Sandro Petrucci, Cristianità n. 351 (2009)
Della Storia. In margine ad aforismi di Nicolás Gómez Dávila è l’ultima opera di Marco Tangheroni (1946-2004) — ordinario di Storia Medievale e direttore del dipartimento di Medievistica dell’università di Pisa, autore di una ricca produzione storiografica e pubblicistica (cfr. In memoriam di Marco Tangheroni (1946-2004), in Cristianità, anno XXXII, n. 321, gennaio-febbraio 2004, pp. 7-8) —, pubblicata postuma grazie alla revisione redazionale di Cecilia Iannella, docente dello stesso dipartimento, nel quale si è svolto, nei mesi di febbraio e di marzo del 2003, un seminario sui temi relativi alla “riflessione epistemologica sulla conoscenza storica” (p. 7) che rappresentano il contenuto centrale dell’opera stessa. La Nota della curatrice (pp. 7-9) offre significative indicazioni sulle lezioni accademiche di Tangheroni, animate e vivaci, di cui le pagine dello scritto costituiscono un riflesso, come spiega l’autore: “Un discorso che procede piuttosto per associazione di idee, sovente pure per associazione di citazioni, senza preoccupazioni di rigore trattatistico, di disposizione sistematica, di tendenza alla completezza, pur se, mi auguro, non in modo del tutto disordinato. Non rinunciando, tuttavia, ad un certo tono colloquiale, non alieno dalla parentesi, aperto talora ai ricordi personali. È lo stile del mio modo di insegnare, nel bene e nel male, da troppo tempo perché sia capace di abbandonarlo. In fondo, le considerazioni qui svolte sono da considerare come frutto di lezioni, in parte realmente tenute, del resto. Queste pagine sono state scritte col giro mentale di un professore che sta colloquiando con i suoi studenti” (p. 26).
Segue la Presentazione. Marco Tangheroni (pp. 11-17), un ritratto scientifico e umano — “Con la scomparsa di Marco Tangheroni la professione storica ha perduto una voce chiara, simpatica ed originale che sapeva parlare al gran pubblico e anche ai colleghi medievisti” (p. 11) —, nonché una sintesi dell’opera, dello storico inglese David Abulafia con cui l’autore ha condiviso interessi storiografici comuni.
L’opera si articola in un’introduzione, otto capitoli e un’appendice, ognuno concepito come commento a uno o più aforismi del colombiano Nicolás Gómez Dávila (1913-1994), riconducibili, fra i tanti prodotti del pensatore iberoamericano, al tema della storiografia e della sua conoscenza. Tangheroni si è avvicinato alla lettura di quei testi — sia a quelli tradotti in italiano che a quelli originali — attraverso la mediazione dell’amico Giovanni Cantoni, reggente nazionale di Alleanza Cattolica, associazione di cui lo storico è stato autorevole esponente fin dai suoi inizi. Lo stesso Cantoni ha contribuito a far conoscere Gómez Dávila al pubblico italiano con i saggi Un contro-rivoluzionario cattolico iberoamericano nell’età della Rivoluzione culturale: il “vero reazionario” postmoderno e È arrivato… Nicolás Gómez Dávila (cfr. Giovanni Cantoni, Per una civiltà cristiana nel terzo millennio. La coscienza della Magna Europa e il quinto viaggio di Colombo, Sugarco, Milano 2008, pp. 179-205 e 207-212).
Nell’introduzione, Dell’origine e dei caratteri di questo libretto (pp. 23-30), vengono indicati non solo alcuni fra i maestri e le opere di cui Tangheroni si dichiara debitore — lo storico del Medioevo, docente nello stesso dipartimento pisano, Cinzio Violante (1921-2001), e lo storico francese Henri Marrou (1904-1977), con il suo La conoscenza storica (trad. it., il Mulino, Bologna 1988) —, ma anche l’ambito entro cui collocare il valore e il ruolo della riflessione epistemologica. Quello dello storico è innanzitutto un lavoro di ricerca, di conoscenza e di rappresentazione del passato, che si esprime in testi e in opere. In quest’ambito, e non in un contesto astratto, s’impongono le questioni epistemologiche, che servono ad affinare un metodo rispetto ai problemi storiografici via via incontrati sul campo. Lo storico, in ogni caso — osserva Tangheroni —, non dovrebbe mai rinunciare a “una certa inquietudine […] non come una parentesi, ma come qualcosa che si intreccia strettamente col suo lavoro quotidiano” (p. 25), interrogandosi su che cosa conosce, come conosce e quali sono i limiti della sua conoscenza. Questi interrogativi hanno attirato lo studioso pisano fin da giovane studente universitario a Pisa e a Cagliari, poi da ricercatore e docente, come potrebbe testimoniare chi, me compreso, ha avuto il piacere di assistere alle sue lezioni e conferenze, e infine come autore di studi di storia medievale — mediterranea, sarda, pisana e toscana in particolare — con uno spettro d’interessi fra cui rientrano, oltre quelli economici, quelli religiosi, politici e sociali.
I fili con cui è costruita la trama dei singoli capitoli, oltre che dagli aforismi gomezdaviliani, sono rappresentati da una messe di riferimenti a testi di metodologia storica, dagli esempi tratti dalla storia medievale, e non solo, dalle ricerche personali e da osservazioni di carattere filosofico e scientifico che Tangheroni tratta con rispetto e cautela, a conferma di uno degli aspetti della sua dimensione umana e culturale: l’apertura a mondi epistemologici diversi da quello proprio. Si è, dunque, in presenza di una ricchezza di citazioni, di spunti e di suggestioni, di una densità riflessiva concentrata in circa 140 pagine, e di una scrittura sapienziale che riecheggia quella dello stesso Gómez Dávila, e di cui non è semplice dar conto in modo sintetico.
Nel primo capitolo, Della complessità, dei limiti e del mistero della storia (pp. 31-47), si fa stato di un categoria — quella della complessità — che riguarda la storia non solo come passato ma anche come conoscenza, e che è dimenticata o sottovalutata sia dagli storici dilettanti e dai curiosi della materia, desiderosi di ottenere facili spiegazioni, sia dagli storici professionisti. Tangheroni condivide l’avvertimento di Gómez Dávila: “Lo storico che parla di causa, e non di cause, deve immediatamente essere valutato negativamente” (p. 35).
Una spinta notevole a rinchiudere l’insieme della realtà storica in categorie rigide e spesso astratte è venuta, nell’ultimo secolo, dalla storiografia marxista che, secondo Gómez Dávila, utilizza “un lessico di dieci parole […] per spiegare la storia” (p. 37). Lo storico pisano ricorda come alcune formule — per esempio, “crisi della borghesia” o “rifeudalizzazione” — siano utilizzate meccanicamente, soprattutto in opere di sintesi come i manuali scolastici. Altre facies del riduzionismo semplificante, più sofisticate e più insidiose, sono individuate nella cosiddetta dietrologia e nel decostruttivismo. La prima esprime spesso la convinzione che le vicende storiche e le relative fonti nascondano un livello più profondo nel quale si trovano le spiegazioni autentiche. Anche in questo orientamento si trova un’eco dell’ispirazione marxista secondo cui compito dello storico è svelare gl’interessi della classe sociale dominante, le cui scelte costituiscono sovrastrutture dei rapporti economici. Di questa impostazione il decostruttivismo è una ulteriore evoluzione: se ogni fonte esprime un’ideologia, il centro del lavoro storiografico consisterà non nell’analisi del suo messaggio ma nell’operazione di decodifica. Verso la fonte, così, si rischia di assumere un atteggiamento scettico che porta a un relativismo cognitivo. La consapevolezza della complessità della storia — osserva invece Tangheroni — deve accompagnarsi a quella dei limiti dello storico e della possibilità di conoscere il passato attraverso le testimonianze conservatesi, una consapevolezza, cioè, che va coltivata nell’esercizio del lavoro storico, di esegesi delle fonti, le cui attendibilità e plausibilità vanno continuamente verificate. “Solo riconoscendo i propri limiti la ragione fonda la validità del proprio operare” (p. 43). All’origine dell’operare dello storico vi è una lezione di umiltà: “[…] lo storico non è Dio” (p. 45) e la “storia è il passato nella misura in cui possiamo conoscerlo” (ibidem). Al contrario, la ricerca di un Senso della Storia, costruito “a cielo chiuso” (p. 43), cioè al di fuori di una prospettiva teologica, trova le sue radici in una visione deterministica e il suo sbocco è nella giustificazione delle tragedie dei sistemi totalitari del secolo XX in quanto considerate necessarie al compimento di quel Senso della Storia.
Così, tracciando i limiti del lavoro storico, Tangheroni ne richiama il significato originario di ricerca, di un sapere fondato su congetture più che su certezze: “La tesi non è rinunciataria, né relativistica, è realistica e costruttiva” (p. 44), non costruttivistica. Al centro della conoscenza storica vi è, dunque, il dialogo fra lo storico e il passato, attraverso le testimonianze rimaste. Lo storico “[…] non può restituire a quei morti tutta la vita” (p. 45), perché li conosce solo parzialmente e di ciò deve tener conto, ma il suo talento consiste innanzitutto nel saper porre “domande intelligenti […] le domande giuste al momento giusto” (ibidem); in questo modo “[…] lo storico trasforma i morti in morti parlanti […]. Lo storico sarà tanto migliore quanto più a fondo saprà spiegare la propria indagine […] e non oltre” (ibidem). In ogni caso, sullo sfondo rimane un mistero della storia, non perché vi siano realtà volutamente occultate, ma perché non solo la spiegazione — non si deve spiegare tutto e forzatamente — bensì anche la conoscenza risulta sempre limitata, pure nei casi in cui la documentazione si presenta particolarmente ricca.
Nel secondo capitolo, Dell’originalità nella ricerca storica nonché dei rapporti di questa con le scienze umane (p. 49-62), si analizza la tentazione dell’originalità, subita dallo storico anche accademico, spesso condizionato nella scelta delle sue ricerche dalle mode e dall’ambiente in cui è immerso. Aldilà di questi aspetti sociologici e psicologici, la tentazione dell’originalità è propria dello statuto della cosiddetta “nuova storia”, versione della scuola francese delle Annales di cui viene discusso un particolare orientamento, che in qualche caso ha condotto a uno snaturamento della conoscenza storica: la ricerca di uno stretto rapporto con le altre scienze umane. Essa talvolta ha conosciuto esiti positivi, di collaborazione reciproca, ma spesso sono stati gli storici a farsi condizionare dalle categorie delle altre discipline, in particolare dalla sociologia, come anche dalla psicoanalisi, mentre i rapporti con le scienze giuridiche hanno conosciuto un affievolimento, forse perché queste conservano tratti più tradizionali. Secondo Tangheroni, il rinnovamento ermeneutico è determinato non tanto da questo genere di contributi, né da scoperte di nuovi documenti la cui ricerca e la cui analisi restano, in ogni caso, alla base dei progressi conoscitivi, ma dalle capacità di un nuovo storico e dal suo lavoro, come suggerisce Gómez Dávila: “Periodo storico interessante è quello sul quale esiste un libro intelligente” (p. 52). Dunque, ancora il fattore umano, prima delle categorie, è posto al centro della conoscenza storica, che esige una penetrazione continua, un’interrogazione ripetuta e assidua alla realtà del passato. Il lavoro dello storico, quindi, “[…] molto dipende dalla maturazione della [sua] personalità” (p. 51) e dalla consapevolezza dello specifico della sua ricerca, che dovrà condurlo ad affrontare il dialogo con le altre scienze umane non da posizioni subalterne o deboli, ma sapendo correggere e adattare ogni stimolo.
L’altro rischio — più evidente anche per un pubblico meno avvertito — è l’eccessiva specializzazione della ricerca storica, “crescente ed in una certa misura inevitabile per il progresso delle conoscenze” (p. 58). Tangheroni non respinge la specializzazione, ma mette in guardia da due pericoli: restringere a tal punto il campo d’indagine da conoscere “tutto, ma sul quasi-niente” (p. 59); non comprendere adeguatamente un argomento circoscritto, perché slegato da un quadro più ampio e destinato a divenire un frammento isolato e ultimamente inesplicabile. È infatti imprescindibile, nella comprensione storica, il “principio del contesto” (p. 88), ricordato da Gómez Dávila. Un antidoto alla specializzazione atrofizzante, proposto da Tangheroni in una bella pagina, “[…] consiste nel mantenere viva la curiosità” (p. 60), che arricchisce l’esprit de finesse dello storico, lo aiuta a cogliere la complessità, a rapportarsi in modo ampio e profondo con l’umano del passato, evitando di ridurlo a situazioni particolari per quanto studiate in modo dettagliato. Nel lavoro dello storico, infatti, entrano in relazione due umanità, quella dello studioso e quella dei protagonisti del passato: esse hanno caratteri di uguaglianza — la natura umana — e di diversità, la cultura, gli ambienti e le condizioni. A conclusione di questo capitolo si trova un rinnovato richiamo ai documenti: l’incontro fra storico e passato avviene nella faticosa, paziente, ma anche suggestiva lettura delle fonti e delle carte raccolte in quegli archivi che hanno, anch’essi, la propria storia.
A commento di un aforisma gomezdaviliano — “Il determinismo storico non è altro che il sintomo del torpore che affligge l’immaginazione dello storico” (p. 63) — nel terzo capitolo, Del determinismo e della causalità (pp. 63-72), lo storico pisano definisce il determinismo come “la dottrina della necessità causale” (p. 63) che, applicata dal campo della fisica a quello storico, stabilisce “una relazione necessaria (appunto: determinata) tra gli eventi passati e il presente, come tra il presente e gli eventi futuri” (ibidem). L’esito è la visione della storia con la “S” maiuscola, “[…] vista come uno svolgimento necessario, in cui si dispiega una forza immanente, provvidenziale e razionale” (p. 67). Fra le conseguenze di una tale impostazione sono segnalate “sia l’impossibilità di esprimere qualsiasi giudizio di valore, sia la difficoltà di concepire criteri di responsabilità individuale” (p. 68) e la riduzione degli individui a “pure cause efficienti, strumenti di una forza che è più grande di loro e che persegue i suoi fini a dispetto delle loro intenzioni” (ibidem).
La linea di Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) e di Karl Marx (1818-1883), per quanto influente, non ha rappresentato l’unico orizzonte filosofico entro cui si è mossa la riflessione sulla storia nel secolo XIX. Nel quarto capitolo, Della critica di Kierkegaard a Hegel (pp. 73-78), Tangheroni ha il merito di valorizzare il pensiero del filosofo danese Søren Kierkegaard (1813-1855) e di mostrare la rilevanza della categoria della “possibilità”, per cui ogni evento prima che accada rappresenta una delle opzioni che si presentano allo svolgimento degli accadimenti, il quale, a sua volta, implica la libertà degli uomini che ne sono protagonisti: niente nel passato è già scritto prima che avvenga. Si tratta di una lezione dalle grandi implicazioni non solo storiografiche. Contrariamente a quanto comunemente si afferma, la storia si fa proprio con i se, “[…] cioè ricostruendo il passato nella ricchezza delle sue possibilità, anche proprio per meglio intendere le possibilità diventate realtà” (p. 118).
Nel lungo quinto capitolo, Del generale e dell’individuale (pp. 79-100), Tangheroni sviluppa molte sollecitazioni di Gómez Dávila, giungendo a una serie di conclusioni sulla definizione della conoscenza storica. Essa ha per oggetto realtà individuali, distinguendosi dalla conoscenza della natura che tende a includere tutti i fenomeni in un sistema di leggi generali. Alla base vi è la constatazione importante secondo cui ogni fatto storico è unico e irripetibile: “la storia non si ripete” (p. 82). Ricordando l’aforisma di Gómez Dávila, “la storia si ridurrebbe ad un inventario tipologico se ognuna delle sue istanze tipiche non fosse inerente ad una persona” (p. 83), l’autore sottolinea quanto la conoscenza storica sia debitrice al cristianesimo, cioè all’idea dell’uomo come imago Dei, al “carattere totalizzante del singolo individuo” (cit. a p. 84), secondo l’espressione del filosofo tedesco Joseph Pieper (1904-1997), per cui la persona è irriducibile ad ambienti, culture, condizioni economiche o sociali. L’idea cristiana dell’uomo non solo ha liberato la storia da una visione ciclica, ma ne evita anche la tentazione riduzionistica. Per una parte della storiografia la storia collettiva o la storia di quanto si ripete, del regolare, contiene quei tratti scientifici che sfuggono invece alla storia individuale. Esempio di una tale impostazione, aldilà del valore storiografico e degl’importanti contributi che ha lasciato, è lo storico francese Fernand Braudel (1902-1985).
L’uomo, quindi anche lo storico, conosce per concetti, ma questi non devono rappresentare prigioni: la realtà, anche quella del passato, per quanto conoscibile solo indiziariamente, è sempre più ampia delle teorie di cui ci serviamo per comprenderla. Il lavoro dello storico, dunque, mira a collocare i fatti in un contesto, in un racconto, in un ordito testuale ragionevole, ma non conclusivo, in cui si trovi riflessa l’irriducibilità del fatto e dell’individualità, e che quindi contenga l’eco della consapevolezza dei limiti delle conclusioni cui si è giunti, limiti non solo documentari, ma anche dovuti alla scelta delle categorie euristiche utilizzate.
Una pericolosa deriva storiografica giunge a considerare i concetti non strumenti cognitivi, ma realtà oggettive, quasi fossero fatti storici: “Nelle scienze umane i modelli si trasformano in maniera surrettizia, con somma disinvoltura, da strumenti analitici in risultati delle analisi” (p. 101), osserva Gómez Dávila. È l’impostazione costruttivistica che attraversa, seppure in modo diverso, le ideologie degli ultimi due secoli. Così quegli strumenti che avrebbero dovuto permettere una migliore comprensione del passato, proprio perché mezzi aperti alla complessità del reale, finiscono per allontanarci da una sua corretta conoscenza.
Il rapporto fra categorie e realtà storica — “i concetti ed i termini sono da maneggiare con prudenza” (p. 91) — trova un terreno particolarmente problematico e insidioso nella scelta del linguaggio da utilizzare nella rappresentazione del passato. Tangheroni offre, seppur rapidamente, concreti esempi che gli derivano dalla sua frequentazione di fonti e dalla pratica di scrittura storiografica, e riprende la lezione dello storico del diritto Pietro Costa, sintetizzabile così: “Cosa significhi (e come significhi) una parola non è questione di tutto riposo” (cit. a p. 93).
Nel breve sesto capitolo, Della storia, dei sistemi, delle strutture (pp. 101-103), l’indagine sul significato di una delle espressioni più ricorrenti nel recente vocabolario storiografico, cioè “sistema”, rappresenta un esempio di quanto lo storico debba essere attento al linguaggio che utilizza, spesso proveniente da altre scienze umane, in particolare la sociologia, per non rimanerne irretito, ma per saper servirsene al meglio.
Alcune delle riflessioni svolte nelle pagine precedenti vengono riprese nel settimo capitolo, Della verità della storia (pp. 105-111), con ulteriori declinazioni e conclusioni. Innanzitutto la conoscenza storica “[…] è ricerca della verità, di una descrizione vera del passato, così come la scienza, secondo la definizione galileiana, è descrizione vera del mondo” (p. 105). Alla base dev’esserci un’opzione realistica, il contrario del costruttivismo concettuale. Essa significa “[…] accettare l’esistenza di una realtà distinta dall’atto di pensarla” (p. 106). Ne deriva la convinzione che “[…] può esistere un racconto storico più vicino alla realtà del passato di altri possibili racconti storici” (ibidem). La verità che lo storico raggiunge con la sua ricerca e con il suo studio è sempre relativa, ma all’origine del lavoro dello storico non può esservi un atteggiamento scettico, bensì di fiducia, di colloquio, di quella simpatia che traspare in alcune pagine dello studioso pisano verso i pochi o tanti documenti che possono offrirci informazioni intelligibili sul passato più o meno remoto.
A cosa serve, dunque, la storia? A questa domanda, che spesso, esplicita o implicita, si aggira fra i banchi di scuola, si tende a rispondere che la sua utilità consiste nel comprendere il presente — un refrain quasi ossessivo nei manuali scolastici —, giustificando così un’operazione del tutto anti-storica, la riduzione dei secoli trascorsi a quello attuale. Niente di più errato, dunque. Richiamandosi a un altro aforisma del pensatore colombiano — “Lo storico non si installa nel passato con l’intento di intendere meglio il presente. Quello che siamo stati non ci interessa per ricercare ciò che siamo. Quello che siamo interessa per ricercare ciò che siamo stati. Il passato non è la meta apparente dello storico bensì quella reale” (p. 113) —, posto all’inizio dell’ottavo capitolo, Dell’utilità della storia e del rapporto passato-presente (pp. 113-133), Tangheroni contesta il ricordato convincimento, dimostrando che esso conduce inevitabilmente a compiere una selezione che sacrifica la complessità del passato sulla base dell’idea che solo quanto ha avuto continuità o conseguenza nel presente è meritevole di essere studiato. Invece, il passato va conosciuto per quello che è stato, nella sua totalità, per quanto possibile. Stabilire in noi e nel nostro presente il punto di vista terminale interpretativo significa non solo negare la categoria della “possibilità”, indispensabile a evitare un approccio deterministico, ma anche rinunciare a quell’atteggiamento di umiltà, prerogativa indispensabile di un corretto approccio al passato.
Ribadisce Tangheroni che “il passato è passato. Può sembrare una banalità, ma non lo è. Esso è diverso dal presente, anche quando è un passato recente o recentissimo” (p. 116). La dimensione storica è nella distanza fra lo storico e il passato. Nel rapporto fra questi due termini va ricondotta la conoscenza storica che, dunque, non può prescindere dalla riflessione ermeneutica, dai limiti dello storico, che, se considerati tali, possono diventare opportunità, soprattutto se lo storico dimostrerà interesse alla sua realtà presente, affinando così quel fiuto e quella sensibilità che lo porranno, a sua volta, in una posizione aperta verso il passato. È difficile sottovalutare quanto le esperienze dirette e la riflessione su di esse abbiano accresciuto la sensibilità e la capacità di un’analisi dinamica del passato nei grandi storici. La vicenda umana di Tangheroni — caratterizzata, fra l’altro, da una sofferenza fisica vissuta esemplarmente e da un generoso impegno civico — ne è testimonianza. La storia non offre risposte alle domande essenziali sull’uomo, come fanno la filosofia e la teologia, ma aiuta a capire che l’uomo non è Dio; contro, va detto, l’atteggiamento di molti storici. Quindi, “[…] educa alla complessità, e con ciò stesso affina la nostra capacità di “leggere” il presente” (p. 130); abitua “anche alla dimensione drammatica, spesso tragica” (ibidem) del passato, e quindi del presente, “[…] educa alla responsabilità” (p. 131), facendo vedere “[…] che ciò che accade, accade non necessariamente, ma per le scelte libere degli uomini, talora di un uomo qualsiasi che si trova, casualmente, all’incrocio decisivo” (ibidem). In conclusione, “[…] la vera utilità della storia consiste […] nell’abituare all’incontro con l’altro da noi, con civiltà e culture lontane nel tempo, senza appiattimenti sul Novecento” (ibidem).
Nell’Appendice su Lo storico inesperto (pp. 135-136), questi è definito come colui che “[…] resta prigioniero dei concetti” (p. 135). Osservando che “le grandi opere storiche sono rare” e che non mancano “i buoni lavori del corretto artigiano” (p. 136), l’autore concorda con Gómez Dávila: per essere storico è richiesto “un talento raro” (p. 136), quello che Abulafia riconosce a Tangheroni, “[…] non solo di spiegare il passato ma […] di spiegare i compiti e le responsabilità dello storico” (p. 17).
L’opera, dunque, è innanzitutto espressione non ultima del “talento raro” di Tangheroni e del suo valore di storico, oltre che d’insegnante e di maestro di generazioni, quindi rappresenta il frutto di un’amicizia anche, e non solo, intellettuale con Giovanni Cantoni, cui il libro è dedicato, vissuta all’interno di un ambiente spirituale, umano e culturale quale quello di Alleanza Cattolica. Ma può leggersi pure come l’esito, o un esito, del cosiddetto “quinto viaggio di Colombo”, espressione con cui il filosofo argentino Alberto Caturelli auspica un metaforico viaggio di ritorno dell’ammiraglio genovese, che consentirà all’Iberoamerica — esito dell’evangelizzazione e dell’inculturazione della civiltà europea nel Nuovo Mondo (cfr. a cura di G. Cantoni e Francesco Pappalardo, Magna Europa. L’Europa fuori dall’Europa, D’Ettoris, Crotone 2006) — di ricordare alla madrepatria le comuni radici. Di quel “quinto viaggio” un protagonista è proprio Gómez Dávila, “vero reazionario” postmoderno: quel viaggiatore ha incontrato in Europa uomini attenti ad ascoltarlo e a farne fruttare il messaggio, perché da tempo si erano dedicati a prepararne il terreno. Fra di loro vi è Marco Tangheroni e l’opera recensita rappresenta, appunto, un albero ben coltivato che promette generosi frutti a chi vorrà accostarlo.
Sandro Petrucci