Massimo Introvigne, Cristianità n. 333 (2006)
Che il capitalismo sia nato nel mondo protestante, per modernizzare la vecchia e polverosa Europa cattolica, come spesso si legge ancora sulla scia di letture spesso neppure di prima mano del sociologo tedesco Max Weber (1864-1920), è tesi da tempo abbandonata dagli storici e dai sociologi dell’economia. Si sa da tempo che l’economia moderna, la cui “invenzione” è stata attribuita da Weber alla seconda generazione, battista e metodista, del protestantesimo — non già alla prima, luterana e calvinista (1) —, era già fiorente secoli prima della sua presunta nascita. Rodney Stark, oggi professore di Scienze Sociali alla Baylor University di Waco, in Texas, dopo una lunga carriera che lo ha portato a presiedere la prestigiosa Society for the Scientific Study of Religion, “Società per lo Studio Scientifico della Religione”, e a essere considerato uno dei maggiori sociologi delle religioni viventi, nel terzo volume, The Victory of Reason (2), di una trilogia dedicata alla “sociologia dei monoteismi” (3), va molto oltre le critiche correnti alla tesi di Weber. Sostiene da una parte che il cattolicesimo è alle origini non solo del capitalismo, ma anche della scienza e della nozione di libertà personale — senza le quali il capitalismo non sarebbe mai sorto —, e dall’altra che, semmai, il protestantesimo ha danneggiato l’economia moderna nascente e ne ha ritardato il progresso.
I libri di testo scolastici, nota Stark, raccontano ancora che “[…] l’Occidente è nato precisamente quando ha superato gli ostacoli religiosi al progresso, specialmente quelli che impedivano la scienza. Stupidaggini: il successo dell’Occidente, nascita della scienza compresa, riposa interamente su fondamenta religiose, e le persone che sono alle sue origini erano devoti cristiani” (4). Anche chi riconosce qualche merito al protestantesimo resta comunque vittima — scrive il sociologo statunitense, che non è egli stesso cattolico — di un “anti-cattolicesimo accademico” (5), che — pure smentito dagli studi universitari più seri — non accenna purtroppo a diminuire. Ecco allora la necessità di una risposta articolata non solo a Weber, ma a una vulgata post-weberiana utilizzata da chi spesso non ha neppure mai letto il sociologo tedesco per fini che hanno molto a che fare con la propaganda e ben poco con la scienza accademica. La vocazione che ha portato Rodney Stark a specializzarsi nella sociologia delle religioni è sorta dall’idea che si potesse e si dovesse contrapporre un nuovo paradigma a quello dominante che derivava ancora largamente da Weber. Con The Victory of Reason, Stark chiude i suoi conti con il sociologo tedesco.
1. “Fondamenti”
L’opera di Stark è divisa in due parti. Nella prima — intitolata Fondamenti (pp. 3-100) — il sociologo statunitense sviluppa il modello teorico che nella seconda parte applica alla storia dell’Occidente. Il punto di partenza è familiare a chiunque conosca la sociologia di Rodney Stark: la religione non è un fenomeno secondario che dev’essere spiegato attraverso cause economiche e sociali ma è, al contrario, la realtà che spiega — non da sola, naturalmente, giacché qualunque spiegazione monocausale è semplicistica — un gran numero di fenomeni sociali, politici ed economici (6). Né si tratta solo della religione considerata a sua volta come un fenomeno sociale: l’idea di Dio che ciascuna religione propone ha conseguenze decisive per la vita associata (7).
Il Dio cristiano ha questo di particolare: ha creato il mondo secondo ragione, il che implica che le leggi dell’universo possano essere — sia pure mai completamente — scoperte e comprese dalla ragione umana. Stark cita, fra i molti testi cristiani dei primi secoli, un brano di Tertulliano (160-220): “La ragione è cosa di Dio, in quanto nulla esiste che Dio, il Creatore di tutto, non abbia pensato, disposto e ordinato secondo ragione — nulla che Egli non abbia disposto in modo che potesse un giorno essere compreso dalla ragione” (8). Dal momento che comprendere le leggi secondo cui Dio ha creato e ordina l’universo non è facile — anche se non è impossibile, osservando con attenzione l’universo stesso —, la scoperta di queste leggi potrà essere soltanto graduale: di qui l’idea del progresso, e di una conoscenza che nel tempo cresce e si perfeziona — un altro tema che differenzia il cristianesimo dalla maggioranza delle altre religioni, per cui la conoscenza e la sapienza declinano rispetto a un’età dell’oro originaria e irripetibile, rispetto alla quale non è possibile progresso ma solo decadenza.
La scoperta progressiva di leggi secondo cui funziona l’universo è quanto siamo abituati a chiamare scienza. La mera invenzione di strumenti utili, senza teoria, non è scienza. La teoria non verificata attraverso l’osservazione sistematica della natura, a sua volta, non è scienza, ma filosofia. In questo senso, Stark sostiene che “la vera scienza è nata una volta sola: in Europa” (9): e nell’Europa cristiana, non in Grecia o a Roma. I greci antichi erano perfettamente in grado di costruire strumenti slegati dalla teoria, o di elaborare teorie sottratte alla verifica empirica: non si trattava ancora di scienza. Aristotele (384-322 a.C.), per esempio, insegnava che la velocità di caduta di un solido è direttamente proporzionale al suo peso, così che una pietra pesante il doppio di un’altra avrebbe dovuto cadere dallo stesso punto a una velocità doppia della seconda. “Una gita alla più vicina collina gli avrebbe consentito di convincersi che la sua idea era falsa” (10), ma il punto è proprio che Aristotele, che pure talora compiva esperimenti, non lasciava che questi interferissero con le sue teorie.
Il problema, sostiene Stark, non sta in una mancanza di buon senso di Aristotele ma nel clima religioso della Grecia antica: i suoi dèi sono capricciosi e imprevedibili, non è chiaro se abbiamo qualcosa a che fare con la creazione del mondo — lo stesso Aristotele lo nega —, e certamente non lo hanno ordinato in modo razionale. La stessa imprevedibilità di Dio spiega perché la scienza non nasca in Cina o in India — dove manca la nozione di un Dio personale e ragionevole che ha messo ordine nel mondo — e neppure — benché molti si ostinino a pensare il contrario — nel mondo islamico, la cui idea di Dio è quella di un sovrano che può cambiare le leggi dell’universo come e quando crede. Pertanto grandi scoperte empiriche e sviluppi tecnologici in settori specifici non portano i musulmani alla formulazione di vere e proprie teorie scientifiche. Quella stessa corrente dell’islam che s’ispira ad Aristotele ne assorbe la filosofia proprio in quegli aspetti che tendono a produrre teoria separata dalla verifica empirica. Quanto all’ebraismo — cui nei volumi precedenti della trilogia Stark riconosce peraltro ampi meriti nella preparazione della successiva fioritura cristiana —, le sue difficili circostanze dopo la Diaspora lo portano, come comunità — e nonostante la partecipazione individuale di numerosi ebrei all’impresa scientifica europea —, a preoccuparsi più dell’interpretazione della Legge divina come guida per la vita morale che della scoperta delle leggi che regolano la creazione.
Ma il cristianesimo non si limita a inventare la scienza. Inventa anche la nozione di persona umana, dotata di libertà e di responsabilità. Le leggi dell’universo che possono essere scoperte — e che in parte sono state rivelate, anche se in molti casi la ragione avrebbe potuto identificarle da sola — non sono solo di natura scientifica: ve ne sono anche di natura morale. Si ha il dovere di conoscerle e di viverle, e la responsabilità di chi trascura questo dovere è tutta sua: non deriva dal Fato, come nella tragedia greca, o da reincarnazioni passate di cui non sappiamo nulla, come nelle religioni orientali. Nasce così, propriamente, la persona, dotata di diritti — da cui la lunga lotta della Chiesa contro la schiavitù — e di doveri. Questi diritti implicano anche la libertà politica — declinata diversamente secondo i tempi e i luoghi — e la tutela della proprietà privata, benché quest’ultimo diritto non sia concepito come assoluto ma subordinato alle esigenze del bene comune, secondo una casistica che raggiungerà il suo apice con la Scolastica del Medioevo.
Scienza, libertà della persona e proprietà privata sono le tre basi dell’economia “moderna”, che in realtà non è affatto moderna ma è medievale. Nel Medioevo, senza saperlo — se ne accorgerà solo con le scoperte geografiche —, l’Europa cristiana sorpassa il resto del mondo nei settori della scienza, dell’organizzazione politica e dell’economia: “l’idea secondo cui nel Medioevo l’Europa sprofonda nell’oscurità è una mistificazione creata ad arte dagl’intellettuali irreligiosi e violentemente anti-cattolici del secolo XVIII” (11). Le definizioni di “economia moderna” e di “capitalismo” sono oggetto di dibattiti infiniti fra gli storici e i sociologi dell’economia. La definizione oggi più corrente del capitalismo — evidentemente alternativa a quelle polemiche di stampo marxista, che lo riducono allo sfruttamento dei lavoratori — fa riferimento a “[…] un sistema economico dove “aziende” relativamente bene organizzate e di lunga durata, i cui proprietari sono privati, perseguono attività commerciali complesse nell’ambito di un mercato almeno parzialmente libero, formulando sistematicamente progetti di lungo periodo, scelti secondo la loro possibilità teorica di generare guadagni, che prevedono l’investimento e il re-investimento (diretto o indiretto) di ricchezza in attività produttive che utilizzano lavoratori salariati” (12).
Se si adotta questa definizione, i primi “capitalisti” sono i grandi monasteri medievali, e il capitalismo nasce nel secolo IX, non nel XVI come pensava Weber. E si sviluppa nei secoli successivi soprattutto in Italia, dove sono presenti le tre citate condizioni per la nascita dell’economia moderna: una passione per la scienza — coltivata nelle più grandi università del Medioevo, come Padova e Bologna, ma anche in un sistema scolastico pre-universitario superiore a quello di tutti gli altri paesi —, una libertà politica che deriva dalla stessa frammentazione in Comuni e “staterelli”, il che impedisce a un potere dispotico e centralizzatore d’interferire con l’economia, e un riconoscimento non illimitato ma sufficientemente ampio del diritto di proprietà privata, frutto della raffinata elaborazione dei teologi cristiani medievali.
2. “Compimento”
La seconda parte — Compimento (pp. 101-231) — entra in dettagli storici di sorprendente ricchezza, se si considera che l’autore non è uno storico di professione, alcuni dei quali riassumono teorie su cui esiste fra gli storici un vasto consenso mentre altre volte, come Stark ammette, si tratta d’ipotesi da verificare tramite ulteriori studi e su alcune delle quali si può in effetti coltivare qualche perplessità. L’affresco storico che Stark traccia è quello dello sviluppo del “capitalismo” — come sopra definito — anzitutto in Italia, dove sono inventate la banca moderna e il sistema assicurativo, con un primato europeo incontrastato che dura fino al secolo XVI e che fa sì che l’Italia, pure politicamente e militarmente debole, domini economicamente il continente. “Fino al secolo XV anche tutte le banche medio-piccole dell’Europa Occidentale, oltre alle grandi, sono italiane, e certamente non esistono banche internazionali che non siano italiane. Fino a quest’epoca tutte le banche in Inghilterra e in Irlanda sono filiali di banche italiane, e lo stesso è vero per le Fiandre. E in Francia e in Spagna per tutto il Medioevo le uniche banche di cui ci è nota l’esistenza sono italiane” (13); “anche le filiali più lontane sono gestite da personale assunto e formato in Italia, e tutti gli affari sono condotti in lingua italiana” (14). Queste imprese italiane non operano nonostante ma grazie alla religione cattolica, i cui insegnamenti morali sono parte integrante della formazione del personale, cui del resto sono date istruzioni perché in tutta Europa una parte dei profitti sia destinata alla carità e al culto. Solo molto lentamente, profittando di situazioni geografiche favorevoli e d’innovazioni tecnologiche nel settore tessile e minerario, il “capitalismo” italiano trova concorrenti a Nord: dapprima nelle Fiandre cattoliche, da cui il modello capitalista passa solo più tardi nell’Olanda, protestante; quindi nell’Inghilterra, anglicana: e per Weber la religione anglicana non è meno estranea del cattolicesimo allo “spirito del capitalismo”.
Il declino del primato italiano nel 1600 è collegato alla perdita di uno dei tre elementi necessari secondo il modello di Stark perché il “capitalismo” fiorisca: la libertà politica, confiscata da signorie dispotiche e soprattutto dal dominio francese e spagnolo. Una tesi fondamentale di Stark è che, anche in presenza di un retroterra religioso cristiano, l’economia moderna non può fiorire se manca un minimo di libertà politica, se lo Stato è assolutista, se il centralismo si esprime — come avviene quasi sempre — in un aumento delle tasse che mette in discussione o limita lo stesso diritto di proprietà privata. Da questo punto di vista il fatto che il capitalismo non sia fiorito in Francia e in Spagna, e che questi paesi siano rimasti relativamente arretrati rispetto all’Italia prima e all’Europa del Nord poi, non dipende dal cattolicesimo ma dal centralismo e dall’assolutismo. Nonostante le virtù private che Stark riconosce volentieri alla maggioranza dei re di Spagna, egli ritiene che — come i monarchi francesi — essi adottino un modello politico centralista, statalista, e fondato su un’elevata tassazione, che non può che generare stagnazione e declino economico. La Spagna maschera questi problemi per diversi secoli grazie alle ricchezze che affluiscono dalle colonie: ma queste — come il petrolio, afferma il sociologo americano, nelle monarchie della penisola arabica attuale — si limitano a mantenere in vita un enorme apparato statale e imperiale, senza essere veramente investite nella creazione di un’economia moderna. Benché sulla severità con cui Stark giudica la Spagna imperiale si possa avanzare qualche legittimo dubbio, va sottolineato come egli abbia cura di ripetere che l’arretratezza economica spagnola — come quella, sottolineata meno spesso dalla vulgata storica corrente, francese — non deriva affatto dal cattolicesimo. Anzi, il centralismo e l’assolutismo trovano, per ragioni teologiche, i loro teorici più convinti tra i protestanti e sono combattuti dai teologi cattolici, specialmente dai gesuiti.
Quanto all’Olanda, “dal momento che il capitalismo nei Paesi Bassi nasce molto prima della Riforma non ha senso considerare il calvinismo l’origine del capitalismo olandese. Potrebbe essere più accurato sostenere che il calvinismo ha causato la distruzione del capitalismo in vaste aree dei Paesi Bassi” (15), giustificando forme politiche più dispotiche e centraliste, causa principale del declino dell’economia olandese a favore di quella britannica. “Non è stato il cattolicesimo ma l’assolutismo che ha impedito il capitalismo in Francia e in Spagna, e lo ha distrutto in Italia e nel Sud dell’Olanda” (16).
Quanto alla Gran Bretagna, a prescindere dalla circostanza già citata che la religione anglicana per Weber — ai fini delle affinità con il capitalismo — è una variante del cattolicesimo e non fa parte di quelle forme di protestantesimo che avrebbero generato l’economia capitalista, non è il suo ripudio del cattolicesimo a conferirle il primato economico mondiale di cui gode a partire dalla fine del secolo XVII, ma la resistenza di corpi intermedi e di libertà cittadine e comunali che risalgono all’epoca cattolica e che, nonostante i tentativi di teologi e di filosofi influenzati dal protestantesimo dell’Europa continentale, la monarchia non riesce a estirpare. E la situazione si sarebbe ripetuta nel Nuovo Mondo, dove — ma sul punto la trattazione di Stark è un po’ rapida, e qualche perplessità rimane — gli Stati Uniti d’America avrebbero riprodotto il sistema britannico e l’America Latina quello spagnolo, con conseguenze economiche evidenti.
Si è sostenuto che lo straordinario successo del protestantesimo in America Latina nell’ultimo quarto di secolo — cui peraltro ha fatto da contrappunto una vigorosa ripresa della partecipazione religiosa cattolica, il che conferma la tesi cara a Stark secondo cui la concorrenza fa bene alla religione in genere — potrebbe finire per produrre una classe imprenditoriale protestante capace finalmente di rendere l’America Latina più “capitalista” e più vicina agli Stati Uniti d’America. Di questa tesi, spesso ripetuta, mancavano verifiche empiriche. Nel 2004 il sociologo Anthony Gill ha però pubblicato uno studio che Stark giudica finalmente adeguato, fondato su un ampio campione che coinvolge Messico, Argentina, Brasile e Cile. Gill ha scoperto che la differenza di atteggiamenti economici non è fra protestanti e cattolici, ma fra cristiani praticanti e che prendono sul serio la loro fede — protestanti o cattolici — da una parte, e cristiani non praticanti e non credenti dall’altra. “I cattolici e i protestanti seriamente impegnati nelle loro rispettive religioni non manifestano differenze di rilievo nei loro atteggiamenti politici ed economici. Entrambi i gruppi sono più liberisti in economia, più conservatori in politica, più attivi nel sostenere cause civiche e sociali, e più fiduciosi nella possibilità di avere buoni governi rispetto ai loro concittadini che non sono religiosi o lo sono meno” (17). Gill conclude: “È chiaro che Weber non è al lavoro in America Latina” (18).
3. “Globalizzazione e modernità”
Al termine dell’opera, Stark propone una breve conclusione dal titolo Globalizzazione e modernità (pp. 233-235). “Il cristianesimo ha creato la civiltà occidentale” (19): ma questa è ora in grado di camminare senza la religione? Secondo Stark vi sarebbero in teoria elementi per sostenere l’ipotesi secondo cui la fiducia in un mondo che funziona secondo leggi razionali che la ragione può scoprire è penetrata così profondamente nell’immaginario collettivo occidentale da poter sopravvivere per generazioni anche separata dalla sua origine storica, che deriva dalla nozione cristiana di Dio e della creazione. Ma vi sono due elementi che mettono in dubbio questa ipotesi. Il primo è il declino dell’Europa, che sembra parallelo in modo davvero sospetto al rifiuto delle sue istituzioni pubbliche di riconoscerne le radici cristiane. Il secondo è il successo del cristianesimo in tutti i paesi non europei che intraprendono il cammino della modernizzazione scientifica, della libertà politica e dell’economia moderna. Molti non si rendono conto che nell’epoca della globalizzazione molti paesi in via di sviluppo prima vedono fiorire ampie minoranze — e talora maggioranze — cristiane e poi progrediscono sul piano della scienza, della democrazia e dell’economia.
“L’Africa sta diventando cristiana così rapidamente che vi sono più anglicani a Sud del Sahara che in Gran Bretagna o nel Nord America, per non parlare delle decine di milioni di battisti, pentecostali, cattolici o membri di gruppi protestanti di origine locale — circa la metà degli africani che vivono a Sud del Sahara oggi sono cristiani” (20). E quanto accade in Africa non ha paragone con quanto sta avvenendo e potrebbe, in misura maggiore, avvenire in Cina, dove — sottostimate da statistiche fasulle fornite dal governo — le conversioni al cristianesimo avanzano a ritmo rapidissimo. Nel 2002, al giornalista statunitense David Aikman un intellettuale — che ha preferito rimanere anonimo, ma che il giornalista stesso definisce “uno dei principali studiosi cinesi” (21) —, diceva: “Una delle cose che ci è stato chiesto di studiare è la ragione del dominio dell’Occidente sul mondo. Abbiamo studiato tutto quello che abbiamo potuto dal punto di vista storico, politico, economico e culturale. Quindi abbiamo pensato che voi aveste il sistema politico più avanzato. In seguito ci siamo concentrati sul vostro sistema economico. Ma negli ultimi vent’anni abbiamo concluso che il cuore della vostra cultura è la vostra religione, il cristianesimo. È questa la ragione per cui l’Occidente è diventato così potente. Il fondamento morale cristiano della vita sociale e culturale è il fattore che ha reso possibile l’emergere del capitalismo e la transizione a una politica democratica. Non abbiamo più dubbi su questo punto” (22). “Né ho dubbi io” (23), conclude Rodney Stark.
Massimo Introvigne
Note:
(1) Cfr. Max Weber, Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, in Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik, vol. 20, 1904, pp. 1-54; e vol. 21, 1905, pp. 1-110 (trad. it., L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, in Idem, Sociologia della religione, 2 voll., Edizioni di Comunità, Milano 1982, vol. I, pp. 17-194).
(2) Cfr. Rodney Stark, The Victory of Reason. How Christianity Led to Freedom, Capitalism, and Western Success, Random House, New York 2005.
(3) Cfr. Idem, One True God. Historical Consequences of Monotheism, Princeton University Press, Princeton-Oxford 2001; e For the Glory of God. How Monotheism Led to Reformations, Science, Witch-Hunts, and the End of Slavery, Princeton University Press, Princeton-Oxford 2003. Sul secondo cfr. il mio “Sociologia degli dèi e falsificazioni della storia”: una recensione di “For the Glory of God” di Rodney Stark, in Cristianità, anno XXXI, n. 317, maggio-giugno 2003, pp. 7-13. La trilogia è idealmente preceduta da un volume, poi tradotto in numerose lingue — ma non in italiano —, dove il sociologo statunitense si propone di spiegare in termini sociologici il successo del cristianesimo dei primi secoli: R. Stark, The Rise of Christianity. A Sociologist Reconsiders History, Princeton University Press, Princeton 1996; cfr. la mia recensione Il cristianesimo delle origini: un nuovo movimento religioso?, in Cristianità, anno XXIV, n. 259, novembre 1996, pp. 9-11.
(4) R. Stark, The Victory of Reason. How Christianity Led to Freedom, Capitalism, and Western Success, cit., p. XI.
(5) Ibidem.
(6) Cfr. R. Stark e Massimo Introvigne, Dio è tornato. Indagine sulla rivincita delle religioni in Occidente, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 2003.
(7) Cfr. la tesi sviluppata ulteriormente in R. Stark, Exploring the Religious Life, The Johns Hopkins University Press, Baltimora – Londra 2004.
(8) Tertulliano, De Poenitentia, cap. I, cit. in R. Stark, The Victory of Reason. How Christianity Led to Freedom, Capitalism, and Western Success, cit., p. 7.
(9) Ibid., p. 14.
(10) Ibidem.
(11) Ibid., p. 35.
(12) Ibid., p. 56.
(13) Ibid., p. 116.
(14) Ibidem.
(15) Ibid., p. 175.
(16) Ibid., p. 194.
(17) Ibid., p. 231, dove Stark riassume Anthony Gill, Weber in Latin America: Is Protestant Growth Enabling the Consolidation of Democratic Capitalism?, in Democratization, vol. 11, n. 4, Abingdon (UK) agosto 2004, pp.1-25.
(18) A. Gill, art. cit., p. 25.
(19) R. Stark, The Victory of Reason. How Christianity Led to Freedom, Capitalism, and Western Success, cit., p. 233.
(20) Ibid., p. 234.
(21) Ibid., p. 235; cfr. David Aikman, Jesus in Beijing. How Christianity Is Transforming China and Changing the Global Balance of Power, Henry Regnery, Washington 2003, pp. 5-6.
(22) D. Aikman, op. cit., p. 5; cit. in R. Stark, The Victory of Reason. How Christianity Led to Freedom, Capitalism, and Western Success, cit., p. 235.
(23) R. Stark, The Victory of Reason. How Christianity Led to Freedom, Capitalism, and Western Success, cit., p. 235.