Domenico Airoma, Cristianità n. 343-344 (2007)
“C’è una crisi dell’Europa?”. Con questo interrogativo esordisce Massimo Introvigne nell’Introduzione (pp. 7-9) alla sua nuova opera: Il segreto dell’Europa. Guida alla riscoperta delle radici cristiane. Sulla scia de Il dramma dell’Europa senza Cristo. Il relativismo europeo nello scontro di civiltà (Sugarco, Milano 2006, di cui cfr. la mia recensione, in Cristianità, anno XXXIV, n. 337-338, settembre-dicembre 2006, pp. 52-53) , dove il direttore del CESNUR, il Centro Studi sulle Nuove Religioni, lasciava la prospettiva value free per “scendere in campo“, Il segreto dell’Europa. Guida alla riscoperta delle radici cristiane vuol essere un manuale da utilizzarsi“anche come percorso educativo per seminari e gruppi” (p. 8) e, al contempo, fornire al lettore materiali di riflessione sulla crisi dell’Europa e, soprattutto, sulle vie da seguire per uscirne. La stessa struttura — articolata in otto conversazioni o tappe, ognuna delle quali chiusa da agili monografie, presentate sotto forma di letture — si presta sia a fare da traccia per i formatori, sia ad accompagnare i lettori in una sorta di viaggio storico nella decadenza della civiltà europea, con l’obiettivo d’indicare concreti segnali di speranza che spingano all’azione. “Perché — come insegna lo stesso Benedetto XVI — “accendere un fiammifero vale più che maledire l’oscurità”” (p. 9).
Nella prima tappa, L’Europa “sembra volersi congedare dalla storia” (pp. 11-20), l’autore risponde alla domanda d’esordio: “C’è una crisi dell’Europa?”, con le parole utilizzate da Papa Benedetto XVI in occasione del discorso tenuto alla Curia Romana il 23 dicembre 2006: “[…] quest’Europa sembra essere stanca, anzi sembra volersi congedare dalla storia” (p. 11). Successivamente, si sofferma ad analizzare i segni di questa crisi depressiva, sempre traendoli dal magistero del Regnante Pontefice: il primo segno ha le caratteristiche di una stanchezza di tipo metafisico, propria “[…] di chi non ha più identità, di chi — di fronte all’aggressione esterna — si sente svuotato da ogni energia perché non trova più i motivi per resistere” (p. 12); accanto a questo, che è il volto dell’Europa, cioè l’immagine percepita dall’esterno, vi è poi l’aspetto introflesso del Vecchio Continente, fatto di nazioni che hanno separato la legge dalla morale, scivolando rovinosamente sul piano inclinato di una legislazione disancorata da un ordine oggettivo e naturale; infine, il terzo aspetto della crisi è costituito dalla perdita progressiva di fiducia nel futuro, rappresentata dal suicidio demografico. Di tale ultimo versante della crisi, l’autore indaga le cause più profonde: un pessimo rapporto con il tempo, ritenuto appena bastevole per godersi la propria vita e quindi non suscettibile di condivisione con altri, figli in primis; la crisi dell’educazione, che alimenta la paura di avere la responsabilità di qualcuno da educare; una disperazione radicale, che attiene al senso stesso dell’umanità e che induce a chiedersi se è davvero una cosa buona essere uomo.
La prima conversazione si conclude con una lettura, La malattia dell’Occidente. L’11 Settembre e le teorie del complotto (pp. 21-54), dedicata a una delle più inquietanti manifestazioni della malattia dell’Europa e, più in generale, dell’Occidente: la tesi, cioè, che vuole che l’11 Settembre non sia stata opera dell’ultra-fondamentalismo islamico, bensì dello stesso Occidente. Dopo aver svolto un rapido excursus sul complottismo, l’autore si sofferma sulle tattiche complottiste, sulle modalità cioè attraverso le quali il cosiddetto “rejected knowledge” (p. 21), la “conoscenza scartata”, ovvero “[…] le ipotesi che la comunità scientifica nella sua vasta maggioranza […] ha respinto come spiegazioni false o inadeguate della realtà” (p. 21), si diffonde fino a formare un “Truth Movement” (p. 25), un “Movimento della Verità”, che evoca per molti profili di tipo sociologico i nuovi movimenti religiosi più controversi. Con efficacia espositiva e, soprattutto, con la consueta abbondanza d’informazioni, l’autore illustra e smonta le varie tesi complottistiche sorte dalle ceneri delle Torri Gemelle, soffermandosi su quelle più diffuse — perché presentate sotto forma di obiezioni tecniche — sui siti internet e in centinaia di pubblicazioni. Senza tralasciare, tuttavia, altre tesi meno “autorevoli” ma altrettanto se non più diffuse: da quella di David Icke, ex portiere della squadra di calcio del Coventry City, che ascrive la responsabilità dell’attentato a un complotto ordito da vampiri “rettiliani”, extraterrestri cui apparterrebbe lo stesso George Walker Bush, alle tesi ancora più esotiche del giornalista Greg Szymanski che inscrive l’11 Settembre in un più ampio disegno, volto a scatenare la guerra fra Occidente e Islam, ordito, fra gli altri, dall’allora cardinale Joseph Ratzinger e dallo stesso Introvigne.
Nella seconda conversazione, Le cause della crisi dell’Europa (pp. 55-65), l’autore passa dai sintomi della malattia alle cause, incominciando a muovere i primi passi nella travagliata storia della decadenza della civiltà europea dalla Prima Guerra Mondiale. Questa “inutile strage”, secondo la definizione di Papa Benedetto XV (1914-1922) ripresa dal regnante pontefice in occasione del 90° anniversario della sanguinosa battaglia di Verdun, segna — dal punto di vista della storia militare — la separazione fra guerra e morale, ma, ancor più significativamente, rappresenta il punto di arrivo di un lungo processo di separazione dell’idea di patria e nazione dalle radici religiose, proiettando una luce sinistra sul futuro del secolo. All’origine, tuttavia, vi è un divorzio ancor più radicale, quello fra ragione e fede. Attingendo a piene mani al discorso tenuto da Benedetto XVI a Ratisbona il 12 settembre 2006, Introvigne osserva come, ancora una volta, l’islam serva all’Europa come elemento di contrasto, per far emergere ciò che essa dovrebbe essere ma purtroppo non è. Dinanzi a una religione, quella islamica, che svaluta la ragione non ritenendola “al principio di tutte le cose e a loro fondamento” (p. 59), così da aprire la strada a un volontarismo suscettibile di scivolare nella violenza dell’ultra-fondamentalismo, è indispensabile ricuperare “[…] una fiducia nella ragione come strumento capace di conoscere la verità” (pp. 58-59). “Se non crediamo che alcune proposizioni possano essere vere — osserva l’autore, riprendendo le parole usate dal Regnante Pontefice a Vienna nel settembre del 2007—, se anzi sosteniamo che non esistono in assoluto affermazioni vere, allora anche tesi come “Dio ci salva” o “Gesù è Dio” non possono essere vere, perché nessuna tesi lo è. Ecco dunque perché si deve partire dalla ragione, e perché ci si trova oggi in una situazione paradossale in cui è la Chiesa a doversi fare carico di difendere la ragione” (p. 59). Se non esiste “la” verità, non esistono neppure “le” verità, né valori universali, comuni a tutti, credenti e non, accessibili con l’uso di ragione: saltano “le regole del gioco chiamato società” (p. 62) e, con esse, ogni prospettiva di pace duratura.
La ragione prima della fede, dunque; ma, altrettanto chiaramente, la ragione distinta dalla fede.
Altro snodo essenziale, infatti, nell’eziologia della crisi dell’Europa è il corretto rapporto fede-ragione: né confusione, anticamera del fondamentalismo, né opposizione, sostanza, invece, del laicismo; bensì, feconda collaborazione che nasce dall’incontro di entrambe nello stesso soggetto, la persona umana.
La conversazione si chiude con una lettura, Esalen: splendore e miseria del multiculturalismo (pp. 66-73), dedicata a una comunità, che prende il nome da una semi estinta tribù indiana, situata nella California del Sud, a circa duecento chilometri da San Francisco. Attiva dal 1962, Esalen organizza ogni anno centinaia di seminari aventi a oggetto lo studio comparato delle religioni. Oltre ai controversi rapporti con Scientology, l’autore mette in luce l’impostazione di fondo che anima la comunità californiana: una visione di tipo panenteistico che, partendo dalle religioni tradizionali, considerate ormai non solo inutili ma addirittura dannose, aspira a riscoprire una religiosità originaria, “[…] una religione della non religione, che affonda le radici nel trantismo […] riletto alla luce dell’evoluzionismo […] e della sinistra freudiana di Wilhelm Reich” (pp. 68-69). La descrizione della storia di Esalen, con i relativi miti di fondazione, e, soprattutto, la vicenda occorsa allo stesso Introvigne invitato a partecipare dalla comunità al terzo simposio sulla tradizione esoterica, chiariscono bene quanto uno dei suoi animatori, l’indologo della Rice University, Jeffrey J. Kripal, sostiene a proposito della mission del centro: “[…] la costruzione e la cura di una comunità gnostica […] che elabora brandelli di una nuova visione del mondo emergente” (p. 72).
La terza tappa, Europa: malattia o funerale? (p. 74-93), dischiude alla riflessione del lettore scenari di speranza che lasciano intravedere percorsi di guarigione per un’Europa malata sì, ma non morta. Accanto, infatti, a uno scenario teologico — che ci fa dire che, in ogni tempo e in ogni luogo, la guarigione è possibile —, quel che rincuora dell’Europa, e in generale dell’Occidente — e ne costituisce in buona parte il segreto — è uno scenario sociologico che, a dispetto di una secolarizzazione qualitativa, rappresentata da una desacralizzazione ovvero da una scristianizzazione della vita culturale e politica, e quantitativa, insita nella diminuzione della percentuale dei credenti, fa registrare incoraggianti inversioni di tendenza. L’autore esamina, in particolare, l’“eccezione italiana” (p.76), caratterizzata dall’incidenza, ampiamente significativa, del cattolicesimo sulla cultura e sulla vita politica; fenomeni come quello dei cosiddetti “atei devoti” — intellettuali non credenti che condividono e diffondono gl’insegnamenti della Chiesa in materia di morale naturale — testimoniano la vitalità nella società italiana della tradizione cattolica. L’apparente contraddizione che emerge dall’avere — dapprima — denunciato lo spegnersi dell’Europa cristiana e dall’avere — successivamente — esaltato vividi focolai di cristianità, viene risolta dall’autore richiamando le tesi della sociologa inglese Grace Davie, a proposito del rapporto fra religione e modernità. Introducendo la categoria del “believing without belonging (credere senza appartenere)” (p. 80), cui possono essere ascritti oltre metà degli europei, la studiosa, autrice del manuale The sociology of the religion, offre, da un lato, una chiave di lettura utilizzabile per fatti come il Family Day del 12 maggio 2007 o l’esito del referendum sulla fecondazione assistita del giugno 2005, altrimenti inspiegabili secondo i parametri della secolarizzazione quantitativa e qualitativa, e, dall’altro, mostra come una nuova evangelizzazione del continente europeo sia possibile.
La conversazione è chiusa da una lettura, Il disegno sociologico intelligente di Rodney Stark (pp. 84-93), dedicata all’ultima fatica di “uno dei più grandi sociologi viventi” (p. 84), Discovering God, “[…] un’opera monumentale destinata a fare epoca non solo per l’ambizione di portare uno sguardo sociologico sull’intera storia delle grandi religioni, dalla preistoria al fondamentalismo islamico, ma per il carattere molto politicamente scorretto delle conclusioni cui perviene” (ibidem). Attaccando frontalmente la prospettiva value free, Stark svela l’inganno di molti sociologi delle religioni, i quali, ostentando neutralità, “[…] si sono in realtà schierati in modo militante per sostenere che Dio non esiste, che le religioni sono illusioni, che al massimo sono tollerabili religioni “senza Dio” come il buddismo o il confucianesimo (delle élite) o è simpatico l’islam perché dà noia a quell’Occidente che certi accademici amano ancora meno della religione” (p. 90). Sulla scia di tale radicale mutamento di prospettiva, Stark giunge a sostenere l’esistenza di un disegno intelligente anche nella storia delle religioni, che assume così le caratteristiche della “storia della rivelazione progressiva di Dio” (p. 91); una storia in cui “la fede rivelata nel Corano è moralmente e teologicamente regressiva. Rispetto ai monoteismi precedenti, la nozione musulmana di Dio — imprevedibile e così inconoscibile che non si può neppure dare per scontato che sia ragionevole o virtuoso — rappresenta una fase di decadenza” (p. 92).
La quarta conversazione, Ritorno a Roma (pp. 94-104), affronta in esordio la questione relativa alle cosiddette “religioni del Libro” per contestare l’appartenenza a questa categoria, accanto a ebraismo e a islam, del cristianesimo, dal momento che per i cristiani Dio non si è incarnato in un libro, bensì in una persona, Gesù Cristo, che, peraltro, osserva ancora l’autore, non ha scritto nulla, ma ha costituito una comunità. A tale proposito, vengono svolte alcune riflessioni sull’opera di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazareth, ponendone in luce il carattere dirimente rispetto alle “acrobazie e le chiacchiere” (p. 96) dei teologi progressisti, secondo cui Gesù si sarebbe presentato non come Dio, ma, più semplicemente, come l’annunciatore di un imminente futuro escatologico. Il cristianesimo — sottolinea Introvigne — riposa su un fatto storico, l’incarnazione della seconda persona della SS. Trinità, che è per ogni tempo e per ogni uomo: da questo fatto vengono tratte una serie di conseguenze in tema di magistero e di missionarietà della Chiesa, e, in modo particolare, sulle modalità attraverso le quali la Chiesa di Roma si fa incontrare nella storia. Un’attenzione specifica viene, poi, riservata a una modalità missionaria peculiare, quella dei movimenti e, fra questi, ad Alleanza Cattolica, associazione di cui l’autore fa parte, descritta quale agenzia in cerca non solo di semplici ascoltatori, ma di persone che s’impegnino a trasmettere agli altri quanto hanno ricevuto, affrontando quei “[…] percorsi, basati su seri tirocini di vita ecclesiale, in particolare sullo studio della dottrina sociale di cui parla Giovanni Paolo II nella sua Esortazione apostolica post-sinodale Ecclesia in Europa”(p. 104).
A conclusione della tappa, vengono presentate due letture, la prima dedicata al Vangelo di Giuda — Il Vangelo di Giuda: “patacca” o scoperta? (pp. 105-116) — e la seconda all’opera di Morton Smith — Morton Smith e la truffa del Vangelo segreto di Marco (pp. 116-119). Entrambe forniscono lo spunto per svolgere alcune riflessioni sul movimento gnostico — di cui il Vangelo di Giuda è espressione — e, soprattutto, per ritornare su Il Codice da Vinci di Dan Brown, soffermandosi sulla polemica fra Stephen C. Carlson, “un avvocato specializzato in contraffazioni e documenti falsi”(p. 116) e il docente di storia della Chiesa, professore alla Columbia University di New York, Morton Smith. Nell’intento di difendere la versione del Gesù sposato con la Maddalena e con figli di Dan Brown, Carlson attacca i seguaci di Smith, secondo i quali, invece, Gesù era a capo di una conventicola esoterica i cui riti d’iniziazione presentavano caratteri chiaramente omosessuali. Una polemica tanto poco scientifica quanto assai desolante, che induce a ritenere un’autentica benedizione il Gesù di Nazareth di Papa Benedetto XVI.
Dopo aver esaminato i sintomi e l’eziologia della malattia da cui è affetta l’Europa e aver esaltato i primi segnali di guarigione, l’autore dedica le successive conversazioni agli errori che bisogna evitare e, soprattutto, alle coordinate da seguire nel faticoso itinerario di risalita.
La quinta e la sesta conversazione ritornano, infatti, sulla storia dell’Europa, ponendone in luce gli snodi essenziali, che hanno segnato l’incubazione e l’esplosione della malattia. In particolare è interessante la rilettura del percorso di de-ellenizzazione dell’Europa come processo rivoluzionario secondo le categorie offerte dal pensatore brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995).
La quinta tappa, Da Ratisbona una luce sulla storia (pp. 120-129), contiene, infatti, le riflessioni sulle prime due tappe di questo processo, la rivoluzione protestante e quella del 1789. Entrambe rispondono in modo errato a un’esigenza di riequilibrio fra fede e ragione, esaltando unilateralmente dapprima l’una e poi l’altra. Con la conseguenza di trasformare la fede in fideismo, anticamera del fondamentalismo, e la ragione in razionalismo, primo passo verso il totalitarismo. Notevoli sono anche le conseguenze sociali e politiche, passate in rassegna dall’autore, come esiti ulteriori di tale frattura. La svalutazione della ragione, portato della rivoluzione protestante, apre le porte al volontarismo e all’arbitrio del principe; il ridimensionamento della fede, anzitutto nel suo rimando a un ordine oggettivo e preesistente, fa sì che la ragione si erga a misura di tutte le cose. Tale ultimo esito travolge in modo brutale — e il Terrore giacobino ne è dimostrazione — quel momento esigenziale che si era posto come reazione all’assolutismo politico scaturito dalla precedente fase del processo rivoluzionario; momento esigenziale che, viceversa, trova ben altro e più felice esito nell’illuminismo anglosassone, motore della rivoluzione americana.
Le letture che seguono la quinta conversazione intendono mostrare “[…] come il laicismo della Rivoluzione francese ha prodotto generazioni di uomini politici europei […] che non amano l’identità dell’Europa e dell’Occidente, e a causa di quest’antipatia sviluppano uno strano rapporto con l’islam dei dittatori e degli attivisti ultra-fondamentalisti” (p. 130).
La prima, L’uomo che non amava l’Occidente (pp. 130-133), è il ritratto assai gustoso di Jacques Chirac, della sua storia, della sua formazione, del suo rapporto conflittuale con gli Stati Uniti d’America e, viceversa, di solidarietà con Saddam Hussein, del quale l’ex presidente francese arriva a giustificare anche l’uso del gas contro i curdi, paragonato alla lotta dei Bleus, i soldati della repressione giacobina, contro i Vandeani.
Nella seconda, Bat Ye’or e l’idea di Eurabia (pp. 133-138), Introvigne presenta la figura e l’opera di Gisèle Littman, giornalista e scrittrice ebrea, nata in Egitto e rifugiatasi a Londra nel 1957, nota con lo pseudonimo di “Figlia del Nilo”, in ebraico Bat Ye’or. Inventrice, fra l’altro, del termine “Eurabia”, poi utilizzato con successo da Oriana Fallaci (1929-2006), la Littman si è impegnata con grande incisività nello svelare la portata proditoria per l’Occidente del dialogo euro-arabo, ponendone in evidenza caratteristiche che richiamano alla mente molto da vicino quelle già individuate da Corrêa de Oliveira a proposito del dialogo fra cattolicesimo e comunismo nell’opera Trasbordo ideologico inavvertito e dialogo (trad. it., Edizione de L’Alfiere, Napoli 1970).
La terza lettura, La religione come antidoto al totalitarismo: leggere Michael Burleigh (pp. 138-141), è dedicata alla presentazione dello storico inglese, allievo di Eric Voegelin (1901-1985). In particolare, Introvigne pone in evidenza la chiave di lettura della storia europea proposta nelle opere Earthly Powers e Sacred Causes e individuata nel conflitto fra le religioni in senso proprio e le “religioni politiche”, nate dalla pretesa della ragione, liberatasi dalla fede, di dare risposte anche alle grandi domande sulla vita e sul destino dell’uomo.
La sesta conversazione, L’epoca della morte e del disonore (pp. 142-150), prosegue nell’analisi del processo rivoluzionario, esaminandone le ulteriori due fasi: il comunismo e il relativismo libertario, dove la rottura del rapporto fede-ragione assume le vesti della crisi del rapporto singolo-comunità. Ancora una volta l’andamento è pendolare: a una domanda di restaurazione dei diritti sociali contro la sregolata affermazione dell’individuo, la risposta è, nel marxismo, l’attribuzione originaria di tutti i diritti allo Stato. Al collettivismo socialista fa, poi, seguito una reazione improntata al più radicale soggettivismo, sostrato della rivoluzione culturale del 1968.
A chiusura della tappa, due letture che intendono offrire solidi argomenti storici per ristabilire la verità dei fatti con riferimento a due vicende: la natura comunista del governo birmano e il cannibalismo conosciuto dai regimi comunisti sovietico e cinese. Nella prima, La Birmania? Chiamiamolo comunismo (pp. 151-154), l’autore illustra con dovizia d’informazioni storiche, il carattere di tipico regime comunista del regime birmano. La seconda, Quando i comunisti mangiavano (per davvero) i bambini (pp. 155-160), descrive, attingendo a fonti interne allo stesso apparato di partito, episodi di cannibalismo per nulla isolati e, per certi aspetti, addirittura “rituali”, verificatisi nell’Unione Sovietica e nella Cina comunista.
La settima conversazione, La memoria e la speranza (pp. 161-173), ripercorre le fasi del processo rivoluzionario, guardando a quanti hanno combattuto dalla parte giusta: dalla Contro-Riforma cattolica alla Contro-rivoluzione, dall’anti-comunismo all’anti-relativismo. Per ricuperare la memoria storica di uomini e di battaglie, di martiri d’insorgenze, ma anche per evitare di ripercorrere strade sbagliate, nella vita sociale, culturale, politica e nella stessa vita della Chiesa. A tale ultimo riguardo, l’autore riporta il magistero di Papa Benedetto XVI con particolare riferimento alla condanna della tesi, che per molto tempo ha dominato il dibattito intraecclesiale, secondo cui vi sarebbero due ermeneutiche del Concilio Ecumenico Vaticano II (1963-1965). Il Pontefice non lascia spazio a dubbi: l’unica ermeneutica possibile è quella della continuità fra tale Concilio e magistero precedente; nella medesima prospettiva deve inquadrarsi anche il Motu Proprio Summorum Pontificum, pubblicato il 7 luglio 2007, che liberalizza la possibilità di celebrare la liturgia detta di San Pio V.
La conversazione si chiude con una lettura, I Cristeros: fu davvero guerra di religione (pp. 174-180) dedicata alla guerra combattuta dal 1926 al 1928 dagl’insorgenti messicani contro la persecuzione anti-cattolica scatenata dal presidente Plutarco Elías Calles. L’autore, dopo aver passato in rassegna i principali filoni interpretativi di tipo riduzionistico, accomunati cioè dalla svalutazione della causale religiosa a favore di spinte di tipo economico, si sofferma sui più recenti studi che finalmente mettono in luce “il carattere primario della motivazione religiosa” (p.175). In particolare, Introvigne sottopone alla riflessione del lettore l’opera del sociologo inglese Matthew Butler, soprattutto per la puntuale ricostruzione della presenza protestante nel Messico degli anni 1920, utile per spiegare il processo di secolarizzazione che aveva interessato la società messicana e l’affermarsi di un diffuso anticlericalismo politico.
Nell’ultima tappa, Il magistero e la politica (pp. 181-193), l’autore si pone in esordio una domanda: È giusto interessarsi di politica?; più specificamente, è giusto che i cattolici s’interessino di politica e, ancora, quali coordinate devono seguire i cattolici in politica? Per rispondere Introvigne richiama le parole pronunciate da Papa Benedetto XVI al Convegno nazionale della Chiesa italiana dell’ottobre 2006 a Verona: “[…] il compito immediato di agire in ambito politico per costruire un giusto ordine nella società non è dunque della Chiesa come tale, ma dei fedeli laici, che operano come cittadini sotto propria responsabilità: si tratta di un compito della più grande importanza, al quale i cristiani laici italiani sono chiamati a dedicarsi con generosità e con coraggio, illuminati dalla fede e dal magistero della Chiesa e animati dalla carità di Cristo” (p. 182). Quindi, al magistero spetta indicare i princìpi, ai laici compiere scelte coerenti con quelli. Proprio su tale vincolo di mandato l’autore si sofferma, denunciando tutte quelle scelte politiche che non risultano conformi ai princìpi che il magistero indica come non negoziabili: libertà religiosa, diritto alla vita, diritti della famiglia eterosessuale e libertà di educazione. Da respingere, dunque, “senza se e senza ma” è la prospettiva che considera unico valore non negoziabile della democrazia la volontà della maggioranza, contro la quale vale opporre l’argomento, utilizzato dagl’insegnanti di logica statunitensi, della cosiddetta “reductio ad Hitlerum” (p. 188), e cioè il fatto che fu la maggioranza degli elettori a consegnare il potere nelle mani di Adolf Hitler (1889-1945).
A chiusura dell’ultima conversazione e dell’intero cammino, una lettura — Il montanaro che scalò la Cina (pp. 194- 198) — dedicata all’evangelizzazione della Cina, ma non solo. Partendo da un dato, poco diffuso dalle statistiche ufficiali, secondo cui il cristianesimo si sta avviando a diventare in Cina la religione di maggioranza relativa, l’autore riflette sul come si è diffuso il cristianesimo in Cina e, in modo particolare, su chi ha fornito un deciso impulso alla sua diffusione a partire dal secolo XIX. Qui si staglia la figura di san Giuseppe Freinademetz (1852-1908), che, da viceparroco di un borgo di montagna, divenne uno dei più grandi missionari in Cina al seguito di un altro santo, il tedesco Arnold Janssen (1837-1909), fondatore dei Missionari Verbiti. Alla sua morte quel missionario, partito dalla Val Badia, lasciava 40.000 cattolici dove ne aveva trovato appena 158. Soprattutto, lasciava per noi europei un mandato profeticamente impegnativo: “[…] il maggior flagello per noi e pei poveri Cinesi cominciano ad essere tanti europei senza fede e perfettamente corrotti” (p. 197); “Oh che la povera Europa non è sicuramente cristiana! Se lo fosse io credo tutta la China [sic] si farebbe cristiana” (ibidem).
Domenico Airoma