Da “La nuova Bussola quotidiana” del 9 febbraio 2017. Foto da Crimeblog
Che Muhammed VI avesse desiderio di cambiare il volto dell’islam marocchino era evidente dal febbraio 2004 quando, dopo appena 5 anni di regno, aveva iniziato a scompaginare le carte sul tavolo promulgando la riforma della Mudawwana, il Codice di Statuto Personale, equivalente al nostro diritto di famiglia. La riforma, redatta già nel 2003, aveva dovuto aspettare il 2004 per ottenere l’ok dal Parlamento ed entrare in vigore dopo la firma del sovrano. Subito il giovane sovrano (all’epoca 39 anni e sposato da 2) aveva ricevuto plausi dai gruppi riformisti ma anche forti contestazioni da parte dei movimenti più conservatori. Toccare lo Statuto personale voleva dire toccare la parte del diritto più legata al dettato coranico. Eppure, la riforma aveva inserito una forte limitazione alla poligamia, l’abolizione del ripudio, sostituito dal divorzio davanti ad un giudice ed esteso anche alle donne, innalzato l’età del matrimonio da 15 a 18 anni e introdotto il reato di molestie sessuali.
Il sovrano era rimasto fermo nelle sue decisioni, anzi ha favorito altre piccole riforme come, pochi mesi fa, il divieto di produrre e vendere burqa, l’abito islamico che copre integralmente la donna.
E adesso, la notizia sull’abolizione della pena di morte per l’apostata dall’islam, ha fatto il giro del mondo in poche ore. Cosa è successo? Il Consiglio superiore degli Ulema, massimo organo rappresentativo degli intellettuali, dei conoscitori dell’islam nelle sue più recondite normative, potremmo dire l’Accademia delle scienze dell’islam, ha sentenziato – bontà loro – che chi si converte ad un’altra religione (l’apostata) non è più punibile con la pena di morte.
Il fatto ha certamente una sua rilevanza ma non per il Marocco. A molti infatti è sfuggito che in Marocco l’art. 16 del codice penale “prevede la pena di morte per fucilazione in caso di omicidio aggravato, tortura, rapina a mano armata, incendio criminale, tradimento, diserzione e, infine, attentato alla vita del Re”. Per l’apostata è prevista al massimo una detenzione fino a tre anni di carcere. E allora perché tanto scalpore?
Per due motivi fondamentali:
1. Il Marocco ha una dinastia regnante, quella degli Alewiti, che rivendica una discendenza diretta dal Profeta e quindi è l’unica, insieme al quella della Giordania, ad avere una legittimità di potere riconosciuta da tutto il mondo sunnita. Il Re del Marocco si può fregiare del titolo di “principe dei credenti” e quindi le sue posizioni hanno un’influenza significativa su tutto l’islam.
2. C’è sempre stata una certa discrepanza fra il Codice e la sua applicazione concreta. Quello che il Codice dice va poi interpretato e applicato dal giudice nello specifico caso e molti e spesso un certo conservatorismo della magistratura aveva vanificato le nuove disposizioni legislative, provocando una scarsa applicazione delle novità introdotte dalla Mudawwana. Anche sul problema apostasia, durante un viaggio in Marocco, mi era stato spiegato che il codice non prevedeva la pena di morte ma che nella realtà non puniva neanche il familiare che si fosse personalmente reso applicatore della shari‘a. Cioè, il tribunale non ti condanna se ti converti al cristianesimo ma se un tuo cugino ti uccide non punisce neanche lui, lasciando così il problema dell’apostata nelle mani dei parenti diretti. L’intervento del Consiglio degli ulema, non i giudici civili, ma i “dotti” dell’islam, rende significativa la decisione. In verità nel Corano non si parla di pena di morte per gli apostati, anche se il loro gesto è certamente esecrato. La tradizione fa riferimento ad un famoso hadith in cui il Profeta avrebbe sentenziato “chi cambia religione uccidetelo”.
Ora viene evidenziato che l’indicazione del Profeta era riferita ad un contesto di guerra, quando il convertito diventava di fatto un traditore e quindi, in quanto tale, doveva essere sottoposto alla legge marziale. Ma il problema è reale? Ci sono tanti convertiti? La cronaca marocchina è piena di casi di arresti per conversione o proselitismo quindi il fenomeno esiste. La Chiesa cattolica ha sempre fatto molta attenzione e mantenuto molto riserbo nei confronti dei convertiti proprio per evitare a loro e alle loro famiglie ripercussioni di diversa natura. Ora il clima sarà più sereno ma occorre che anche il codice penale proceda ad una riforma al riguardo. Resta in sospeso un problema: nulla si dice riguardo alle pene riservate al promotore della conversione. Infatti anche chi aiuta, o invita, un musulmano a convertirsi è severamente punibile. Rimarrà la pena per chi farà proselitismo? O finalmente il Marocco si sta avviando a introdurre una vera libertà religiosa al proprio interno? Lo scorso anno, proprio in Marocco si era tenuta una conferenza internazionale per la difesa delle minoranze religiose nei paesi islamici sfociata nella Marrakesh Declaration. Quanto di questa Dichiarazione è stato recepito nei Paesi islamici?
Oggi, la sentenza (fatwa) del Consiglio degli Ulema è importante e, forse, sarà più ascoltata e applicata di quanto non siano le leggi civili. Proprio sulla formazione degli intellettuali e delle guide della preghiera, gli imam, il re Muhammed VI aveva voluto dare un segnale importante fondando la prima Accademia araba per la Formazione di Imam anti-jihadisti. Sua volontà era favorire la formazione di persone colte, di buoni conoscitori del Corano e quindi buoni sostenitori della moderazione e del dialogo con le altre confessioni religiose, in una sereno confronto, come già auspicato dal padre, Hassan II, che aveva aperto le porte dello stadio di Casablanca a 80.000 giovani venuti ad ascoltare il Papa, san Giovanni Paolo II il 19 agosto del 1985.
Posizione facile quella del Marocco? No di certo. Oggi la rivendicazione di un islam fortemente identitario è sempre più diffusa, l’islam radicale, quello salafita-jihadista, accusa di tradimento tutti i governi arabi e il pericolo dell’attentato è sempre presente. Il sovrano del Marocco deve mantenere un difficile equilibrio fra le tendenze riformiste e quelle conservatrici, promuovendo un lento ma necessario processo di rilettura del Corano, di ripresa dell’ijtihad (sforzo interpretativo) nel tentativo di approfondirne gli aspetti più consoni ad una pacifica convivenza con il resto del mondo. Cammino lungo e faticoso anche perché molti sono i passi ancora da fare e non basta qualche passettino in Marocco perché si possa parlare di libertà religiosa e di diritti umani rispettati nei paesi islamici.
Silvia Scaranari