Se cercate di raccontare una storia inverosimile ad un romano, di solito lui vi risponde: “ma chè, me stai a pijà etc. ?”. Quando vediamo, come in questi giorni, il Presidente Gentiloni annunciare la firma dell’accordo con la Libia per contrastare il flusso di migranti dalle sue coste verso le nostre, ci viene il dubbio che ce stiano proprio a pijà etc. Questa sensazione è aggravata dal fatto che, nel caso specifico, non possiamo neppure invocare la rituale incompetenza della politica. I nostri Servizi sono i più informati al mondo sulla situazione in Libia e il Ministro Minniti è uomo che conosce bene sia i Servizi che i paesi rivieraschi dell’Africa mediterranea. Il Ministro degli Esteri Alfano sul punto risulta non pervenuto, ma nessuno è sembrato avvertirne la mancanza.
Per stipulare un accordo bisogna essere in due e in questo caso manca la controparte. La Libia non esiste, non è mai esistita. E’ un territorio diviso in tre macro regioni (Tripolitania, Cirenaica e Fezzan) con 140 tribù e 230 (qualcuno arriva a contarne 1.500) milizie differenti che si guardano in cagnesco, in un paese dove questa espressione significa spararsi con l’artiglieria pesante. La Libia come la conosciamo (o, meglio, la ricordiamo) nasce dalle solite alchimie post-coloniali delle Cancellerie Europee concretizzatesi nel trattato di Parigi del 1947 con il quale Regno Unito e Francia, tramite le Nazioni Unite, ottengono l’amministrazione fiduciaria delle tre regioni che l’occupazione italiana teneva, almeno concettualmente, distinte.
Il processo di decolonizzazione del dopoguerra ha visto il costante tentativo da parte anglo-francese, con sponda americana, di escludere l’Italia, e la sua impertinente industria petrolifera, dai campi libici. Consiglio per la ricostruzione di questa storia, che qui non possiamo fare, il volume di Ilaria Tremolada, Nel Mare che ci unisce. Il petrolio nelle relazioni tra Italia e Libia, ed. Mimesis, 2015.
Possiamo dircelo sinceramente: l’unico in grado di tenere insieme questo puzzle è stato Gheddafi. Lo ha fatto, come tutti i dittatori “degni” di questo nome, con un mix animalescamente astuto di repressione, welfare ed equilibrismi tribali, ma lo ha fatto, almeno fino a quando non è stato travolto dall’offensiva militare franco-inglese, nel 2011. Iniziativa improvvida e maliziosamente anti-italiana. Dal giorno dopo, ovviamente, tutti quelli che avevano contribuito all’eliminazione di Gheddafi hanno cominciato a cercare uno che lo sostituisse, facendo esattamente il suo sporco mestiere: bloccare sulle coste libiche i disperati centro-africani pronti al balzo verso l’Europa ed anestetizzare le reti guerrigliero-criminali che dal Sahel li spingono verso nord. Chiaramente dietro congrua compensazione finanziaria.
Non avendo trovato un degno sostituto, la comunità internazionale ha finito con l’accontentarsi di una serie di succedanei di vario orientamento: Fayez Mustafa al-Serraj, già ministro di Gheddafi; Kalifa Ghwell, già leader di uno dei tanti governi di salvezza nazionale; Kalifa Haftar, già generale di Gheddafi poi passato a combatterlo per conto degli USA.
Serraj è riconosciuto come legittimo governo libico dalle Nazioni Unite e dalla UE, che hanno applaudito da Malta all’accordo Italo-“libico”. Non è mai riuscito ad insediarsi neppure nel suo ufficio, a Tripoli, e quando ci prova deve allontanarsi immediatamente per vivere fuori dalla Libia. Controlla, nel senso che milizie a lui fedeli a giorni alterni controllano, qualche decina di chilometri di costa nei pressi di Tripoli. Sarà anche sostenuto dall’Europa ma Francia e Regno Unito, per non sbagliare, hanno schierato proprie forze speciali in Cirenaica, controllata dal suo acerrimo nemico Haftar.
Ghwell, controlla il cosiddetto Gabinetto di Tripoli, che nei sogni di qualcuno doveva essere il governo di Serraj ma che si è sempre rifiutato di sottometterglisi; annuncia in continuazione di avere il controllo di Tripoli e l’occupazione di ministeri, peraltro in edifici distrutti da anni. È accreditato del controllo di alcune milizie di orientamento islamista che contendono a quelle di Serraj la riviera di Tripoli.
Haftar è considerato l’astro nascente dalla politica libica. Occupa una parte delle coste della Cirenaica, tra cui la cosiddetta mezzaluna petrolifera, e dichiara di controllare la città di Tobruk ma non riesce a prendere Bengasi. È sostenuto dall’Egitto e guardato con attenzione dalle altre nazioni europee. Negli ultimi sei mesi è stato almeno due volte a Mosca e nel gennaio scorso è stato ospite riverito sulla portaerei Admiral Kuznetsov, ammiraglia della flotta russa nel Mediterraneo.
A questo bisogna aggiungere, come condimento per l’insalata mista, due parlamenti e alcune milizie significative, quelle “di Misurata” – ad esempio – che vantano decine di migliaia di combattenti e la vittoria sull’Isis in terra libica, che si muovono secondo logiche in parte proprie e in parte a sostegno di qualcuno degli attori principali.
Di rilievo la notizia della sostituzione – al momento ipotetica per l’opposizione USA – dell’inviato dell’ONU per la Libia. Sarebbe il quarto in sei anni. Il nome proposto dal segretario ONU è quello di Salam Fayyad, primo ministro Palestinese dal 2007 al 2013 ma anche impiegato alla Banca Mondiale per 9 anni. La motivazione di questa proposta è abbastanza chiara: il tentativo di avvicinare Haftar e i suoi sponsor egiziani – certamente più a loro agio con un Palestinese, anche se tecnocrate, che con un diplomatico tedesco, come l’uscente Kobler – ad una gestione congiunta del calderone libico. Il veto americano, senza il quale la nomina sarebbe stata quasi ignorata dai media, risponde ad una logica che con la Libia c’entra quasi nulla. C’entra invece molto con Israele verso i quale Trump vuole chiaramente recuperare un rapporto privilegiato.
In questo bailamme l’Italia ha scelto come interlocutore privilegiato al-Serraj a capo del cosiddetto “Governo di Tripoli”. L’Europa plaude a questa scelta ma trama l’esatto contrario, l’ONU anche, gli USA sulla Libia interverranno strumentalmente e solo di sponda in funzione di interessi molto diversi da quelli italiani.
A questo punto, sottolineando nuovamente che i nostri la situazione la conoscono, le ipotesi politiche sembrano ridursi a due:
1) il Governo Italiano con questo accordo ha incassato una nuova riduzione di sovranità politica da parte delle potenze europee, accettando di parcheggiare la propria iniziativa diplomatica in Libia su di un binario morto per permettere agli anglo-francesi, magari con un pizzico di Germania, di provare a portare a termine il loro secolare progetto egemonico in Libia.
2) Il Governo ha deciso per l’ennesima volta di piegare la postura internazionale dell’Italia alle necessità politiche interne: pensando alle imminenti elezioni cerca di erodere gli argomenti dei “populisti”. All’interno di un più vasto spot sulla svolta nella gestione dell’emergenza migranti, che vede proprio Minniti come protagonista principale, un accordo, anche fasullo, di contrasto e rimpatrio con il “Governo libico”, fa sempre comodo.
Il bello è che queste ipotesi non sono alternative, possono benissimo convivere, in fondo hanno un fattore comune: in entrambi i casi non succede nulla.