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Mauro Ronco, Princìpi del diritto penale e certezze del senso comune, in “Aquinas”. Rivista Internazionale di Filosofia a cura della Pontificia Università Lateranense, anno L, n. 2, Lateran University Press, Città del Vaticano 2007, pp. 545-888 (pp. 623-654), € 24,00

23 Agosto 2008 - Autore: Alleanza Cattolica

Domenico Airoma, Cristianità 347-348 (2008)

 

 

Può la pena esprimere un dovere di giustizia connaturale all’uomo?

Può la pena rappresentare un valore?

Attorno a questi interrogativi fondamentali ruotano le riflessioni svolte da Mauro Ronco in Princìpi del diritto penale e certezze del senso comune.

Mauro Ronco nasce a Torino nel 1946. Laureato in Giurisprudenza nel 1971 con una tesi su Il nazionalismo giuridico di Alfredo Rocco legislatore penale, relatore il professor Marcello Gallo, nel 1975 è assistente ordinario presso la cattedra di Diritto Penale della facoltà di Giurisprudenza, poi professore associato di Diritto Penale Comparato, successivamente professore di Diritto Penale nelle università di Cagliari e di Modena, sede quest’ultima dove è pure docente di Istituzioni di Diritto Pubblico e di Filosofia del Diritto presso l’Accademia Militare. Attualmente è professore ordinario di Diritto Penale nell’Università di Padova. Procuratore legale dal 1974 e avvocato dal 1980, svolge la professione forense come penalista ed è presidente dell’Ordine degli Avvocati di Torino. È stato componente del Consiglio Superiore della Magistratura.

A lui si devono pubblicazioni di grande interesse in ambito penalistico, fra le quali si segnalano le monografie Il principio di tipicità della fattispecie penale nell’ordinamento vigente (Giappichelli, Torino 1979), L’azione “personale”. Contributo all’interpretazione dell’art. 27 comma 1° Costituzione (G. Bessone, Torino 1984), Il controllo penale degli stupefacenti. Verso la riforma della L. n. 685/1975 (Jovene, Napoli 1990; su cui cfr. l’intervista all’autore “Il controllo penale degli stupefacenti”, a cura di Alfredo Mantovano, in Cristianità, anno XIX, n. 190, febbraio 1991, pp. 11-13) e, da ultimo, Il problema della pena. Alcuni profili relativi allo sviluppo della riflessione sulla pena (Giappichelli, Torino 1996; cfr. la recensione di Massimo Introvigne, in Cristianità, anno XXV, n. 263, pp. 22-24). Ha diretto per le Edizioni UTET di Torino il Codice Penale Ipertestuale (2003; 2a ed. 2007) e il Codice Penale Ipertestuale. Leggi complementari (2007), nonché per l’Editore Zanichelli di Bologna il Commentario sistematico al Codice Penale (2006-2007).

Dal 1968 milita in Alleanza Cattolica, di cui è socio fondatore e responsabile piemontese. È autore di articoli su argomenti giuridici e di filosofia del diritto apparsi in Cristianità.

L’obiettivo perseguito dall’autore, chiaro e altrettanto francamente dichiarato, è quello di dimostrare la radicale fallacia della mentalità del giurista moderno, “[…] fuorviata dall’assuefazione a secoli di volontarismo e positivismo giuridico, sì da non riuscire più a scorgere il nesso tra lo iustum come res iusta e la virtù della giustizia come forza impressa nella natura umana che, inclinando l’uomo alla realizzazione dello iustum, lo induce a respingere il male, defendendo aut ulciscendo, realizzando la difesa tanto nei confronti della ingiustizia ancora in divenire, quanto irrogando la punizione del male compiuto” (p. 647).

Poste tali premesse, si comprende per quale ragione l’autore ritenga di dover prendere le mosse proprio dalle opere di Giambattista Vico (1668-1744): il filosofo napoletano, infatti, a differenza di Ugo Grozio (1583-1645), di Samuel Pufendorf (1632-1694) e Thomas Hobbes (1588-1679), considerati quali punti di riferimento originari dalla moderna filosofia del diritto, ricerca nel corso delle vicende storiche dell’umanità “il filo ermeneutico che congiunge le prove filosofiche con le prove filologiche” (p. 623), nella consapevolezza che fra esse corra “un circolo di reciproca illuminazione” (p. 623), fondato sull’assioma per cui factum et verum convertuntur.

L’esito di tale percorso ermeneutico compiuto da Vico è rappresentato dalla possibilità d’individuare idee comuni a tutti i popoli; il che sta a dimostrare che, “[…] pur attraverso le trasformazioni culturali, la mente umana [è] essenzialmente identica a sé stessa” (p. 624) e che tali princìpi universali, per il fatto di essere ricorrenti nonostante l’oltraggio patito da “prassi attuative grossolane, crudeli e ignobili” (p. 626), costituiscono verità “il cui rifiuto o la cui dimenticanza porterebbero il mondo allo stato selvaggio o addirittura lo sprofonderebbero nell’abisso del nulla” (p. 626).

La scoperta vichiana, “fondata sull’intuizione di un senso comune a tutta l’umanità, come ambito di certezze che derivano direttamente dall’esperienza in quanto tale, non mediate da una riflessione culturalmente condizionata, connaturali all’intelligenza umana e, dunque, universali nel tempo e nello spazio” (p. 626), trova un indispensabile supporto nella filologia; in particolare, nella “constatazione che “tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque, per immensi spazi di luoghi e tempi tra loro lontane, divisamente fondate” custodiscono sempre “questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono matrimoni solenni, tutte seppelliscono i loro morti”” (pp. 626-627).

E proprio sul terreno del senso comune, così come definito da Vico, Ronco cerca di riportare e di fondare i princìpi del diritto penale, in ciò costituendo un’assoluta novità nel panorama della scienza giuridica contemporanea.

Seguendo, infatti, l’insegnamento vichiano, l’autore conduce un esame comparato delle consuetudini praticate dagli antichi israeliti, greci e romani, ponendo in evidenza il significato retributivo assegnato alla pena da quei popoli, inteso sia come necessità di restaurazione dell’ordine leso dall’atto criminale che come esigenza di purificazione per lo stesso colpevole.

Ultimato lo studio filologico, l’autore, sempre utilizzando il metodo vichiano, ne ricerca i riscontri filosofici, nella consapevolezza che se, per un verso, “il certo filologico conforta il vero filosofico”, “questo a sua volta rafforza l’autorità di quello” (p. 642).

In tal modo, vengono individuati gli snodi fondamentali di ogni ragionamento intorno alla realtà intima della pena.

Innanzitutto, il delitto come atto con cui l’autore abusa della sua libertà; in secondo luogo, la condizione di separazione da Dio e dagli uomini in cui il reo viene a trovarsi per il fatto stesso del delitto e il conseguente sentimento di abbandono — dati costitutivi della cosiddetta pena naturale —; inoltre, il dovere di riaffermare l’ordine di giustizia violato — che rappresenta la sostanza della cosiddetta pena giuridica —; infine, l’efficacia purificatoria e riconciliatrice della sanzione.

Gl’interrogativi di esordio trovano così risposta; una risposta dal carattere fondativo, in grado di conferire basi nuove e nuove prospettive al discorso intorno alla pena.

Non senza considerare l’apporto decisivo che l’accadimento cristiano conferisce soprattutto all’esaltazione della pena come valore “[…] che, seppure inidonea a pareggiare il valore di ciò che è stato ingiustamente annientato, esprime tuttavia […] la compartecipazione dell’uomo colpevole alla sofferenza di Colui che ha pareggiato, una volta per tutte e con efficacia verso tutti, il conto della colpa” (p. 654).

Domenico Airoma

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