MASSIMO INTROVIGNE, Cristianità n. 336 (2006)
I. Israele, la fine delle illusioni
Illusioni distrutte è il nome in codice dell’operazione nel corso della quale gruppi estremisti palestinesi hanno rapito tre israeliani, dopo averne uccisi due: un militare, un giovane colono — già ucciso — e un pensionato sessantenne. Il nome dell’operazione ne indica l’intento: distruggere l’illusione che una pace o almeno una tregua sia possibile dopo l’accordo fra Hamas e Fatah sul cosiddetto «documento dei prigionieri», preparato nelle carceri israeliane dal popolare leader di Fatah Marwan Barghouti e da un esponente di Hamas, Abdul Khaleq Natshe, che — sia pure con passaggi inaccettabili — contiene un riconoscimento implicito di Israele nei confini del 1967.
L’operazione Illusioni distrutte — i cui ideatori e protagonisti vanno chiamati con il loro nome: assassini, terroristi e criminali — e la reazione del governo israeliano, che ha arrestato numerosi ministri e deputati di Hamas, mostrano che il dialogo non può neppure cominciare. Ma fra le «illusioni distrutte» ve ne sono anche molte dell’Occidente, dell’Europa e dell’Italia. Anche se non è ancora chiaro chi ha rapito il militare — vi sono tre diverse rivendicazioni, e una è di Hamas — l’assassinio del giovane colono è stato rivendicato dai Comitati per la Resistenza Popolare, nati da una costola di Fatah, e il terzo rapimento dalle Brigate dei Martiri al-Aqsa, che di Fatah, il partito del presidente Abu Mazen, sono un’articolazione ufficiale. Lo schema secondo cui, nello scenario palestinese, i nazionalisti laici di Abu Mazen sono «i buoni» e i fondamentalisti islamici di Hamas «i cattivi», è definitivamente tramontato. Gli avvenimenti degli ultimi giorni dimostrano che Abu Mazen non conta nulla, controlla a stento il suo palazzo e che fra i suoi miliziani vi sono alcuni dei peggiori terroristi. Per quell’Europa che pensa che Abu Mazen «rappresenti» i palestinesi è davvero la fine delle illusioni.
La decisione del primo ministro israeliano Ehud Olmert di arrestare in massa ministri e parlamentari di Hamas è rischiosa, in quanto può far prevalere in Hamas l’ala estremista — rappresentata dal leader in esilio a Damasco Khalid Mashaal — rispetto a quella più disponibile alle trattative del leader incarcerato Nashte e del primo ministro Ismail Haniyeh. La strategia dell’ultimo Ariel Sharon era quella di dividere Hamas, negoziando in segreto con la sua ala «trattativista». Hamas è ormai troppo grande per essere abbattuta per via militare. D’altro canto, è possibile che la reazione israeliana salvi la vita di qualche ostaggio, che le milizie di Hamas sono in grado di liberare anche se non lo hanno rapito loro. Olmert ha ragione quando indica al mondo i mandanti dei rapimenti: la Siria — aerei israeliani hanno volato a lungo sul palazzo del presidente Bashar al-Assad a Damasco — e l’Iran.
Un’altra illusione distrutta dell’Occidente è che si possa risolvere il problema palestinese senza abbattere il regime siriano — gli ordini e i piani dei rapimenti sono partiti da Damasco — e senza impostare una seria strategia di contenimento dell’aggressività iraniana, che non si limiti alle parole, ma comporti anche, ove necessario, sanzioni economiche. Continuare a proclamare l’«amicizia» italiana verso la Siria e l’Iran, come fanno il ministro degli Affari Esteri on. Massimo D’Alema e i suoi collaboratori, e definire la risposta di Israele «un crimine contro l’umanità» — così si sono espressi i Comunisti Italiani, parte integrante della coalizione di governo del presidente Romano Prodi — significa invece non aver capito che le illusioni sono finite e che la retorica anti-israeliana alimenta oggettivamente il terrorismo.
II. Amici del nemico
Di fronte a D’Alema che si proclama «equivicino» a Israele e al governo palestinese, e che condanna «nello stesso modo» i rapimenti di israeliani e la reazione del governo Olmert; di fronte a Comunisti Italiani e a Rifondazione, che brigano per invitare in Italia esponenti di organizzazioni terroristiche, è venuto il momento di parlare chiaro sulla Palestina. L’opposizione di centrodestra ha una splendida opportunità per denunciare le figuracce internazionali del Governo Prodi e la presenza nella compagine che lo sostiene di autentici amici dei terroristi.
Da anni Israele è sottoposto a uno stillicidio quotidiano di attacchi terroristici che hanno fatto migliaia di morti, donne e bambini compresi. È come se sulle principali città italiane piovessero razzi e si tentasse di commettere attentati tutti i giorni. Il terrorismo è organizzato — contro la vulgata corrente — da entrambe le principali correnti politiche palestinesi: i laici di Fatah e i fondamentalisti di Hamas. Nel sistema politico palestinese i laici esprimono il presidente, Abu Mazen, uscito da elezioni democratiche ma non rappresentative, boicottate da Hamas, che alle elezioni politiche, cui invece ha partecipato, ha dimostrato di essere il primo partito ed esprime il governo guidato dal primo ministro Haniye. Abu Mazen e Haniye sono meno estremisti dei leader che stanno in esilio a Damasco e prendono ordini dal governo siriano e da quello iraniano. Ma, siccome il denaro per i palestinesi viene da Teheran e le armi da Damasco, le possibilità che prevalgano i meno estremisti sono quasi inesistenti.
La linea Sharon contava sulla stanchezza dei palestinesi dopo anni di guerre e sulla lenta prevalenza all’interno dei Territori di un fronte «trattativista» disposto a una tregua imperniata sulla nascita di uno Stato palestinese nei confini del 1967, che nessun palestinese considera ideali, ma che i fondamentalisti maggioritari avrebbero accettato barattandoli con il carattere islamico dello Stato. Questa linea era in realtà ancora possibile dopo la vittoria elettorale di Hamas, a patto che Hamas si spaccasse in due e che la fazione realista nei Territori rompesse con quella oltranzista in esilio a Damasco. Non è possibile oggi, perché a Damasco il regime regge, e ad Assad si è aggiunto il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad come sponsor danaroso e non troppo occulto di tutte le fazioni estremiste palestinesi. Non bisogna illudersi: a lungo termine una trattativa che si muova verso la pace è realistica solo se cambiano il regime di Assad in Siria e quello degli ayatollah in Iran. A breve, il dialogo è una chimera, ma è possibile per Israele tenere i terroristi sotto controllo con la pressione militare e con ritorsioni durissime contro ogni atto di aggressione, rapimenti compresi, dimostrando a qualunque governo palestinese che o controlla i terroristi o Israele gl’impedisce di governare. Ogni «buonismo» in questo momento fa solo aumentare gli attentati, e lo stesso vale per la retorica pacifista e dell’«equivicinanza» fra vittime e assassini di Prodi, del presidente francese Jacques Chirac e di D’Alema. Sostenere Israele nelle sue azioni di oggi, continuando nella discrezione un dialogo, è un dovere di tutto l’Occidente. Qui, più che sul numero di soldati in Afghanistan, passa la linea di demarcazione fra occidentali autentici e chi tollera o sostiene il terrorismo.
III. Fratelli e coltelli
Chissà se alla sinistra italiana è arrivato il rumore più clamoroso di questa guerra d’estate: il fragoroso silenzio della piazza araba. Da anni bastava una piccola ritorsione israeliana perché, da Giakarta a Tripoli, folle mobilitate o dai regimi al potere o da organizzazioni fondamentaliste come i Fratelli Musulmani invadessero le piazze gridando «Morte a Israele». Questa volta la piazza araba non si mobilita. Il contrasto con quanto era successo solo qualche mese fa, a proposito delle vignette danesi, è strabiliante.
Il fatto è che sia i dittatori nazionalisti sia i loro nemici, i Fratelli Musulmani, capiscono perfettamente quello che i documenti dell’ONU e del G8 non dicono, e cioè che l’attacco a Israele non è un’iniziativa spontanea di Hezbollah e di Hamas ma è programmata — da mesi —, finanziata e diretta da Teheran e da Damasco. L’ONU e il G8 non possono dirlo per i veti di una Francia da sempre filo-siriana e anti-americana, cui in sede G8 si è subito accodato Prodi, soprattutto per ragioni di bassa cucina politica italiana: vi sono gli onn. Oliviero Diliberto e Francesco Giordano da tenere buoni, o il governo va a casa. Ma i musulmani lo sanno. I capi di Stato nazionalisti hanno capito perfettamente che è in gioco l’egemonia sull’intero mondo arabo di una nuova cupola, la cui testa è a Teheran, che ha ridotto la Siria al rango di Stato satellite e che — dopo aver indotto Osama Bin Laden a liberarsi dell’anti-sciita Abu Musab al-Zarqawi (1966-2006) facendo arrivare agli americani informazioni su dove trovarlo ed eliminarlo — ha arruolato anche al-Qaida. Questa cupola, il cui leader Ahmadinejad crede in un islam apocalittico e attende con fervore la fine del mondo, considera i dittatori nazionalisti laici come una peste che infetta il mondo islamico. Tollera Assad in Siria perché la sua famiglia non è laica ma alauita, seguace di una forma estremista sciita sulla cui eterodossia Ahmadinejad ha deciso di chiudere un occhio. Quanto ai Fratelli Musulmani, la famiglia Assad in Siria ne ha ammazzati il bel numero di settantacinquemila. I Fratelli, inoltre, sono sunniti e il trattamento delle minoranze sunnite dovunque arrivino gli sciiti iraniani o filo-iraniani non è certo particolarmente rassicurante. In teoria è sunnita anche Bin Laden, ma ormai la sua ideologia è un terzo islam, apocalittico e violento, che va al di là della tradizionale distinzione fra sunniti e sciiti e che — con il suo uso disinvolto del traffico di droga e dei legami con la malavita — non ha più nulla a che fare con la puritana — e anti-sciita — tradizione wahhabita dell’Arabia Saudita in cui il superterrorista è stato educato.
Così, la più grande manifestazione anti-israeliana si è tenuta a Cuba e contro Israele, al momento, grida più forte Diliberto a Roma che il colonnello Muhammar Gheddafi a Tripoli. I re del Marocco, della Giordania e dell’Arabia Saudita dicono in privato agli americani quello che non possono dire in pubblico: nessuna pace è possibile finché non si abbattono i regimi di Teheran e di Damasco. I Fratelli Musulmani sono un’organizzazione complessa e piena di correnti, ad alcune delle quali una caduta di Ahmadinejad e di Assad non farebbe certamente dispiacere. Come Marco Porcio Catone il Censore (234-149 a.C.) imparò a sue spese, continuare a ripetere «Delenda Carthago», «Cartagine dev’essere distrutta», non rende popolari. Ma Catone aveva ragione. Finché la Cartagine rappresentata dai regimi siriano e iraniano non sarà distrutta, Roma — cioè l’Occidente — non sarà al sicuro. E neppure tutti quei musulmani che non vogliono diventare vassalli di Ahmadinejad: per questo, la piazza musulmana continua a far rumore con il suo silenzio.
IV. L’uso strumentale delle parole di Papa Ratzinger
Il partito anti-israeliano — che con varie sfumature, da D’Alema «equivicino» a Diliberto amico di Hezbollah, domina la coalizione di Prodi — è impegnato in un’operazione propagandistica che s’indirizza anzitutto ai cattolici dell’Unione. Noi, dicono in sostanza i prodiani, chiediamo un cessate il fuoco immediato che fermi l’offensiva di Israele: ma siamo in buona compagnia perché la stessa cosa la chiede il Papa.
L’Unione confonde ad arte due cose assai diverse fra loro. Il Papa ha rivolto «un appello alle parti in conflitto perché cessino subito il fuoco», sulla base di tre princìpi: «il diritto dei Libanesi all’integrità e sovranità del loro Paese, il diritto degli Israeliani a vivere in pace nel loro Stato e il diritto dei Palestinesi ad avere una Patria libera e sovrana». È evidente che il Papa chiede un cessate il fuoco bilaterale: si appella «alle parti», non solo a Israele. Purtroppo — non per colpa del Papa, ma neppure di Israele — un cessate il fuoco bilaterale, concordato fra Israele e Hezbollah, non è all’ordine del giorno. Ancora ieri, sul giornale di Hezbollah, il suo capo Hassan Nasrallah ha dichiarato che è disponibile a che il governo libanese concordi uno scambio fra i due soldati israeliani rapiti il 12 luglio e un numero imprecisato di musulmani detenuti per terrorismo nelle carceri israeliane, ma ha scritto a chiare lettere che non intende neppure prendere in considerazione lo smantellamento delle postazioni missilistiche e la cessazione del «bombardamento degli insediamenti sionisti». Cessare il fuoco significa precisamente smettere di bombardare il nemico: dunque Hezbollah non è disponibile a un cessate il fuoco.
Quello di cui si discute a Roma, a Gerusalemme, a Washington e altrove non è il cessate il fuoco bilaterale di cui parla Benedetto XVI, ma un cessate il fuoco unilaterale da parte di Israele, che accetta la richiesta che gli viene da un certo numero di paesi più o meno amici e alleati di arrestare l’avanzata delle sue truppe che stanno neutralizzando le postazioni di Hezbollah. I veri alleati di Israele — a partire dagli Stati Uniti d’America — chiedono un cessate il fuoco, secondo le parole del segretario di Stato statunitense Condoleeza Rice, «quando se ne realizzino le condizioni», cioè quando le truppe israeliane abbiano distrutto la maggioranza delle rampe da cui Hezbollah lancia missili sul suo territorio, e abbiano così indebolito la capacità militare delle milizie di Nasrallah da permettere all’esercito libanese di disarmarle, in questo modo restaurando quella sovranità del Libano su tutto il suo territorio di cui parla il Papa. I falsi alleati di Israele — che abbondano in Europa e nell’Unione — vogliono fermare l’esercito israeliano prima che questo abbia messo Hezbollah in condizione di non nuocere. I missili continuerebbero a colpire Israele, e il «diritto degli Israeliani a vivere in pace nel loro Stato», richiamato con chiarezza dal Papa, rimarrebbe un’utopia. Quanto al «diritto dei Palestinesi ad avere una Patria libera e sovrana», gl’israeliani lo offrono da anni, a condizione che il nuovo Stato palestinese lasci «vivere in pace» Israele, cioè ne riconosca l’esistenza e rinunci ad attaccarlo con attentati terroristici: è quanto Hamas finora rifiuta, anche se — spaventato dalla guerra — sta aprendo qualche spiraglio. Ascrivere al campo anti-israeliano un Papa che ha parlato più volte con forza e coraggio del diritto di Israele alla sua sicurezza può forse servire a una propaganda da bassa cucina politica, ma ne travisa le parole in modo intollerabile.
V. Hezbollah e il legame con Teheran
Fra un giorno, una settimana o un mese la guerra finirà e fin da ora vi sono due certezze: Israele avrà ridotto la capacità di colpire di Hezbollah, ma Hezbollah in Libano vi sarà ancora. Le divergenze che attraversano l’Occidente e lo stesso mondo musulmano ruotano tutte intorno a due questioni di fondo, che curiosamente di rado sono discusse apertamente: la natura di Hezbollah e la sua possibile evoluzione futura.
Gli Stati Uniti d’America hanno Hezbollah nel loro elenco di movimenti terroristi, l’Europa no per il veto francese. La differenza non deriva dal fatto che Hezbollah sia anche un partito, che partecipa alle elezioni libanesi e conta quattordici deputati e un ministro. Hamas ha vinto le elezioni palestinesi ed esprime il primo ministro locale, ma rimane un movimento terrorista anche per l’Europa. La domanda da porsi non è solo che cosa fa Hezbollah, che, oltre a svolgere attività di terrorismo secondo la definizione della stessa Unione Europea, per cui sono terroristi gli attentati contro civili non combattenti, conquista consensi fra gli sciiti libanesi con la sua rete di servizi sociali, di scuole e di opere caritative, esattamente come fa Hamas fra i sunniti palestinesi. È che cosa vuole.
Da questo punto di vista vi è solo da leggere le pubblicazioni ufficiali di Hezbollah, che afferma chiaramente che il suo scopo primario non è di rappresentare gl’interessi degli sciiti in Libano, ma di distruggere Israele, a nome e per conto di tutto il mondo islamico e per ragioni che sono teologiche, non politiche. Chirac e il primo ministro spagnolo José Luis RodríguezZapatero si ostinano a non considerarlo un movimento terroristico, perché scambiano Hezbollah per un partito di tutela degli sciiti con motivazioni anzitutto politiche. Dopo la guerra, che farà Hezbollah? Un movimento terroristico può cessare di operare perché ha raggiunto il suo obiettivo: è il caso dei gruppi bosniaci anche più estremi, che si sono sciolti una volta che la Bosnia è diventata uno Stato indipendente.
Ma lo scopo di Hezbollah è la distruzione di Israele, un nuovo Olocausto che nessuno in Occidente — compresi Chirac, Zapatero e D’Alema — può davvero tollerare. Può essere distrutto militarmente: ma con i suoi cinquemila miliziani armati e un bacino di sostenitori di almeno trentamila persone il movimento di Nasrallah è troppo grande perché questa sia un’opzione realistica. Resta la trasformazione di un movimento terrorista in partito politico. Non sarebbe la prima volta che succede. Non a caso ne parla molto Zapatero, che pensa alla stessa soluzione — fra durissime polemiche in Spagna — per i separatisti baschi.
Ma i baschi non hanno la feroce ideologia apocalittica di Hezbollah, né godono del sostegno in denaro e in armi di un potente Stato straniero come l’Iran. In passato lo stesso Sharon aveva coltivato l’idea di una trasformazione «politica» di Hamas. Per Hamas — e molto di più per Hezbollah — l’operazione si è rivelata per ora impossibile per l’intervento di agenti esterni: la Siria e soprattutto l’Iran, che ha minacciato i dirigenti «trattativisti» di tagliare fondi, armi e forse anche qualche testa. Alla fine, tutte le strade portano a Teheran. Dal momento che Hezbollah non sparirà, l’unico modo di trasformarlo da milizia in partito — dopo averlo disarmato — è rescindere il suo cordone ombelicale con il regime di Teheran. Per questo è necessario che qualcosa cambi in Iran. Un cambiamento nel regime in Iran è la chiave di qualunque vicenda politica in Medio Oriente.
VI. D’Alema fa finta di non vedere il nazi-islamismo
Le perplessità della Casa delle Libertà su una missione in Libano, le cui regole d’ingaggio non siano chiaramente definite da un passaggio in Parlamento, appaiono sempre più giustificate dall’atteggiamento di D’Alema, che a Beirut si reca subito a farsi fotografare davanti a qualche casa distrutta nei quartieri sciiti declamando ancora una volta sulla reazione israeliana «sproporzionata» e sulle guerre «fabbrica di terroristi». Non risultano fotografie di D’Alema di fronte a case sventrate dai missili di Hezbollah in Galilea, né commenti sul fatto che questa guerra l’hanno provocata i terroristi attaccando Israele.
Soprattutto — considerando che il termine nasce da intellettuali liberal cui D’Alema dovrebbe sentirsi politicamente vicino — manca un qualunque riferimento al dibattito in corso sul termine usato dal presidente statunitense George W. Bush: «islamo-fascismo». Si comprende l’uso tattico di Bush di un’espressione coniata dai suoi avversari: ma sarebbe più esatto parlare di «islamo-nazismo». Soprattutto da quando se ne è impadronito Ahmadinejad, il regime iraniano è diventato quanto di più simile al nazionalsocialismo il mondo abbia visto nella sua storia. Certo, le radici culturali della Germania di Adolf Hitler (1889-1945) e dell’Iran degli ayatollah sono diverse. Ma i sociologi hanno messo in luce come il millenarismo, l’attesa di eventi apocalittici e di una imminente trasformazione radicale del mondo, sia una categoria universale che, per quanto la si declini con linguaggi diversi, tende a produrre gli stessi risultati di morte. Hitler pensava a un Reich millenario dominato dalla razza ariana, a una «Germania per mille anni» le cui armate avrebbero soggiogato il mondo intero. Ahmadinejad, che riprende gli spunti più millenaristi del complesso pensiero dell’ayatollah Ruhollah Khomeini (1902-1989), crede fermamente nel mito dell’imam nascosto, che riemergerà dal suo plurisecolare occultamento per guidare i musulmani sciiti a conquistare tutto il mondo. Pensa davvero che l’imam nascosto emergerà da un pozzo di una remota regione iraniana, intorno al quale ha già fatto costruire un suntuoso palazzo per accoglierlo e alberghi a sette stelle. Bin Laden, dal canto suo, utilizza una letteratura sunnita, soprattutto egiziana, tutta imperniata sullo scontro finale fra il Dajjal, l’Anticristo, e il Messia islamico, il Mahdi. Né valgono le obiezioni del sociologo consigliere di Chirac, Gilles Kepel, secondo cui non si può parlare di fascismo o di nazismo, perché Benito Mussolini (1883-1945) e Hitler avevano un seguito di massa che Bin Laden o Nasrallah non hanno: certo, i terroristi attivi sono — relativamente — pochi, ma i fondamentalisti sono milioni.
La follia millenarista ha sempre bisogno di un capro espiatorio da distruggere perché il piano del messia millenario di turno trionfi. Per Hitler e per Ahmadinejad il capro espiatorio è lo stesso: gli ebrei. Ogni giorno il presidente iraniano predica più chiaramente lo sterminio non solo di Israele ma degli ebrei in genere, esattamente come Hitler negli anni 1930. Nasrallah gli fa eco. E, come allora, vi è una classe politica del mondo libero che si tura le orecchie per non sentire. Andiamo in Libano a combattere l’islamo-nazismo o a proteggerlo da Israele? Se la risposta sarà ambigua — o chiaramente anti-israeliana, come l’ha formulata in esplicito il solito Diliberto —, risuoneranno echi sinistri della conferenza di Monaco del 1938, dove l’Europa di fronte al nazismo — come disse Winston Churchill (1874-1965) — «scelse la vergogna per non avere la guerra, e finì per avere sia la vergogna sia la guerra».
VII. I tamburi di latta dell’Unione Europea suonano per Hezbollah
Le ambiguità del voto a Roma sulla missione in Libano — tutti i partiti pensano che sia un’idea nobile, ma ognuno ha le sue riserve mentali e dà alla nobiltà dell’idea un diverso contenuto — riflettono la ben più grave ambiguità che domina a livello europeo. I tamburi di guerra dell’Unione Europea si sono puntualmente rivelati tamburi di latta come quelli del romanzo del 1959 di Günter Grass, riscoperto in questi giorni insieme ai trascorsi nazisti dell’autore pacifista tedesco. La Germania, appunto, che sembrava pronta a dispiegare le sue truppe, fiutato il vento infido, ha escluso l’invio di soldati di terra e si limiterà all’appoggio navale. La Francia, il paese che aveva dato più fiato alle trombe di guerra, «per ora» manderà poche centinaia di soldati, e afferma d’impegnarne migliaia con un gioco delle tre carte in cui mette nel conto anche militari francesi che già si trovano in Libano da mesi e in alcuni casi da anni. Con il cerino in mano si è ritrovato così il Governo Prodi, su cui è tornata come un boomerang l’accusa di «apprendista stregone» incautamente lanciata a Israele.
Per quanto pasticciata, la risoluzione ONU chiede il disarmo di Hezbollah. Il problema è che Hezbollah, per quanto indebolito dall’esercito israeliano, è ancora armato fino ai denti, e Siria e Iran assicurano che continueranno ad armarlo alla faccia dell’ONU. Il suo capo Nasrallah e i suoi ministri e deputati, fra una passeggiata e l’altra a braccetto con D’Alema, hanno dichiarato che per disarmare i terroristi bisognerà passare sui loro cadaveri.
Dunque, chi disarmerà Hezbollah? Secondo Prodi, lo farà l’esercito libanese: ma questo ha già dichiarato che Hezbollah è più forte e meglio armato delle truppe regolari di Beirut, che né possono né vogliono procedere al disarmo. Quanto ai caschi blu dell’ONU, non sono mai riusciti a disarmare nessuno, neanche i massacratori del Ruanda, non per carenza di capacità tecnica — che ai militari italiani non manca di certo — ma per veti incrociati al Palazzo di Vetro. E se le truppe italiane sparassero un solo colpo contro Hezbollah, Diliberto e compagni a Roma farebbero cadere il governo.
L’idea più brillante è venuta a D’Alema: cambiamo divisa agli uomini di Hezbollah e facciamone una divisione dell’esercito libanese. Dev’essere quanto gli hanno suggerito i suoi compagni di merende e di passeggiate a Beirut. Avremmo così dei ladri che operano impunemente travestiti da guardie, dei terroristi incaricati di proteggere l’area dal terrorismo, con conseguenze facili da immaginare. D’Alema potrebbe proporre al suo amico Vladimir Putin di trasformare i terroristi ceceni in una divisione dell’esercito russo, o al collega ministro Vincenzo Visco di arruolare, se non nei carabinieri, almeno nella polizia tributaria i picciotti della mafia, che certamente dispongono di metodi altamente persuasivi per far pagare a commercianti e a professionisti le nuove gabelle del Governo Prodi.
Non è poi nemmeno sicuro che, per quanto amici di D’Alema e gemellati con Diliberto, i miliziani di Hezbollah non sparino comunque sui soldati italiani. Una cosa sono i capi a Beirut, un’altra le cellule nei villaggi fanatizzate dall’odio contro i «crociati» occidentali in genere. Insomma, un’operazione per ora ambigua che nasce dalla combinazione fra la volontà di protagonismo di un governo debole e il complesso anti-israeliano di una sinistra che pensa che i nostri soldati debbano proteggere i terroristi da Israele e non Israele dai terroristi. La Casa delle Libertà farà bene a mantenersi diffidente.
VIII. Dalemallah
I servizi italiani hanno intercettato una telefonata fra Osama Bin Laden e il presidente iraniano Ahmadinejad. Non trovandovi riferimenti né a illeciti relativi al campionato di calcio né a Silvio Berlusconi, i nostri magistrati hanno deciso di distruggere il nastro. Ne pubblichiamo qui integralmente il contenuto.
«Fratello Presidente, hai visto che finalmente abbiamo un governo europeo dalla nostra, in Italia?». «Piano, fratello Osama. Ti sei dato da fare per far eleggere Zapatero ed è vero che è scappato subito dall’Iraq ma adesso è durissimo sull’immigrazione». «In Italia è diverso. Non solo vanno via dall’Iraq ma chiamano quella guerra illegale». «Però restano in Afghanistan». «Ma hanno confuso i loro militari dicendo che non dovranno sparare un colpo». «Certo: e bisogna ammettere che non si era mai trovato un ministro degli Esteri europeo disposto a passeggiare a braccetto con i capi del nostro Hezbollah. Sul Libano, almeno possiamo stare tranquilli, anche se Prodi qualche volta sembra frenare». «Ma, fratello Presidente, Prodi in politica estera non conta nulla, decide tutto D’Alema». «Del resto, sai, non è che Prodi mi preoccupi, di certo si opporrà alle sanzioni e ci lascerà costruire la nostra sacrosanta atomica in pace».
«E sull’emigrazione? Una meraviglia. Fra sanatorie, quote che saltano, cittadinanze e passaporti italiani dati più o meno a chiunque porteremo in Italia in pochi anni centinaia di migliaia, che dico milioni di fratelli fra cui troveremo certamente militanti fedelissimi». «Non scherzare, fratello Osama, lo sappiamo che di militanti fedeli in Italia ne avete già molti». «È vero, ed è un Paese benedetto da Allah, perché i giudici li lasciano fare e, se la polizia li arresta, trovano subito il modo di farli uscire. Ma, come ho già scritto anni fa, ride bene chi ride ultimo e per vendicare le sconfitte di Lepanto e di Vienna abbiamo bisogno di milioni di musulmani che emigrino in Europa. Non avremo bisogno di sparare un colpo, li prenderemo con la sola forza della demografia». «Peccato che un imbecille di pachistano abbia rischiato di rovinare tutto ammazzando la figlia». «Con il dovuto rispetto, fratello Presidente, qui vedo un po’ di lassismo sciita. La nostra Legge è chiara: se la ragazza dormiva con l’infedele la morte per lei e ottanta frustate per lui. Piuttosto, dove sono le ottanta frustate?». «Calma, fratello Osama: qualche volta l’opportunità politica viene prima della Legge. Del resto, sia io sia tu non traffichiamo forse con la droga chiudendo un occhio sulla Legge?». «Forse hai ragione. In ogni modo abbiamo già mobilitato i musulmani moderati italiani [risata] perché dicano che uccidere chi pecca non è previsto dalla nostra Legge». «Una sciocchezza». «Certo, ma grande è l’ignoranza degl’infedeli». «Ma i musulmani moderati non rischiano di confondere i nostri?». «Niente affatto: hanno già pubblicato un documento che paragona Israele ai nazisti». «Fratello Osama, lo sai che in cambio il governo italiano si aspetta che tu non organizzi attentati nel suo Paese?». «Purtroppo non posso garantirlo: vi sono tante cellule impazzite che ormai né io né tu siamo in grado di controllare. Dio protegga il fratello Dalemallah!». «Ma egli si dichiara ateo». «Il Profeta ha detto che ogni infedele che lavora per i credenti è un musulmano che non sa di esserlo».
La conversazione, naturalmente, è immaginaria. Ma ogni riferimento a persone e a fatti della politica italiana è tutt’altro che puramente casuale.
IX. La TV che predica l’odio
Vi è una richiesta israeliana cui il governo italiano si oppone, e che molti giornalisti sono riluttanti ad appoggiare perché giustamente attaccati ai sacri princìpi della libertà di espressione: chiudere la televisione Al-Manar, che trasmette dal Libano la propaganda di Hezbollah a tutto il mondo arabo e raggiunge l’Inghilterra, la Francia e la Germania; per ora, per fortuna, solo pochi riescono a vederla in Italia. I tecnici dei servizi israeliani sono riusciti a inserirsi sul segnale di Al-Manar trasmettendo brevi messaggi che annunciano la loro determinazione nel continuare a inseguire il leader di Hezbollah, Nasrallah, fino a catturarlo o a ucciderlo, ma si tratta di prodezze tecniche che non cambiano la sostanza del problema.
Al-Manar è una televisione antisemita che continua a sostenere l’antica calunnia secondo cui gli ebrei uccidono ritualmente bambini di altre religioni e mescolano il loro sangue alle azzime di Pasqua. Lo fa attraverso sceneggiati televisivi e trasmissioni «culturali». Sostiene pure — ed è un altro tema ricorrente della sua programmazione — che l’attentato dell’11 settembre è stato organizzato dal Mossad israeliano d’intesa con la CIA per permettere a Bush d’invadere l’Afghanistan e l’Iraq. Naturalmente, anche in Occidente — particolarmente in Francia, ma talora anche in Italia — esistono scrittori e giornalisti farneticanti che sostengono le stesse aberranti tesi e che, con slalom degni dell’Alberto Tomba dei bei tempi, riescono a sfuggire alle leggi contro l’odio razziale e l’antisemitismo. Ma per Al-Manar il problema è diverso.
Infatti, ogni trasmissione antisemita di Al-Manar è immediatamente seguita da appelli a colpire gli ebrei e i loro sostenitori dovunque si trovino, e dall’esaltazione sistematica degli attentati terroristici non solo di Hezbollah ma anche di Hamas e di altri gruppi. Inoltre, a differenza degli antisemiti patologici francesi o italiani, Al-Manar ha milioni di telespettatori. Come ha concluso Avi Jorisch nel suo studio su Al-Manar, La fabbrica dell’odio, la televisione di Hezbollah è una macchina per fabbricare non antisemiti «culturali», ma terroristi pronti a passare all’azione. Se in Italia vi fosse una televisione capace di raggiungere anche i Paesi vicini gestita da quanto rimane delle Brigate Rosse, e questa incitasse quotidianamente i telespettatori a prendere le armi e ad assassinare gli uomini di governo anticomunisti e i «padroni», s’invocherebbe la libertà di espressione per permetterle di continuare a trasmettere?
Il problema Al-Manar non è affatto secondario nello scenario libanese. Se vi sarà una missione italiana in Libano, e se per qualunque ragione Hezbollah — nonostante l’amicizia con D’Alema e con Diliberto — cambierà idea sulla sua utilità per loro, è da Al-Manar che partiranno gli appelli a uccidere i nostri soldati. Inoltre, la versione di Al-Manar — per quanto talora falsa in modo addirittura ridicolo — degli avvenimenti mediorientali è ripresa da molte televisioni arabe e persuade chi non ha molti altri mezzi d’informazione. Peggio, i suoi filmati — di cui pure è stata dimostrata la frequente manipolazione — sono talora utilizzati anche da televisioni occidentali.
Chiudere Al-Manar è allora essenziale per la sicurezza del Libano, ma anche di chi andrà ad aiutarlo a vivere in pace e in democrazia. La libertà di espressione è invocata a sproposito. Non vi deve essere libertà di predicare l’odio e di organizzare per via televisiva il terrorismo.
X. La rete sciita che può salvare il Medio Oriente
Ahmadinejad in Iran e Nasrallah a Beirut stanno cercando di rovesciare il tradizionale rapporto di forza nel mondo islamico, che vede gli sciiti — 15% — subordinati ai sunniti, l’80%, mentre il rimanente 5% è costituito da denominazioni «minori». Il piano preoccupa le monarchie tradizionali sunnite — Giordania, Marocco e Arabia Saudita — e perfino i sunniti di Al Qaida: se Bin Laden dialoga discretamente con Teheran, dal numero due Ayman Al Zawahiri ai comandanti di seconda generazione in Arabia Saudita, in Pakistan e in Iraq è arrivata via internet una pioggia di critiche agli errori strategici e dottrinali di Hezbollah e, implicitamente, di chi gli detta la linea, l’Iran.
Sfruttare la rivalità fra sciiti e sunniti può essere una strategia per l’Occidente, ma rischia di destabilizzare le fragilissime democrazie in Iraq e in Libano, che per sopravvivere hanno bisogno che le due branche dell’islam convivano e collaborino. Un illustre studioso dell’islam sciita, un iraniano professore negli Stati Uniti d’America, Vali Nasr, in un saggio su Foreign Affairs che sta facendo il giro della diplomazia mondiale — Vaticano compreso — propone il dialogo diretto con l’Iran e con Hezbollah come unica strada per evitare la guerra atomica, inevitabile perché l’Iran in un modo o nell’altro si doterà della bomba. La tesi ha il difetto d’ignorare la natura millenarista e apocalittica dell’ideologia di Ahmadinejad e di Nasrallah: con chi aspetta la fine del mondo e lo sterminio finale degli ebrei non si può dialogare.
Vi è un’altra via. Le critiche durissime che le massime autorità religiose sciite libanesi stanno rivolgendo in questi giorni a Nasrallah, accusandolo di avventurismo e dichiarando che non rappresenta affatto tutti gli sciiti del Libano, costituiscono una novità storica che non va lasciata cadere. Tradizionalmente l’islam sciita ha predicato l’obbedienza alle autorità costituite, chiunque fossero, e proprio nel mondo sciita è nato, intorno alla prima guerra mondiale, il movimento moderato detto «costituzionalista», uno dei primi tentativi di conciliare pensiero islamico e democrazia moderna. Certo, tutto è cambiato con Khomeini e la rivoluzione iraniana del 1979. Ma Khomeini, che ha sostituito il costituzionalismo con la teocrazia del «governo del giurista islamico», non ha mai rappresentato tutto il mondo sciita, e non mancano i suoi critici nello stesso Iran.
Il rappresentante più alto in grado al mondo della gerarchia degli sciiti — che, a differenza dei sunniti, hanno un «clero» — è l’ayatollah Ali Sistani di Najaf, in Iraq, cauto ma intelligente protagonista del dialogo con l’Occidente e con gli Stati Uniti d’America. L’Azerbaijan, altro Stato a maggioranza sciita che naviga su un mare di petrolio, ha una gerarchia religiosa moderata, cui fa riferimento anche la minoranza sciita nella cristiana Georgia. Gli sciiti dell’Arabia Saudita, a lungo discriminati, sono ora in dialogo con il re Abdallah, che ha ottenuto successi significativi nel tentativo di sottrarli all’influenza iraniana. Ora anche in Libano la gerarchia sciita attacca Hezbollah.
Non tutti gli sciiti sono terroristi. Dialogare con l’islam sciita moderato e insistere sul fatto che la posizione sciita tradizionale è diversa da quella di Ahmadinejad e di Nasrallah può essere una carta importante per isolare i terroristi e chi li sostiene. È un peccato che questi sviluppi sembrino sfuggire completamente a D’Alema, che continua a considerare come legittimi rappresentanti del mondo sciita solo Hezbollah e il governo di Teheran.
XI. D’Alema continua a non capire Hezbollah
Intervistato dal Corriere della Sera D’Alema si è vantato di chiudere ormai le telefonate con la Rice con un familiare «Bye Bye Condi». Purtroppo non basta un «Bye Bye» per assorbire la conoscenza enciclopedica che il segretario di Stato americano vanta in materia di movimenti politici e terroristici di tutto il mondo. D’Alema, infatti, ci ricasca su Hezbollah: non è costituito da terroristi, assicura, perché vanta un’imponente rete di opere assistenziali ed è rappresentato nel parlamento e nel governo libanesi. La Rice pensa esattamente il contrario, e gli Stati Uniti d’America — come del resto l’Australia e il Canada — hanno Hezbollah nella loro lista dei movimenti terroristici. La questione non è puramente accademica: considerare o meno Hezbollah come terrorista darà il segno all’intera missione militare italiana in Libano.
D’Alema richiama un luogo comune secondo cui ogni definizione di terrorismo è politica. Non è vero: è politica l’inclusione nelle liste ufficiali delle organizzazioni terroristiche per cui nella lista europea dei terroristi Hezbollah non è presente per un vecchio veto francese. Non è politica, invece, la definizione di terrorismo nel diritto internazionale, in particolare quella della Convenzione internazionale per l’eliminazione dei finanziamenti al terrorismo del 1999 delle Nazioni Unite, richiamata in numerosi testi successivi, fra cui uno dell’Unione Europea firmato a suo tempo da Romano Prodi. La convenzione definisce come «terrorismo» le attività a scopo politico, non compiute da Stati o da governi ma da privati che, secondo l’articolo 2 comma 1, mirano a causare la morte di civili non combattenti.
Sulla base di questa precisa definizione, è bene lasciare ai musulmani dell’UCOII, l’Unione delle Comunità ed Organizzazioni Islamiche in Italia, e ad altri facinorosi la definizione di «terrorismo di Stato» per le attività di Israele: il terrorismo per il diritto internazionale è l’attività di organizzazioni private, mentre gli Stati possono semmai rendersi colpevoli di crimini di guerra, che sono un’altra cosa. Hezbollah è un’organizzazione privata. Se si limitasse a sparare contro l’esercito israeliano non sarebbe terrorista, perché la definizione giuridica parla di attacchi contro civili. Dal momento che Hezbollah lancia razzi contro scuole, ospedali, ristoranti e case private, che non sono ovviamente obiettivi militari, se ne deve concludere che è costituita da terroristi.
Ma, obietta D’Alema, Hezbollah ha anche attività sociali e caritative ed è rappresentata nel parlamento e nel governo libanesi. Tutte queste attività non escludono il fatto che Hezbollah rimanga un’organizzazione privata — un partito non è uno Stato — e che colpisca obiettivi civili, quindi sia terrorista. La controprova la offre Romano Prodi che, quando era a Bruxelles, mantenne nella lista europea delle organizzazioni terroristiche Hamas, le cui attività sociali sono più imponenti di quelle di Hezbollah e che già allora aveva sindaci e parlamentari. Oggi Hamas ha anche ministri e un sia pur contestato premier dei Territori palestinesi, ma rimane un gruppo terrorista anche per l’Unione Europea.
Fra l’altro, D’Alema si sbaglia anche quando paragona Hamas a Hezbollah. In Hamas almeno esistono correnti, divise nel giudizio sugli attentati suicidi, anche se stanno purtroppo prevalendo i più violenti. Hezbollah ha un capo carismatico assoluto, Nasrallah, che inneggia agli attentati e allo sterminio di Israele, e non risulta che lo contrasti alcuna opposizione interna.
XII. Prodi, l’Iran e la nuova Monaco
La liquidazione del dibattito sulla natura «islamo-fascista» o, più esattamente, islamo-nazista, del regime iraniano come propaganda americana o del centro-destra in Italia sta producendo un disastro in politica estera. L’Iran non è un qualunque regime dittatoriale del Medio Oriente guidato da qualche generale dalla tortura facile, come quelli con cui ci si riusciva a mettere d’accordo ai tempi dei governi guidati dall’attuale senatore a vita Giulio Andreotti. È la forma più compiuta dell’islamo-nazismo: un regime fondato, come il nazismo, su una mistica apocalittica della fine di questo mondo malvagio e dell’avvento di un regno millenario del Bene, e sulla designazione di un popolo come capro espiatorio — lo stesso di Hitler, gli ebrei — che deve essere sterminato perché, finché esiste, rappresenta un ostacolo all’irruzione nella storia dell’età dell’oro. Il nodo, che è venuto al pettine quando Ahmadinejad e l’ayatollah Khamenei si sono fatti beffe dell’ennesima risoluzione ONU sul nucleare, non ha dunque semplice natura politica, ma religiosa e apocalittica.
Quando Prodi era a Bruxelles, un ministro inglese lo definì «un professore che non capisce nulla di politica estera», e infatti questa è stata lasciata ampiamente a D’Alema. Sulla crisi iraniana — un tema di cui si ritiene un esperto a causa di rapporti commerciali gestiti fin dai tempi dell’IRI, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale — Prodi ha ritenuto di dire la sua, caldeggiando una linea morbida basata sul «dialogo» e sul riconoscimento del «ruolo cruciale» di Teheran in Medio Oriente.
È vero che l’Italia ha forti interessi economici in Iran, che risalgono agli anni della Democrazia Cristiana e dello Scià, che sono stati mantenuti e rafforzati dopo la rivoluzione islamica del 1979 e che qualunque governo italiano ha interesse a proteggere. Lo stesso vale per Russia e Cina. Tuttavia vi sono sia dei limiti alla legittima protezione dei propri interessi economici, sia dei problemi di affidabilità quando si ha a che fare con fanatici millenaristi come Ahmadinejad e Khamenei. Per quanto questi si professino amici dei paesi con cui hanno forti legami commerciali e finanziari, basterebbe una fatwa estemporanea o una nuova interpretazione di qualche astruso punto della legge islamica per nazionalizzare tutti i beni delle società straniere in Iran. Ahmadinejad lo farà se ne avrà bisogno, come lo hanno fatto tiranni meno in preda a incubi apocalittici di lui.
Se si concede all’Iran di continuare a marciare verso l’atomica, trattando le risoluzioni ONU come carta straccia — e di continuare ad armare Hezbollah in Libano — ci si mette nella stessa posizione di Francia e Inghilterra quando a Monaco, nel 1938, pensarono di cedere qualcosa a Hitler per non perdere tutto. All’epoca, per inciso, l’Unione Sovietica di Jozif Stalin (1879-1953) pensava ancora di spartirsi l’Europa con i nazisti, e dalla Cina Mao Zedong (1893-1976) esprimeva la sua ammirazione per il Führer. E anche allora Russia, Francia e altri paesi sostenevano che l’importanza cruciale del mercato e dell’economia tedesca sconsigliava lo scontro frontale con Hitler, che avrebbe avuto un costo immenso per le rispettive economie. Sorridendo e concedendo, si diceva, Hitler si sarebbe invece fermato.
L’esito è noto. Hitler non si fermò, e la storia non è stata indulgente con il primo ministro britannico Arthur Neville Chamberlain (1869-1940) e con il primo ministro francese Édouard Daladier (1884-1970) che cercarono di rabbonirlo a Monaco. Se l’Iran non è una «normale» dittatura ma l’incarnazione perfetta dell’islamo-nazismo fondata sul mito dell’apocalisse prossima ventura e sul proposito di sterminare gli ebrei, chi come Prodi si piega agli ayatollah ripete inconsapevolmente la tragedia di Monaco.
XIII. Se l’ambiguità dei cristiani aiuta Hezbollah
Per anni lo slogan «Meglio rossi che morti» ha cercato di convincerci che, se il rischio era morire ammazzati, meglio piegarsi ai regimi comunisti. Anche nelle Chiese cristiane dei paesi comunisti, accanto a tanti martiri, vi era chi cantava le lodi dei regimi al potere. La legge islamica, la sharia, prevede per i cristiani e gli ebrei lo stato di dhimmi, di «protetti». Non possono svolgere attività missionaria, né accedere alle cariche pubbliche più importanti, e devono pagare tasse più alte: insomma, sono cittadini di serie B, ma almeno salvano la pelle.
È sempre difficile criticare chi la pelle la rischia ogni giorno, e oggi è tentato da un «meglio “dhimmi” che morti». Tuttavia, quando questo disagio è sfruttato all’estero, non è giusto neppure tacere. In Palestina e in Libano non sono solo politici e militari cristiani — che danno l’impressione di cercare vendetta per non essere stati a suo tempo sostenuti dall’Occidente, come il generale Michel Aoun — a mettersi al servizio di Hezbollah, accettando di fatto la posizione di dhimmi ideologici oggi nella prospettiva di diventare dhimmi a pieno titolo domani.
Anche alcune autorità religiose cristiane parlano apparentemente di teologia, ma lo fanno in un modo così ambiguo da favorire oggettivamente la propaganda di Hezbollah e di Hamas. La settimana scorsa quattro vescovi della Palestina — quello latino-cattolico, Michel Sabbah, quello siro-ortodosso, un luterano e un anglicano — hanno pubblicato un documento contro il «sionismo cristiano», una teologia diffusa nella corrente cosiddetta evangelicale, cioè conservatrice, maggioritaria nel protestantesimo degli Stati Uniti d’America, che s’inquadra in una complessa visione della imminente fine del mondo all’interno della quale lo Stato di Israele ha un ruolo preparatorio voluto da Dio. Se si vuole dire che questa forma di millenarismo non è condivisa da cattolici e da ortodossi — e neppure da anglicani e da luterani —, si afferma l’ovvio. Ma il momento scelto è sospetto, e si coglie l’occasione per scrivere che «i governi di Israele e Stati Uniti, attualmente stanno imponendo la loro dominazione sulla Palestina» e sono colpevoli di «colonizzazione, apartheid e imperialismo», frasi che non stonerebbero in un documento di Hamas o di Hezbollah. Anche il gesuita nato in Egitto, ma che è vissuto a lungo in Libano, padre Samir Khalil Samir, stimato dal Papa — e anche da chi scrive — per la sua conoscenza enciclopedica dell’islam, ha proposto un programma di pace in dieci punti — alcuni dei quali ragionevoli —, in cui però sostiene che l’unica e sola radice del problema mediorientale non è il terrorismo ma la stessa creazione, dopo l’Olocausto, dello Stato di Israele nel 1948, «una ingiustizia contro la popolazione palestinese». Fra le sue proposte vi è il famoso «diritto al ritorno», almeno parziale, dei palestinesi che hanno lasciato Israele negli anni 1940 e 1950, condizione che distruggerebbe lo Stato ebraico trasformandolo in uno Stato islamico — con i cristiani, anche qui, nella condizione di dhimmi — e che nessun governante israeliano potrà mai accettare neppure di discutere.
Tutto questo non è tanto una critica dei dirigenti cristiani mediorientali, che rischiano ogni giorno di essere accoltellati o peggio. È più colpevole chi sfrutta cinicamente le loro dichiarazioni in Occidente, per giustificare politiche «equivicine» a Israele e ai terroristi o per ripetere cantilene antisemite dove, di qualunque cosa succeda in Medio Oriente, i colpevoli sono sempre e solo gli ebrei.
Massimo Introvigne
* Articoli anticipati sul quotidiano il Giornale, di Milano — I, 30-6-2006; II, 3-7-2006; III, 21-7-2006; IV, 26-7-2006; V, 3-8-2006; VI, 17-8-2006; VII, 19-8-2006; VIII, 21-8-2006; IX, 27-8-2006; X, 29-8-2006 e XIII, 5-9-2006 — o sul sito Internet del CESNUR, il Centro Studi sulle Nuove Religioni, <www.cesnur.org>: XI, 31-8-2006; e XII, 3-9-2006. Ciascun articolo si basa ovviamente sulle informazioni disponibili alla data di pubblicazione. Lo stile, pur con qualche ritocco, è quello di commenti «a caldo», quindi assai diverso da quello di un saggio.