
«In uno slogan: chi è conservatore vuole “un mondo a misura d’uomo e secondo il piano di Dio”. E, per diametrum, chi si oppone all’utopismo rivoluzionario che gnosticamente pretende di rifare il mondo da zero e di riplasmare la natura dell’uomo, staccandolo dal suo Creatore e privandolo dei riferimenti temporali e soprannaturali che ne rendono vivibile l’esistenza» (pp. 106-107).
Stante questa visione, nella storia del conservatorismo gli autori ravvisano delle «tentazioni» che ne hanno scalfito lo smalto originario e hanno in qualche modo inficiato la prospettiva autentica. Esse sono il nazionalismo, l’autoritarismo, il totalitarismo, la dittatura, i conservatorismi liberale e socialista e il populismo incarnato, per esempio, dal fascismo e dal caudillismo sudamericano. Se punti di contatto possono emergere con i vari movimenti autonomistici italiani, essi — sostengono gli autori — non sempre ne hanno colto le conseguenze politiche. In relazione al cattolicesimo, invece, la nitida formulazione, nel tempo, della dottrina sociale della Chiesa permette di affermare che tali princìpi sono in buona parte riconducibili a una prospettiva vitale e dinamica. Basti pensare alla nozione di persona, al primato della società sullo Stato, al principio di sussidiarietà, alla visione metafisica della vita e al rifiuto del nazionalismo egoistico e del totalitarismo.
L’evoluzione del movimento conservatore conosce, quindi, «una fase originaria tradizionalista e legittimistica — di fatto o di principio —, che va dalla Rivoluzione al 1848 circa; una fase intermedia — che va dal 1848 all’incirca alla fine del secolo XIX — di confronto e contrappeso rispetto alla modernità liberale, e, infine, una fase — che si estende fra la Prima guerra mondiale e la Guerra Fredda — di contrapposizione al socialismo e al comunismo» (p. 119). Altresì, «oggi il terreno su cui si misurano forze conservatrici e progressismo è cambiato, la linea del fronte si è spostata e si è scolorita. Oggi, a destra, per esempio, non si discute più della forma dello Stato, della separazione fra Stato e Chiesa, della corporazione come soluzione al confitto di classe e così via. Le “grandi narrazioni”, le ideologie onniesplicative, sono morte o in grave stato di salute. Ai nostri giorni avanza un radicalismo sottile che espunge il dato religioso da ogni piega della società, che erige i diritti individuali, reali o presunti, a criterio di giudizio di ogni cosa, che vuole tradurre in leggi ogni possibile arbitrio riguardo al trattamento della vita umana nascente o morente, ai rapporti fra i sessi, al diritto di darsi la morte direttamente o avvelenandosi con le droghe» (p. 124).
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Il caso sui generis italiano è approfondito in maniera dettagliata nel terzo capitolo, Il conservatorismo nell’Italia post-unitaria (pp. 125-170). La narrazione si pone in modo anticonformista rispetto alla storiografia convenzionale, che per molto tempo ha letto la storia della nazione negandone le radici e le virtualità. Di fatto il Risorgimento è l’espressione in Italia di quella Rivoluzione che — come in Francia — ha preteso fare tabula rasa del passato e di creare un «Paese legale» in contrasto con il «Paese reale». Né, nel periodo precedente all’unificazione, vanno dimenticate le insorgenze popolari anti-napoleoniche, espressioni di un humus cattolico che per primo ha resistito all’espandersi delle ideologie rivoluzionarie d’Oltralpe che sulle baionette della Grande Armée penetravano negli Stati italici e la cui memoria non va dimenticata, in quanto espressione di quella cultura profonda che, al di là delle suddivisioni politiche, teneva uniti gli italiani. La stessa Restaurazione, anche in Italia, aveva assunto un carattere solo istituzionale, senza «[…] riportare alla luce quei princìpi fondamentali del bene comune che neanche i vincitori di Napoleone indossavano: quest’ultimo, il conservatorismo dei princìpi perenni, può essere definito come il conservatorismo autentico» (p. 131).
Unificata l’Italia attraverso il «coordinamento» di forze repubblicane radicali — che vedono in Giuseppe Mazzini (1805-1872) e Giuseppe Garibaldi (1807-1882) gli esponenti di spicco — e di forze cosiddette «moderate», incarnate dalla monarchia sabauda e dal primo ministro del Regno di Sardegna, Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861), la prima stagione governativa del neonato Regno è guidata dalla cosiddetta Destra storica. Qui si può notare già un primo grande equivoco: la denominazione «destra» e, quindi, il significato di fazione conservatrice attribuito a essa nulla hanno a che vedere con il vero conservatorismo, perché sia la «destra» sia la «sinistra» storiche in Italia non sono altro che delle modulazioni del liberalismo risorgimentale. Tali correnti, alternandosi, hanno guidato l’Italia fino all’avvento del fascismo, entrambe disconoscendo le radici cattoliche della nazione e opponendosi in maniera radicale alla stessa Chiesa, conquistandone gli Stati con la Breccia di Porta Pia nel 1870. Senza omettere di ricordare la «conquista del Regno del Sud», compiuta soffocando le nuove e copiose insorgenze — sbrigativamente bollate come «brigantaggio» — delle popolazioni dell’ex regno borbonico.
Se questo è il quadro, il primo movimento conservatore italiano può essere individuato nell’Opera dei Congressi, ossia fra «[…] i cattolici cosiddetti “intransigenti”, che rifiutavano la fine violenta del potere temporale del Papa. Essi, riuniti nell’Opera dei Congressi (1874-1904), da cui germinerà la Ueci, l’Unione elettorale cattolica italiana, avevano il sostegno della popolazione e della gerarchia ecclesiastica, ma non avevano un vero e proprio progetto politico che non fosse l’organizzazione del “Paese reale”» (p. 135). Con il passare del tempo e l’attenuazione del «non expedit» del beato Pio IX (1846-1878) si poté giungere a una sorta di patto elettorale, sotto l’egida dell’Unione Elettorale Cattolica Italiana, che impegnava la classe liberale di Giovanni Giolitti (1842-1928) a rispettare alcuni aspetti della legge morale naturale in cambio dei voti dell’elettorato cattolico, soprattutto in funzione anti-socialista, alle elezioni del 1913. Questo cammino venne però traumaticamente interrotto dallo scoppio della Grande Guerra (1915-1918), che al suo termine farà comparire nel quadro socio-politico, non più egemonizzato dal liberalismo, nuove ideologie politiche, che a poco a poco prenderanno il sopravvento. Assieme al movimento dei Fasci di Combattimento, poi Partito Nazionale Fascista, e al Partito Comunista Italiano, nato da una scissione del Partito Socialista Italiano, esauritasi nel contempo l’esperienza dell’Opera dei Congressi, per opera del sacerdote siciliano don Luigi Sturzo (1871-1959) nasce un partito moderno d’ispirazione cristiana, denominato Partito Popolare Italiano. Esso, pur non avendo un programma conservatore «[…] si trova di fatto a rappresentare anche quel mondo conservatore, composto soprattutto da cattolici, che lotta contro l’estremismo dei socialisti e contro il netto rifiuto di una parte dei liberali di allearsi contro i “rossi”, i socialisti, con i “neri”, come definivano i “clericali”, cioè i cattolici» (p. 147). L’ascesa e il consolidamento del regime fascista, nonché la Conciliazione del 1929 fra il Regno d’Italia e la Santa Sede, dopo la «ferita» di Porta Pia, vedranno il mondo conservatore presente, ma non protagonista, nel ventennio mussoliniano. In definitiva, attraverso analisi storiografiche significative e dimostrando che il regime venne guidato da correnti rivoluzionarie — quella liberal-nazionale e quella socialista —, non concedendo così alcuna rappresentanza politica al mondo conservatore, il «[…] fascismo non nuocerà soltanto alle ideologie che perseguiterà apertamente, ma soprattutto danneggerà quella che potremmo definire la presenza pubblica culturale e politica dei cattolici attorno alla Dottrina sociale della Chiesa e ogni presenza di conservatorismo organizzato nel nostro Paese» (p. 154).
Gli anni post-bellici vedono la nascita della Repubblica democratica e, ancora una volta, la mancata presenza di un chiaro contenitore politico conservatore, in quanto la stessa Democrazia Cristiana, il partito che egemonizzerà politicamente i primi decenni successivi al secondo conflitto mondiale, pur essendo votata in massa da conservatori, non rappresenterà mai, fino alla sua dissoluzione, agli inizi degli anni 1990, quei princìpi che, pur nel gioco delle parti assegnate dallo scenario della Guerra Fredda, almeno inizialmente pretendeva d’incarnare, anche se polarizzava i voti degli italiani anti-comunisti. V’è da considerare, altresì, che «il mondo conservatore nell’Italia del dopoguerra ha due importanti punti di riferimento, la Chiesa e gli Stati Uniti, e due nemici altrettanto importanti, il partito comunista più forte dell’Occidente e il laicismo. Nonostante l’acuta analisi pubblicata nel 1960 dai vescovi italiani, il laicismo penetra profondamente nel corpo sociale durante gli anni del boom economico e demografico degli anni 1950 e 1960 e questa infiltrazione capillare spiega l’esplosione rivoluzionaria del 1968. In ultima analisi, il mondo conservatore che vota per la Dc o per i partiti di centro-destra, perde la battaglia culturale perché non fa propria l’analisi dei vescovi, che non diventa un criterio di orientamento dei movimenti cattolici e anticomunisti. Infatti, la rivoluzione esplosa nel 1968 non ottiene alcun risultato politico visibile, nel senso di uno spostamento a sinistra degli equilibri fra i partiti, ma determina una grande trasformazione culturale e di costume che investe la generazione di quei tardi anni 1960 e dei decenni seguenti. Nelle relazioni familiari, affettive, sociali, dopo la “svolta” del 1968 nulla sarà più come prima e il radicale cambiamento antropologico nella società verrà compreso molto tardi sia dalla Chiesa sia più genericamente dal mondo conservatore» (p. 161).
Con la dissoluzione della Democrazia Cristiana, tuttavia, il mondo conservatore si ritrova libero dalla sua ipoteca e con uno spazio pubblico ben definito, offerto dalla creazione di un partito di centro ad opera della figura carismatica dell’imprenditore Silvio Berlusconi (1936-2023) che, pur preferendo al termine «conservatore» quello di «moderato» — non senza personali incoerenze e paradossi —, «[…] si è così inconsapevolmente inserito in una tradizione, quella italiana, in cui la società ha sempre cercato di opporsi ai tentativi dello Stato di stravolgerne l’ethos, le caratteristiche e le abitudini.
«Insorgenze anti-napoleoniche; Opera dei Congressi come “Paese reale” contro “Paese legale” dopo il 1861; “Italia profonda” che non rifiutò il suo consenso al fascismo che riportava l’ordine ma non gli fornì mai un consenso ideologico; italiani che dal 18 aprile 1948 diedero il voto alla Dc in chiave anti-comunista, senza apprezzare più di tanto il partito di maggioranza relativa: tutte queste espressioni di conservatorismo popolare vennero riprese, alcune in modo consapevole, altre no, dal centro-destra a guida Silvio Berlusconi» (pp. 168-169).
È chiaro che, nonostante le incoerenze dei vari partiti, lo sbocco politico del mondo conservatore italiano è senza dubbio, a partire dal 1994, la coalizione di centro-destra.
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Della cultura conservatrice italiana Invernizzi e Sanguinetti si occupano nel quarto capitolo, Il pensiero conservatore: correnti e protagonisti (pp. 171-196).
Già durante gli anni della Restaurazione nasceranno idee e si creeranno circoli conservatori: nel Regno Lombardo-Veneto attorno alla figura del conte Giacomo Mellerio (1777-1847), che collaborerà successivamente con il beato Antonio Rosmini Serbati (1797-1855) e con le Amicizie Cristiane ambrosiane; in Piemonte attorno al marchese Cesare Taparelli d’Azeglio (1763-1830) e ai conti Emiliano Avogrado della Motta (1798-1865) e Clemente Solaro della Margarita (1792-1869), nonché ai giornalisti don Giacomo Margotti (1823-1887) e Stefano Sanpol Gandolfo (1822-1889), mentre a Modena emerge la figura di monsignor Giuseppe Baraldi (1778-1832) e a Roma quella di Giuseppe Spada (1796-1867) e, almeno fino al 1848, del padre teatino Gioacchino Ventura (1792-1861), conte di Raulica; nelle Marche il conte Monaldo Leopardi (1776-1847) e a Napoli Antonio Capece Minutolo (1768-1838), principe di Canosa. Fortemente anti-rivoluzionarie sono le congregazioni religiose degli Oblati di Maria Vergine, fondate dal venerabile Pio Bruno Lanteri (1759-1830), e la Compagnia di Gesù, che soprattutto a partire dal 1850 con la fondazione della rivista La Civiltà Cattolica «[…] radunerà a Roma i migliori e i più fedeli intelletti dell’ordine ignaziano, che saranno spesso i migliori uomini di scienza italiani e del mondo» (p. 179), fra cui il gesuita Luigi Taparelli d’Azeglio (1793-1862), che animeranno la polemica anti-liberale.
Contro l’ideologia risorgimentale e sospinti dal legittimismo borbonico, emergono al Sud le figure di Giacinto de’ Sivo (1814-1867) e del duca Pietro Calà Ulloa (1801-1879). La nascita dell’Opera dei Congressi, poi, nella sua ala intransigente vedrà non pochi lucidi anti-liberali e anti-socialisti come Giuseppe Sacchetti (1845-1906), Giambattista Casoni (1830-1919), Giuseppe Toniolo (1845-1918), il beato Giuseppe Antonio Tovini (1841-1897) e Stanislao Medolago Albani (1851-1921), nonché la rivista Fede e Ragione, che chiuderà nel 1929.
Nella prima metà del Novecento si segnalano figure di conservatori infarcite spesso di neo-romanticismo o isolate, come quella del poeta e letterato toscano Domenico Giuliotti (1877-1956). Tuttavia, è da notare che il magistero pontificio da Leone XIII (1878-1903) al venerabile Pio XII (1939-1958) presenta un background di motivi conservatori sia per la trattazione di motivi che riguardano lo Stato, la società, la famiglia, l’economia, sia per il richiamo al rinnovato studio della filosofia di san Tommaso d’Aquino (1225-1274) per riprendere il sano realismo e il riferimento alla legge morale naturale. Su questa scia, apice certamente di una visione restauratrice e conservatrice non può che essere la regalità sociale di Cristo condensata nell’enciclica Quas Primas (1925) di Pio XI (1922-1939).
Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, «qualche bagliore di ripresa della cultura conservatrice emergerà grazie agli studi di un acuto storico del pensiero, Augusto Del Noce (1910-1989), il quale, a partire dagli anni 1960, inizierà a studiare quella che appariva una nuova fase di crisi della modernità.
«In quest’epoca, va segnalata anche l’opera di animazione culturale in senso conservatore esercitata dalla casa editrice Rusconi di Milano, grazie soprattutto alla direzione di importanti collane librarie affidata nel 1969 ad Alfredo Cattabiani (1937-2003), già “anima” delle edizioni dell’Albero e Borla di Torino, che le dirigerà per nove anni» (p. 187).
Grazie a tali esperienze editoriali giungeranno in Italia le traduzioni di importanti maestri del conservatorismo europeo. Figure da non dimenticare sono certamente quelle del filosofo Emanuele Samek Lodovici (1942-1981), di Sergio Romano e Domenico Fisichella, questi ultimi fra i primi a definirsi conservatori. Al di là del tradizionalismo di matrice non cristiana, incarnato da «Julius» Evola (1898-1974) e dai suoi seguaci, e delle esperienze di gruppi e centri culturali che, pur con soluzioni convulse, vorranno resistere alle derive rivoluzionarie, autori significativi possono essere considerati il critico letterario Rocco Montano (1913-1999), il romanziere Carlo Alianello (1901-1981) e il giornalista e storico Silvio Vitale (1928-2005), così come appare di notevole contributo alla cultura conservatrice la produzione del narratore Giovannino Guareschi (1908-1968), personaggio sui generis. In ambito cattolico emergeranno pensatori come Attilio Mordini di Selva (1923-1966), Primo Siena, Giovanni Cantoni (1938-2020), Silvano Panunzio (1908-2010) e Tommaso Romano: «tutti “operatori culturali” attivi nella seconda metà del secolo XX, che, pur avvalendosi prevalentemente del magistero di autori stranieri — ma le alternative erano scarse —, porranno a poco a poco le basi per una rinascita del conservatorismo e per una ripresa della tradizione politica italiana più genuini» (p. 195).
Al di là delle élite intellettuali, è evidente che in Italia nel corso dei secoli sia stato presente «[…] un “Paese profondo” resistente a ogni pressione ideologica delle sinistre e molto più a destra delle élite politiche che si trovano a rappresentarne le istanze. Un’Italia che si esprime in larga misura — anche se non esclusivamente — in forme di “anti-politica” più o meno radicale, soprattutto nell’astensione elettorale, ma che pare comunque alla ricerca di una forza che ne indossi le ragioni in maniera accettabile e non strumentale ad altre prospettive.
«Una “deep Italy” erede di un passato soffocato dalle ripetute “colonizzazioni” ideologiche subìte — per usare una locuzione cara al regnante Pontefice —, ma anche prodotto delle contraddizioni di una globalizzazione pilotata da centri di potere “discreti” che se ne servono per i loro disegni gnostici di mega-reset orwelliani» (pp. 195-196).
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Dei caratteri propri di questa Italia gli autori parlano nel quinto capitolo, Un identikit dell’Italia conservatrice (pp. 197- 211). Bisogna innanzitutto considerare che «l’Italia non è nata con il 1861-1870, e nemmeno con il 1948: l’Italia ha una storia ben più lunga e frastagliata di quella di tanti Paesi che oggi dettano legge al mondo. E ha tante ricchezze, non solo artistiche, da mettere in mostra e da valorizzare erga omnes» (p. 208). Tale storia si poggia sulla romanità, riformata e rinsaldata dal cristianesimo, che con la sua sede romana ha animato nei secoli la resistenza al protestantesimo e all’illuminismo, e sull’apporto dei popoli barbari, soprattutto in relazione al loro diritto consuetudinario. Tali elementi hanno espresso la cristianità italiana, che si esprime anche con personaggi eminenti, come il poeta Dante Alighieri (1265-1321) e il filosofo e giurista napoletano Giambattista Vico (1668-1744), esponente quest’ultimo di quell’antropologia naturale contraria a ogni prospettiva gnostico-rivoluzionaria. Va compreso, finalmente, come il Risorgimento sia stato il momento rivoluzionario, una cesura con l’Italia del passato che, pur essendo divisa in Stati diversi, non ha mancato di vivere in una comune «virtuosità» all’insegna di un’identità culturale che si muoveva continuamente alla ricerca della tranquillitas ordinis. Proprio la Rivoluzione italiana lascia in eredità «ferite» o «questioni» aperte: «la questione cattolica, con il sotto-prodotto di quella “romana”; la questione meridionale; la questione sociale e la questione federale» (p. 204).
Assumere una prospettiva conservatrice per il futuro consiste, allora, nel valorizzare la storia pre-unitaria italiana — senza subire la denigrazione proveniente dalla cultura «ufficiale» — e non disdegnare quanto di buono sia nato all’ombra del tricolore, ma ancora di più, tale cultura «[…] deve opporsi strenuamente — va ripetuto e sottolineato — a ogni ideologismo o interesse materiale che “riduca” la tradizione nazionale a quanto è avvenuto dopo l’Unità, di cui deve invece mettere in evidenza, senza polemiche, ma con incisività, i difetti, denunciare i miti e la stantia oleografia che ne affliggono la narrazione, da cui occorre affrancarsi per rivisitare, invece, in maniera spregiudicata quanto avvenuto fra le Repubbliche Giacobine, alla fine del Settecento, e la Breccia di Porta Pia, nel 1870» (p. 209). Troverà, altresì, in questo percorso una bussola importante — anche in linea con la tradizione italiana —, cioè l’insegnamento sociale della Chiesa quale «morale sociale», che non offre certamente soluzioni tecniche, ma ispira azioni sociali e culturali in linea con l’idea di creazione e con i princìpi di morale naturale.
Le Conclusioni (pp. 212-216), che costituiscono la sesta parte, sono una sorta di consegna di criteri per poter ritracciare in maniera genuina un format conservatore, che non può riallacciarsi a esperienze del passato ibride o confuse, quali il fascismo, né tantomeno si deve considerare l’ala «moderata» della Rivoluzione moderna. Di essa rifiuta in toto i presupposti culturali, accogliendo invece il progresso materiale che i secoli consegnano all’oggi quali sviluppi della cultura cristiana che ha dato impulso al pensiero metafisico e scientifico del Medioevo maturo. Ancora, «un conservatorismo che voglia essere “contemporaneo” deve essere patriottico e non nazionalista, pluralista sociale e non pluralista ideologico, popolare e non populista, democratico e non “democratista”, per la libertà e non liberale, sociale e non socialista, identitario e non sovranista, estetico, elegante ma non “dandy”, amante della buona tavola ma non edonista e crapulone: in parole povere “eternista” e non “modernista”» (p. 213).
Tali considerazioni, se da un lato sono rivolte alla politica e ai suoi operatori perché siano consapevoli della tradizione che li precede e applichino in ogni iniziativa realismo e buon senso alla luce della morale sociale, dall’altro lato e in maniera più pregnante si dirigono «[…] a sfere più recondite, all’anima del Paese, là dove si plasma e si irrobustiscono la fibra di una nazione, la sua identità e la sua cultura, dove si forma il giudizio che essa dà attraverso le sue classi dirigenti in primis su sé stessa, quindi sul suo presente e, ancor di più, sul suo futuro. Perché è lì che si gioca la partita più importante e prioritaria in senso valoriale: non che le altre battaglie non siano importanti, ma quando si vince lì, il resto viene da sé» (p. 215). È un’opera lunga e ardua, con molti ostacoli, volta al superamento totale della Rivoluzione, intesa come sovvertimento dell’ordine naturale.
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La settima parte, Contributi (pp. 217-266), rubrica ottimi approfondimenti in relazione a quanto accennato nelle pagine precedenti. Il primo, intitolato Com’è nata l’Italia (pp. 219-234), a firma di Francesco Pappalardo, si presenta come una significativa sintesi di passaggi storici inerenti alla Penisola e dunque alla sua formazione identitaria.
In premessa, l’autore spiega come il concetto di «nazione» sia stato ideologizzato a partire dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione francese e abbia costituito, attraverso il sempre più pesante irrigidimento dello Stato moderno, la negazione delle «nazionalità spontanee». Queste convivevano, in ambito europeo, all’interno di Stati «leggeri», ossia di organizzazioni amministrative che riconoscevano il primato alla società civile e in particolar modo alla famiglia, intesa non semplicemente nel suo significato biologico, bensì come soggetto di rappresentanza politica. Con la Rivoluzione francese e la conseguente abolizione del sistema del cosiddetto ancien régime, che sostanzialmente conservava rapporti feudali, sia pure con le torsioni legate appunto alla modernità incipiente, lo Stato nazionale diventa un’entità che uniforma i territori e omologa le nazionalità spontanee all’insegna appunto di un’astrazione incarnata di volta in volta da varie ideologie. La patria così diventa una sorta di nuova divinità cui subordinare ogni altro valore.
In questo quadro, «[…] una singolarità è costituita dall’Italia, che esiste da quasi un millennio come unità culturale e linguistica, pur nella diversità delle sue componenti, essendosi formata in seno alla Cristianità, nei secoli del Medioevo, sulla base di una preziosa eredità romana, a sua volta maturata in un intricato mosaico di lingue e di stirpi» (p. 224). Tale civiltà — dopo la disgregazione dell’Impero romano d’Occidente e la differenziazione politica — troverà il suo elemento di raccordo e di comunicazione culturale nel sentimento religioso declinato come ortodossia e fedeltà alla cattedra di Pietro. L’Italia così appare il luogo d’incontro fra varie polarità — greca, romana, cristiana — e quindi laboratorio dello stesso spirito europeo. Ne consegue che «[…] gli italiani oscilleranno sempre fra l’apertura all’universale e l’attenzione al particolare, fra il senso dell’appartenenza nazionale e l’attaccamento alla comunità locale, inuna tensione inevitabile ma feconda, finché vissuta con sereno equilibrio» (p. 225). Anche durante il predominio della monarchia spagnola fra i secoli XVI e XVII si rafforza l’omogeneità politica e culturale della Penisola. La sedimentazione culturale, legata al sentimento religioso, risulta talmente profonda che allo scoppio della Rivoluzione francese sono solo pochi gli «illuminati» e l’invasione napoleonica vedrà una resistenza diffusa, nelle vicende dell’Insorgenza, in tutti i popoli italiani.
Il processo di unificazione di tali entità amministrative, anziché sfociare in una confederazione, quale sviluppo naturale di una storia millenaria, ha visto — con il compromesso fra radicali e moderati — una unificazione militarizzata rispondente alle mire espansionistiche del Regno di Sardegna, che ha prodotto «l’imposizione di un abito inadeguato [che] causa al corpo sociale i gravi disagi di cui soffre tuttora e disperde una parte rilevante delle inestimabili ricchezze culturali della nazione» (p. 233), a cui si aggiunge un violento attacco al suo ethos culturale e spirituale.
Nel secondo contributo, Vico e la verità del diritto (pp. 235-256), Mauro Ronco restituisce, al di là delle interpretazioni idealiste e storicistiche, il nucleo fondante del pensiero del filosofo e giureconsulto napoletano. Il suo studio, infatti, è eminentemente anti-moderno in quanto davanti all’avanzare del giusnaturalismo laico, in alternativa alle dottrine politiche dei giuristi protestanti e in polemica con le filosofie di Ugo Grozio (1583-1645), Niccolò Machiavelli (1469-1527), René Descartes (1596-1650), Thomas Hobbes (1588-1679) e Samuel von Pufendorf (1632-1694) — per citarne alcuni —, vuole rintracciare il diritto naturale fondato sull’ordine provvidenziale della storia. In questo senso, egli «[…] può essere considerato il primo intellettuale “tradizionalista”, impegnato quant’altri mai nelle diatribe culturali del suo tempo e schierato con la Chiesta cattolica contro la Rivoluzione protestante e i suoi corifei nella sovversione della concezione tradizionale del diritto: uno dei primi, se non l’unico, pensatore che elaborò una visione del mondo che si ponesse là dove il post-Medioevo — ove i paradigmi culturali della Scolastica aristotelica si erano piegati a una lettura materialistica dell’opera dello Stagirita — stava per essere piegato al canone illuministico» (pp. 236). Pertanto, per Vico il diritto naturale non sorge dal cogito e quindi dalle menti di un gruppo di studiosi moralisti, bensì dall’osservazione dei costumi dei popoli che fin dalla loro emersione hanno fondato la civilizzazione su tre elementi: il sentimento religioso, la famiglia che ha il compito di generare ed educare, e il seppellimento dei morti. La sua «scienza nuova», allora, si presenta come un’opera intesa a rintracciare il diritto naturale professato dalle genti. Tale ricerca ha un obiettivo preciso: aiutare la Cristianità a uscire dalle feroci diatribe e fratture ingenerate dal protestantesimo e dirette alla sostituzione del diritto naturale con l’autorità dei monarchi, e quindi in ultimo dello Stato moderno, che si concepirà sempre più come sciolto da ogni legame con un ordine ad esso trascendente. Afferma Ronco: «La Scienza nuova è la risposta d’amore all’odio contro la metafisica che la cultura europea compì, sotto la dittatura protestante, nei due secoli succeduti alla rivoluzione del 1517. La ragione, il bene più prezioso che ci sia stato dato dalla creazione di Dio, viene svalutata e derisa. La Scienza nuova è la risposta sublime alla demolizione del vero concetto del diritto, fondato sulla metafisica e, conseguentemente, alla distruzione della Cristianità, da cui seguirà, inevitabilmente, l’annichilimento degli Stati e della vita civile» (p. 251). Vico, quindi, denuncia i tre errori dei nuovi sentieri moderni che hanno smarrito l’ordine provvidenziale: 1) l’oblio di Dio e della Provvidenza divina; 2) la superficialità filologica dei giusnaturalisti, che non ha consentito loro di scorgere il diritto eterno e universale nei costumi dei popoli; 3) la separazione incongrua fra diritto pubblico e privato, che nega l’unità sostanziale del diritto, la cui causa è la giustizia, che dipende a sua volta dalla verità eterna. La riscoperta del pensiero autentico di Vico, in ordine al conservatorismo, diventa un’importante risorsa e un indispensabile antidoto all’irrealismo e alle fughe ideologiche.
Spostandoci sul versante dell’attualità, l’ultimo contributo, di Andrea Morigi, Una rivista conservatrice negli anni 1990 (pp. 257-277), ripercorre l’esperienza editoriale, in quattro annate, del mensile Percorsi di politica, cultura, economia, fondato da Gennaro Malgieri, all’epoca direttore del quotidiano Secolo d’Italia, organo di Alleanza Nazionale, e parlamentare dello stesso partito. Tale esperienza, fra le altre, segna il cammino della destra italiana, teso non solo a liberarsi dall’eredità fascista nel periodo d’esordio della cosiddetta Seconda Repubblica, ma anche ad assumere il paradigma conservatore quale alveo della propria cultura politica. In questo senso, i parametri teorici da riconsiderare riguardavano due assi: lo statalismo e la centralità del diritto naturale. Il mensile, sia per spazio a voci — fino ad allora relegate in ambiti ristretti — sia per tematiche trattate, rappresenta un sentiero che, sia pur interrotto, anche dalle vicissitudini della stessa destra italiana con la fondazione da parte del leader Gianfranco Fini del partito Futuro e Libertà, sembra in qualche modo tornare di interesse nell’attuale esperienza governativa. Infatti, solo a chi non conosce questa evoluzione o a chi artatamente finge di non conoscerla, è sembrato strano che l’attuale presidente del Consiglio dei Ministri italiano, on. Giorgia Meloni, nel suo discorso d’insediamento citasse il filosofo inglese sir Roger Scruton (1944-2020) quale «uno dei grandi maestri del pensiero conservatore europeo» (p. 258).
Sintetizzando le annate di Percorsi, i nomi che emergono — fra gli altri — sono quelli di Marco Respinti, studioso del conservatorismo soprattutto dell’area anglofona, e con lui i riferimenti al pensatore contro-rivoluzionario Edmund Burke e allo statunitense Russell Amos Kirk (1918-1994), Giovanni Cantoni, Alfredo Mantovano, attuale sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Marco Invernizzi, lo storico Marco Tangheroni (1946-2004), Francesco Pappalardo, Gennaro Sangiuliano, attuale ministro della Cultura, e Giuseppe Valditara, allora docente di diritto romano e ora ministro dell’Istruzione e del Merito. Troveranno spazio anche contributi tradotti di pensatori stranieri, viventi o già defunti, come Thomas Molnar (1921-2010), Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), Gonzague de Reynold (1880-1970). Sono gli anni di un mutamento della destra partitica alla ricerca di un nuovo paradigma culturale: «Dopo il congresso di Fiuggi (Frosinone), che nel 1996 [in realtà 1995] aveva segnato la nascita di Alleanza Nazionale dalle ceneri del Movimento Sociale Italiano-Destra Nazionale (Msi-Dn) e il distacco definitivo dall’eredità del fascismo, il documento programmatico della “Destra dei valori” indica una via conservatrice e tradizionale» (p. 263). Pur all’interno di un progetto fusionistico in cui trovano spazio suggestioni evoliane, filo-islamiche, nuove letture di Friedrich Nietzsche (1844-1900) e Yukio Mishima (1925-1970), le tematiche più propriamente conservatrici verteranno, oltre che sulla presentazione del pensiero di autori di tale area, anche sull’importanza dei corpi intermedi, sulla rilettura di alcuni nodi storici, sull’emergenza demografica e sulle nuove sfide antropologiche.
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Infine gli autori, Invernizzi e Sanguinetti, offrono nelle Indicazioni bibliografiche (pp. 267-277) una sorta di mappatura delle opere presenti, soprattutto in Italia, del pensiero conservatore, introdotte negli anni scorsi o prodotte da pensatori italiani.
Daniele Fazio