Massimo Introvigne, Cristianità n. 142 (1987)
Intervista con il senatore americano Orrin G.Hatch
Menzogne e verità sull’«Irangate»
Incontro a Washington il senatore repubblicano Orrin G . Hatch, eletto nello Stato dell’Utah, uno dei membri della commissione speciale del Senato degli Stati Uniti incaricata di indagare sul cosiddetto Irangate. Nato a Pittsburgh, in Pennsylvania, il 22 marzo 1934, Orrin G . Hatch si è laureato prima in storia presso la Brigham Young University di Provo, nell’Utah, e quindi in legge presso l’Università di Pittsburgh. Ha esercitato la professione di avvocato specializzato in diritto amministrativo fino al 1976, anno in cui è entrato nella vita politica ed è stato eletto per la prima volta senatore. Rieletto nel 1982, è stato presidente della Commissione Lavoro del Senato, di cui ora — in un Senato in cui il partito repubblicano ha perso la maggioranza — è stato eletto vicepresidente. Il senatore Hatch è sposato e padre di sei figli; pur essendo conosciuto per le sue battaglie al Senato soprattutto su temi di natura religiosa e morale — come l’opposizione all’aborto e l’impegno a favore della preghiera nelle scuole pubbliche — nonché per il suo intransigente sforzo di ridurre la spesa pubblica e quindi il carico fiscale, si è occupato anche di temi militari e di politica estera, sostenendo il cosiddetto «scudo spaziale» e la lotta contro la guerriglia comunista nel Salvador. Studioso di diritto costituzionale, il senatore Hatch è anche attivo nella Commissione per gli Affari Costituzionali del Senato, e fa parte del comitato organizzatore delle celebrazioni previste in quest’anno 1987 per il secondo centenario della Costituzione degli Stati Uniti. Benché i suoi interessi comprendano un ampio numero di problemi e di argomenti di rilevanza internazionale, ho ritenuto opportuno intervistarlo specificamente sul tema del cosiddetto Irangate.
D. Senatore, che cos’è — in sostanza — l’Irangate?
R. È almeno due cose diverse. Da una parte abbiamo un ’operazione «coperta» di carattere politico, diplomatico e militare che è consistita nel tentativo dell’amministrazione degli Stati Uniti di aprire un canale di contatto con alcune forze politiche iraniane. Dall’altra abbiamo assistito a un’operazione propagandistica con lo scopo di «azzoppare» politicamente il presidente Ronald Reagan prima attraverso l’improvvisa «scoperta» dell’operazione «coperta» da parte dei media e poi cercando di convincere gli americani che si è trattato di manovre vergognose e illegali. Ogni amministrazione di un paese come gli Stati Uniti deve perseguire contemporaneamente numerosi obiettivi di politica estera attraverso una molteplicità di operazioni, alcune delle quali possono riuscire solo a condizione di rimanere segrete. La tecnica è consistita nel prendere una di queste operazioni segrete, farla conoscere e dire ai pubblico: vedete, ve la tenevano segreta perché era una manovra vergognosa, immorale. E così l’operazione propagandistica è diventata più importante del fatto diplomatico-militare che ne ha fornito il pretesto.
D. Può precisare meglio gli scopi della manovra propagandistica legata all’Irangate?
R. È una manovra che ha tre principali protagonisti: certi funzionari, i media di orientamento liberal e una parte del Congresso. Il ruolo più evidente è quello dei media: i grandi giornali liberal e i grandi network televisivi — quelli che telefonano a mille persone scelte non si sa bene con quali criteri e poi annunciano che l’ottanta per cento degli americani è contro il presidente «secondo un nostro sondaggio» — hanno bombardato la nazione cercando di distruggere questo presidente e le idee per cui si è battuto. Ma se i media hanno avuto informazioni su operazioni segrete è perché qualcuno le ha fornite; si è parlato di servizi segreti stranieri, ma io credo che non manchino funzionari anche di grado altissimo che parlano troppo o che sono troppo amici di certi giornalisti. V i è una parte dell’amministrazione, costituita dai corpi indipendenti e dai burocrati di professione, che sfugge al controllo della presidenza in modo quasi totale. Vi è poi il Congresso, dove la maggioranza liberal persegue l’obiettivo politico di togliere spazio e potere a un presidente che si è presentato come l’interprete delle aspirazioni dei conservatori. Si dice che i democratici, che ora controllano sia la Camera che il Senato, hanno voluto iniziare in anticipo la campagna elettorale per le presidenziali del 1988. Si tratta, a mio avviso, di una spiegazione solo parziale del problema. Il Congresso è diviso assai più profondamente dalla spaccatura dottrinale fra liberal e conservatori — che si rivela tipicamente su temi come l’aborto o la preghiera nelle scuole pubbliche, ma anche come l’eccessiva pressione fiscale o le relazioni con l’Unione Sovietica — di quanto non lo sia dalla divisione partitica fra repubblicani e democratici. Gli osservatori specializzati distinguono quattro gruppi: democratici liberal, democratici «moderati» — che chiamano «conservatori», benché non lo siano nel senso stretto e rigoroso del termine —, repubblicani conservatori e repubblicani liberal, che chiamano erroneamente «moderati», sulla base del pregiudizio secondo cui solo un democratico può essere davvero liberal. In realtà i liberal, da molti anni, sono sempre in maggioranza perché i democratici «moderati» sono sottoposti a una disciplina di partito abbastanza stretta — e spaventati a morte dal potere dell’ala più liberal del loro gruppo, guidata dittatorialmente dal senatore Edward Kennedy —, mentre i repubblicani liberal non seguono nessuna disciplina. Questo spiega perché la lotta del Congresso contro Ronald Reagan è continuata anche quando al Senato vi era una maggioranza repubblicana. È una lotta politica: si vuole colpire il presidente perché ha affrontato argomenti «vietati», dichiarandosi contro l’aborto e la secolarizzazione dell’insegnamento, e a favore di un aiuto militare alle Resistenze anticomuniste e di una riduzione della spesa pubblica e, quindi, della pressione fiscale. Ed è, direi, anche una lotta costituzionale: l’Irangate è uno dei momenti di una crisi di carattere costituzionale.
D. In che senso, proprio nell’anno in cui si celebra il secondo centenario della Costituzione degli Stati Uniti, lei considera l’Irangate anche come momento di una crisi costituzionale?
R. Nelle celebrazioni del bicentenario si sta insistendo — giustamente — sul carattere originale della Costituzione americana rispetto alle formule democratiche europee nate dalla Rivoluzione francese, in quanto la nostra Costituzione — pur separando la Federazione da ciascuna delle numerose confessioni religiose che già allora esistevano negli Stati Uniti — in realtà non separa affatto lo Stato da Dio ed è ricca di riferimenti religiosi. Ma la nostra Costituzione è originale anche per il ruolo che dà all’esecutivo — tanto che alcuni Padri Fondatori preferivano parlare di «repubblica» piuttosto che di «democrazia» —;un ruolo particolare che il Congresso, in alcune tendenze recenti, vorrebbe rivedere, riportandoci al modello parlamentaristico britannico in cui l’esecutivo dipende dal parlamento, che è precisamente quanto i Padri Fondatori del 1787 volevano evitare. Più in generale, l’Irangate rivela il problema costituzionale posto dall’incidenza anomala di due nuovi «poteri» — il «quarto potere» dei burocrati e dei corpi ormai indipendenti dall’esecutivo, e il «quinto potere» dei media — che i Padri Fondatori non avevano previsto e che rappresentano una vera sfida al sistema dell’equilibrio fra i tre poteri tradizionali — legislativo, esecutivo e giudiziario —, che è il nucleo della Costituzione americana. Vorrei aggiungere che il «quarto potere» dei corpi indipendenti e il «quinto potere» dei media sono poteri nazionali, e tolgono ulteriore spazio all’autonomia dei singoli Stati della Federazione, che è un’altra delle caratteristiche originali del nostro sistema costituzionale. Un’autonomia, inoltre, che è già stata erosa da ripetute prevaricazioni del potere legislativo e del potere giudiziario…
D. A che punto è l’indagine sull’Irangate?
R. Continua, benché il Senato abbia già pubblicato un primo rapporto che tra l’altro scagiona il presidente dalle principali accuse che erano state rivolte a lui personalmente. Invece avrebbe potuto essere già finita, se il Senato avesse accolto la mia proposta di concedere un’immunità limitata all’ammiraglio Poindexter e al colonnello North, convincendoli così a testimoniare. Questa proposta è stata rifiutata, e ora prevedo che l’indagine continuerà per un anno, forse per due. Perché la mia proposta non è stata accettata? Perché si vogliono mandare in prigione a tutti i costi l’ammiraglio Poindexter e il colonnello North? Non vi andranno, anche se si provasse che hanno disubbidito gravemente a ordini superiori; nessun giudice americano li manderà in prigione tenendo conto delle loro passate benemerenze in guerra e in pace. E in ogni caso io propongo un’immunità limitata ai fatti su cui dovrebbero testimoniare, che non coprirebbe altri reati come eventuali appropriazioni indebite di fondi, su cui peraltro nulla a oggi risulta. Ma in realtà la mia proposta è stata respinta al solo scopo di trascinare l’indagine sull’Irangate il più a lungo possibile, impedendo così al presidente Reagan di realizzare il suo programma e preparando l’elezione di un candidato il più possibile diverso da Ronald Reagan nel 1988.
D. Senatore, abbiamo parlato finora della manovra propagandistica. Come membro della commissione d’inchiesta sull’Irangate può, senza violare naturalmente i suoi obblighi di riservatezza, dirmi qualcosa dell’operazione politico-diplomatica che è servita da pretesto alla manovra?
R. La commissione di cui faccio parte ha raccolto interi volumi di testimonianze e di documenti, da cui emerge una visione chiara degli obiettivi di politica estera che l’operazione «coperta» con l’Iran intendeva perseguire. Per semplificare citerò nove obiettivi. Primo: aprire un dialogo con l’ala più «moderata» del gruppo politico al potere in Iran per prepararsi in modo adeguato al dopo-Khomeini, che incombe considerate l’età e le condizioni di salute dell’ayatollah. Non occorre spendere troppe parole sull’importanza strategica dell’Iran: da parte mia ho sempre pensato che la terza guerra mondiale, se deve scoppiare da qualche parte, scoppierà in Medio Oriente. Secondo: aprire canali per avere almeno informazioni di prima mano sull’Iran, perché dalla nostra inchiesta è emerso che ne abbiamo assai poche. Terzo: fermare la marcia dell’Unione Sovietica per attirare l’Iran nella sua sfera di influenza — un dato di fatto di cui abbiamo le prove. Quarto: cercare di intervenire nella guerra fra Iran e Iraq, che viene sottovalutata da tutti ma che è un continuo fattore di destabilizzazione internazionale, con lo scopo di favorire una pace ragionevole. Quinto: farsi consegnare dagli iraniani l’esemplare del nuovo carro armato T-72 sovietico di cui sono venuti in possesso, e di cui noi sappiamo ben poco; questo era un obiettivo top secret che ora è stato «bruciato» dalle irresponsabili rivelazioni della stampa. Sesto: attraverso una qualche relazione con l’Iran aiutare in modo più efficace la Resistenza afgana. Settimo: cercare in qualche modo di proteggere i nostri alleati nel mondo islamico — Arabia Saudita, Giordania ed Egitto —, diminuendo l’ostilità attiva dell’Iran nei loro confronti. Ottavo: trovare interlocutori a cui spiegare che il sostegno al terrorismo sulla distanza si ritorce sempre contro chi lo dà; un’opera lunga, forse di anni, ma con un obiettivo importantissimo, Nono: se — mentre si perseguivano gli altri scopi — si fosse potuto riportare a casa qualcuno degli ostaggi, non sarebbe stata una cosa meravigliosa? Ridurre tutta questa strategia a un baratto «armi contro ostaggi» è una semplificazione ridicola. Io non dico che tutti gli obiettivi fossero effettivamente realizzabili, che i tempi fossero scelti bene, che gli specialisti avessero identificato correttamente gli interlocutori iraniani con cui dialogare. Non lo dico, non lo so e anzi so che esperti rispettabili ne dubitano. Ma gli errori nella realizzazione di un piano, e anche nel lavoro di analisi previamente necessario per realizzarlo, sono di tipo politico-diplomatico e non morale. Nella scelta degli obiettivi, in ogni caso, non vi era nulla di vergognoso e di immorale, e neppure di stupido; semmai, sarebbe stato stupido non interessarsi del dopo-Khomeini e lasciare che se ne interessassero attivamente, come stanno facendo, soltanto i sovietici. Ma si obietta: sarà tutto vero, ma abbiamo venduto armi a terroristi. Rispondo che il tipo di armi che abbiamo venduto evidenzia la loro destinazione a una guerra convenzionale e non al terrorismo o alla guerriglia. Il quantitativo in questione non rompe neppure l’equilibrio degli armamenti nella guerra con l’Iraq; l’operazione ha avuto più un significato politico — come prova della nostra disponibilità a collaborare veramente con certe forze in Iran — che militare. Si dice: ma dove è finito il principio secondo cui non si tratta con i terroristi? È un principio che ci è carissimo, ma lo abbiamo sempre applicato solo alle relazioni con i gruppi «privati» di terroristi, mentre abbiamo sempre ritenuto tristemente necessario mantenere aperto un dialogo diplomatico di qualche natura anche con gli Stati che finanziano e organizzano il terrorismo. Altrimenti — perché non dirlo chiaramente? — dovremmo evitare di trattare con un numero enorme di Stati, compresa l’Unione Sovietica. E questo che vogliono i giornalisti liberal?
D. L’Irangate viene sempre più spesso chiamato polemicamente Contragate, per sottolineare la tesi secondo cui una parte dei fondi ricavati dalla vendita di armi all’Iran sarebbe stata trasferita alla Resistenza anticomunista del Nicaragua in un’epoca in cui questo tipo di aiuti era stato vietato dal Congresso. Che cosa ha accertato o potrà accertare sul punto la commissione di inchiesta?
R. Senza le testimonianze di John Poindexter e di Oliver North ci manca probabilmente qualche elemento. Per ora è stato accertato che alcuni funzionari hanno effettivamente concepito il piano di aiutare in questo modo la Resistenza del Nicaragua in un momento in cui si trovava in gravi difficoltà. Risulta, finora, che il presidente non ne sapesse nulla. E non risulta che il denaro sia stato effettivamente ricevuto dalla Resistenza antisandinista. La mia opinione su questa parte della manovra non è favorevole, benché le polemiche sul punto siano esagerate. Voglio ribadire comunque che, forse, in tutto il Congresso degli Stati Uniti la Resistenza nicaraguense non conta su un sostenitore più convinto e accanito del sottoscritto. Ritengo che vada aiutata con aiuti umanitari e militari, con manovre «aperte» e anche con manovre «coperte». Ma l’idea di utilizzare i fondi iraniani era direttamente contraria alla legge e non può essere approvata. Inoltre era pericolosissima dal punto di vista pratico, perché richiedeva un numero tale di cautele e di intermediari da rendere improbabile che, alla fine del percorso, arrivasse effettivamente qualche cosa ai combattenti del Nicaragua. I primi elementi che abbiamo raccolto lasciano supporre che effettivamente — benché a un certo punto aiuti «straordinari» fossero stati preannunciati ad alcuni leader della Resistenza — alla fine tutto si sia fermato per strada e i contras, ancora una volta, non abbiano ricevuto nulla.
a cura di Massimo Introvigne