Antonio Casciano, Cristianità n. 419 (2023)
Si fa molto parlare di un articolo, a firma di Michela Murgia, comparso su La Stampa del 24 dicembre scorso, nel quale la scrittrice, opinionista e femminista radicale, ha espresso una serie di considerazioni critiche e di riserve su una particolare forma di devozione che i cattolici nutrono — in maniera del tutto singolare nel panorama delle confessioni cristiane, a suo dire — verso l’immagine di Gesù Bambino (1). Tale immagine rappresenta icasticamente la pienezza del mistero dell’unione ipostatica fra il Logos e la natura umana, avendo il Verbo comunicato il suo essere divino alla natura umana e non avendo, per ciò solo, Cristo-uomo perso nulla dell’unità e unicità del suo essere persona, generata ab aeterno dal Padre e nel tempo da Maria. L’Incarnazione è il punto culminante della rivelazione divina e di tutta la storia umana.
Vi sono, in particolare, due assunti della scrittrice sarda che mi pare si prestino a una considerazione più articolata e profonda, due conclusioni che, al netto delle esigenze di spazio e di linguaggio imposte dalle regole giornalistiche, meritano l’attenzione di chi vuol dimostrare, quanto a quella devozione, l’ortodossia dei dogmi a cui essa rinvia e la salubrità per la vita dello spirito di chi fruttuosamente la pratica. Con il primo la Murgia allude al fatto che «[…] diventare come Dio non è alla nostra portata», dacché se Dio si è fatto uomo è «[…] perché ha preso sul serio il nostro essere umani»,caricandosi di «tutto quello che ci costringe ad abitare la contraddizione, che è sempre un posto scomodo»; con il secondo, invece, fa notare che «se l’unica incarnazione che ci commuove è quella del neonato, è perché è più facile rendere la divinità bambina che l’umanità adulta davanti alle sue contraddizioni». Due affermazioni tranchant, impegnative tanto nelle premesse che postulano quanto nelle conclusioni a cui rinviano, e che impongono — vincendo il pudore suscitato dal rischio di incorrere in quelle forme odiose di decontestualizzazione che ogni operazione di resezione testuale porta con sé — qualche breve delucidazione in merito, con l’intento di rendere giustizia alla verità.
La sinistra ha da sempre un problema — risalente e ricorrente — con l’idea stessa di infanzia, un vero e proprio inciampo concettuale, che di fatto ha inibito lo sviluppo organico di un’antropologia integrale e integralmente realistica. L’infante, infatti, è un elemento oggettivamente disturbante per l’opera ossessiva di ideologizzazione del reale che la sinistra non ha mai smesso di perseguire e che la teorizzazione marxista ha portato al parossismo teorico. Tale ideologizzazione avviene tramite un’elaborazione basata su un’antropologia riduzionistica che snatura l’essere umano, deprivandolo di quanto non riducibile alla pura materialità corporea, sensoriale, organica e, dunque, della sua anima e di tutte le esigenze spirituali che a essa ineriscono (2).
Ebbene, l’infante sfugge a tali esigenze teoretiche semplicemente perché, con il suo essere e il suo agire, incarna comportamenti non sussumibili negli schematismi imposti dagli ideologi dell’irrealtà, che recalcitrano inseguendo una serie di meta-narrazioni obnubilanti l’essere e la sua verità ontologica. Ciò si coglie bene se solo si considera, paradigmaticamente, il modo in cui l’infante conosce. Le peculiarità dell’apprendimento infantile variano a seconda dello stadio di crescita nel quale il bambino si trova e, tuttavia, i massimi esponenti nello studio dello sviluppo cognitivo infantile — da Jean Piaget (1896-1980) a Lev Semënovič Vygotskij (1896-1934) e a Jerome Bruner (1915-2016) — concordano nel ritenere che lo sviluppo cognitivo del bambino deriva dall’interazione che instaura con la realtà circostante, a partire dalla quale realizza una trasformazione, in termini di acquisizione, di informazioni utili alla conoscenza pratica.PerPiaget in particolare, l’intelligenza è una funzione cognitiva, che permette l’adattamento del bambino all’ambiente che incontra fuori di sé e che garantisce l’equilibrio fra le diverse strutture cognitive: l’atto intelligente si organizza attraverso l’immagine, laddove la sperimentazione degli oggetti avviene attraverso l’esperienza sensoriale (3).
Esperienza sensoriale primaria e intelligenza capace di sintesi simbolica a partire dal dato reale: si tratta con piena evidenza di una metodologia della conoscenza che si oppone ab imis all’epistemologia propria della modernità. Nella filosofia moderna, infatti, a cominciare da René Descartes «Cartesio» (1596-1650) — in opposizione alla tesi postulante l’esistenza di un oggetto reale fuori dal soggetto conoscente, la cui verità si impone con immutabile evidenza ad ogni uomo — si è imposta la tesi, già sostenuta due millenni prima dal sofista Protagora (490-415/411 a. C.), per cui «l’intelletto dell’uomo è misura di tutte le cose». Immanuel Kant (1724-1804) dirà che l’intelletto dell’uomo è legislatore. Di contro, l’epistemologia realistica di matrice aristotelico-tomista dà semplicemente per acquisita l’esistenza reale dell’oggetto e del mondo esterno, senza che vi possa essere alcun motivo ragionevole per mettere in discussione tale certezza. La quale, naturalmente, implica la netta distinzione fra soggetto conoscente e oggetto conosciuto e la ferma convinzione che quest’ultimo sia il dato «primitivo», al quale poi il soggetto applica le proprie categorie interpretative, adeguando il suo intelletto alle cose reali (adaequatio rei et intellectus). Per arginare la dirompente carica di destrutturazione del reale apportata dalla modernità, allora, non resta che rifiutare in toto il metodo di Descartes per tornare a un realismo spontaneo, naturale, che Étienne Gilson (1884-1978) definiva del «senso comune» (4), cioè quel realismo scaturente dall’immediatezza intuitiva che l’esperienza del reale possiede per l’essere umano fin dalla sua prima infanzia, appunto. «I bambini, nel loro modo di conoscere, implicitamente riconoscono e certificano che il realismo non è un’opzione tra le tante, ma è l’unico e fondamentale criterio di conoscenza valido, che ha origine dai sensi e dal mondo esterno, dall’esperienza da cui l’intelletto astrae i dati della conoscenza» (5).
Eppure — è questo il punctum dolens — l’epistemologia dell’oggettività cui obbediscono i percorsi di apprendimento dei bambini entra radicalmente in conflitto con le esigenze di riscrittura mistificante del reale che la modernità ha fatto proprie e che trova nella decostruzione del nesso sesso-genere la sua espressione più pregnante e compiuta (6). Occorre allora contrastare chi aderisce ai dettami di una metodologia che relega il soggetto al ruolo di attore co-protagonista dell’avventura della conoscenza, proprio a partire da chi più spontaneamente e naturalmente lo fa. L’iper-sessualizzazione precoce dei bambini (7), epifenomeno di una più ampia tendenza alla adultizzazione degli stessi e alla banalizzazione della sessualità; l’uso della triptorelina per il trattamento di casi di preadolescenti cui è stata diagnosticata una disforia di genere, dunque, fuori dalle ipotesi di un impiego terapeutico per i casi di sviluppo puberale patologico; le spinte per la legalizzazione di percorsi di studio che promuovano l’equiparazione di ogni orientamento sessuale e di ogni tipo di unione alla famiglia naturale; la prevalenza dell’identità di genere sul sesso biologico (con la conseguente normalizzazione della transessualità e del transgenderismo) e la decostruzione di ogni comportamento o ruolo tipicamente maschile o femminile; l’accesso alla chirurgia di riassegnazione del sesso garantita a fasce d’età sempre inferiori e sempre più spesso messa a disposizione dai servizi sanitari nazionali; le cosiddette norme sulla carriera alias: tutto concorre al fine di alterare e riplasmare il reale, e l’umano in particolare, proprio della modernità. E tutto presuppone, sul piano teorico, gli assunti propri del decostruzionismo post-strutturalista francese, quello di Jacques Derrida (1930-2004), Michel Foucault (1926-1984), Gilles Deleuze (1925-1995), Pierre-Félix Guattari (1930-1992), Jean-Paul Sartre (1905-1980) e Simone de Beauvoir (1908-1986), pietre miliari di un percorso speculativo che dalla French Theory è giunto fino ai Gender Studies e, esito ultimo della decostruzione post-femminista del modello di umanità naturale, alla Gender Theory di Judith Butler. Sarà forse un caso che gli antesignani del pensiero radical-libertario di cui sopra furono anche i firmatari del Manifesto in difesa della pedofilia pubblicato su Le Monde il 26 gennaio 1977 (8), redatto in conseguenza dell’appello pubblico promosso dopo che tre uomini erano stati arrestati per avere avuto rapporti sessuali reiterati con ragazzi non ancora quindicenni? Anche quella tristissima parentesi di raccapriccio e piena degradazione umana e intellettuale è da ascriversi all’imbarazzo, all’impaccio, finanche all’odio, che la sinistra ha da sempre nei confronti dell’infanzia (9).
Non stupisce allora che Michela Murgia, per quanto i toni della sua riflessione siano ben distanti dallo sfiorare temi come questi, si cimenti in una critica della devozione cattolica all’infanzia di Gesù, a ben vedere rientrante in un più ampio disegno di ripudio di quell’età, nel solco dell’epistemologia post-femminista, del nichilismo anti-umano, post-metafisico tipico del marxismo. Già Friedrich Engels (1820-1895) aveva individuato il primo antagonista alla lotta di classe nella famiglia naturale, nello schematismo dualistico genitori-figli e nel matrimonio monogamico, capace di realizzare, a suo dire, la prima forma di oppressione dell’uomo sulla donna (10). La famiglia era per lui la radice di ogni diseguaglianza. E la femminista canadese Shulamith Firestone (1945-2012) aggiungeva che il comunismo ha fallito proprio perché si è concentrato sugli aspetti socio-economici, piuttosto che sulla famiglia e sulle forme di oppressione, anche sessuali, che essa perpetua (11): «Così, senza il tabù dell’incesto, gli adulti potrebbero tornare nel giro di poche generazioni a una sessualità polimorfa più naturale, alla concentrazione sul sesso genitale e sul piacere orgasmico lasciando il posto a relazioni fisiche/emotive totali che lo includevano. Le relazioni con i bambini includerebbero il sesso genitale di cui il bambino era capace, probabilmente molto più di quanto crediamo ora, ma poiché il sesso genitale non sarebbe più il fulcro centrale della relazione, la mancanza di orgasmo non rappresenterebbe un problema serio. I tabù sul sesso adulto/bambino e omosessuale scomparirebbero, così come l’amicizia non sessuale» (12). Non occorre aggiungere altro a commento del modo di concepire la famiglia in generale, l’infanzia in particolare, da parte di una certa sinistra, che taccia di infantilismo pratiche devozionali radicate nella tradizione della religione e del culto cattolici e che, invece, dischiudono la ricchezza incomparabile degli insegnamenti che il Magistero della Chiesa cattolica ci ha consegnato proprio sulla famiglia a partire dalla contemplazione dei fatti della notte di Betlemme (13).
Ma vi è almeno un altro aspetto che cela la distanza siderale che separa Michela Murgia da una conoscenza viva e vitale del cristianesimo e del suo Dio: la mancata comprensione dell’importanza che ha per una vita di fede adulta e pienamente realizzata il paradigma dell’«infanzia spirituale», a cui ancora una volta rimanda, inesorabile, la figura dell’infante adorato dai cattolici nella mangiatoia di Betlemme. La superbia intellettuale a cui ci introducono le passionali analisi della Murgia distoglie dal comprendere la reale portata dell’imperativo dell’umiltà che la coerente vita di fede chiede al cristiano. L’infanzia spirituale, che la contemplazione del Nato di Betlemme ispira, affonda le sue radici nella filiazione adottiva che Cristo è venuto a realizzare con l’Incarnazione: siamo infatti figli nel Figlio e in forza di questo status possiamo rivolgerci a Dio con l’espressione: «Abbà, Padre» (Rm 8,15; Gal 4,6).
Il modello di una vita pienamente ispirata all’infanzia spirituale è stato realizzato da santa Teresa di Lisieux (1873-1897). Colpita dall’espressione biblica «Chi è piccolo venga a me» (Prov 9,4), Teresa è stata toccata dall’invito di Gesù a «venire» a Lui, soprattutto in Mt 19,14: «Lasciate che i bambini vengano a me». A partire da questi princìpi Teresa viene elaborando immagini, parabole, atteggiamenti pratici con una consapevolezza piena e matura della nostra consustanziale debolezza e vulnerabilità al peccato. Da qui l’abbandono filiale nella prova e la generosità nelle «piccole cose» della vita quotidiana ove ella si rifugiava, lontana da ogni affermazione di sensazionalismo e mondanità, alla ricerca della pratica attuazione della «piccola via».
L’affidamento e la fiducia nascono da un genuino e autentico senso di impotenza, di debolezza, di insufficienza che ci abita fin da bambini e che ci spinge a cercare in chi è più grande la protezione, la guida, il supporto, in una parola tutto quanto necessario per vivere. Anche questo insegna ai cattolici il Bambino della mangiatoia: vincere l’isolamento patologico cui ci spinge l’individualismo solipsistico moderno, tendente soltanto alla massimizzazione edonistica del desiderio del singolo e dove l’alterità è pensata come accidente, episodio, eventualità. Questo è l’esito triste a cui conduce la concezione «libertaria» della libertà, divenuta oggi supporto argomentativo per legittimare ogni pratica, dalla temporaneità delle relazioni all’equivalenza delle identità sessuali, fino alla disponibilità piena del corpo, proprio e altrui. Non è più importante porsi domande sul contenuto o sul fine di un qualsiasi atto, purché lo stesso sia compiuto «in libertà»: è il predominio di un formalismo etico che ha smarrito l’idea della libertà come adesione incondizionata a un bene oggettivo che ci precede, ci eccede e ci abita. Eppure, «la libertà può uscire dal non essere o restarvi, può affermare se stessa o ricadere nel nulla della sua negazione» (14): come evitare di negarla del tutto con le nostre scelte?
Forse, l’ambito che maggiormente risente di questa cultura «libertaria» della libertà è proprio quello delle relazioni interpersonali, in special modo quelle inerenti alla sfera familiare e affettiva, viste ora come vero e autentico «paradiso dei desideri», da realizzare attraverso l’impiego massiccio della tecnica, come nel caso, appunto, della triptorelina o della chirurgia di affermazione sessuale. Ma esiste una ragione, determinante, per opporsi all’edonismo oggi imperante, ed è la radicale incapacità dell’edonista militante a cogliere l’attitudine all’auto-trascendenza propria dell’essere umano, che lo apre all’altro, rendendolo capace di empatia, di una percezione dell’altro che si serve della mediazione corporea, ma non si risolve in essa. L’essere personale è un ente reale, che vive in relazione e di relazione (15): tutto nell’uomo si manifesta come desiderio della vita come relazione ed è la dinamica relazionale del desiderio a configurare un modo di essere che nella scoperta dell’alterità oltrepassa i determinismi naturali, aprendo alle esperienze della gratuità, ovvero del sacrificio, dell’amore, della bellezza. Anche tutto ciò è venuto a insegnare a noi cattolici il tenero Germoglio di Iesse, con la sua muta e inalterabile testimonianza di minorità e insieme di dono. È questo il Dio fattosi piccolo fra i piccoli, che noi cattolici ci compiaciamo di contemplare, adorare e lodare nella semplicità tutta evangelica della grotta di Betlemme. E che Michela Murgia non sa, o forse finge di non sapere.
Antonio Casciano
Note:
1) Cfr. Michela Murgia, I cattolici amano un Dio bambino perché rifiutano la complessità, in La Stampa, 24-12-2022. Le citazioni senza riferimento alcuno sono tratte da questo articolo.
2) Come dice Aristotele di Stagira (384/383-322 a.C.) l’anima è «l’atto del corpo fisico organico, che ha la vita in potenza» (Summa theologiae, I, q. 76, art. 4), cioè, al tempo stesso, il corpo, in virtù dell’anima, «è un corpo, è organico e ha la vita in potenza» (ibidem). Per atto si deve intendere l’atto primo, il quale è «in potenza rispetto all’atto secondo, consistente nell’operazione» (ibidem). Per giunta, «una tale potenza non elimina l’anima, ossia non la esclude» (ibidem); anzi, «l’anima è inclusa» (ibidem) nel corpo, perché è proprio in virtù dell’anima che il corpo è un corpo organico avente la vita in potenza, nello stesso modo secondo cui si dice che un corpo è luminoso «grazie alla luce» (ibidem) che è in esso.
3) Cfr. Jean Piaget, Lo sviluppo mentale del bambino e altri studi di psicologia, trad. it., Einaudi, Torino 2000, pp. 21 e 24.
4) Cfr. Étienne Gilson, Il realismo. Metodo della filosofia, trad. it., Leonardo Da Vinci, Roma 2008.
5) Fernando Fiorentino, Temi di filosofia aristotelico-tomista. Verità, bellezza e scienza, EDI. Editrice Domenicana Italiana, Napoli 2008, p. 31.
6) Secondo la statunitense Judith Butler, aralda della filosofia dell’indifferentismo sessuale, in natura non vi sarebbe una mascolinità/femminilità biologicamente definita, né ve ne sarebbe traccia sotto il profilo cromosomico, genitale o psicologico, come dimostrerebbe l’esistenza di ermafroditi. Il genere, in ultima analisi, definirebbe il sesso di una persona e non il contrario: l’identità di genere è il frutto di una scelta sessuale personalissima fatta alla luce di una pluralità di significati che possono essere discrezionalmente attribuiti a un corpo sessuato. Si tratterebbe di ripensare le costruzioni ontologiche delle identità per eliminare ogni forma di oppressione/discriminazione/marginalizzazione operata dalla mentalità castrante indotta dal binarismo di genere (cfr. Judith Butler, Fare e disfare il genere, trad. it., Mimesis, Milano 2014; e il mio Identificazione «performativa» del genere e decostruzione liberatoria in Judith Butler. Prospettive critiche, in Cristianità, anno L, n. 415, maggio-giugno 2022, pp. 37-46).
7) Secondo la definizione dell’American Psychological Association il concetto di sessualizzazione comprende quattro fattori, ognuno dei quali singolarmente può esserne già indicatore senza che siano necessariamente tutti compresenti: 1) il valore di un individuo è determinato esclusivamente dal suo sex appeal o dal suo comportamento sessuale; 2) una persona deve conformarsi al principio che equipara l’attrattiva fisica con l’essere seducente; 3) una persona è considerata al pari di un oggetto sessuale ed è destinata ad essere trattata come tale, piuttosto che essere valutata per l’autonomia e le capacità decisionali; 4) la sessualità viene imposta a una persona in modo inappropriato (cfr. American Psychological Association, Report of the APA. Task Force on the Sexualization of Girls, Washington D.C. 2002).
8) Cfr. Giulio Meotti, Il ’68 dei pedofili, in Il Foglio Quotidiano, 7-9-2013.
9) «La società repressiva e la morale dominante considerano “normale” soltanto l’eterosessualità — e, in particolare, la genitalità eterosessuale. La società agisce repressivamente sui bambini, tramite l’educastrazione, allo scopo di costringerli a rimuovere le tendenze sessuali congenite che essa giudica “perverse” […]. L’educastrazione ha come obiettivo la trasformazione del bimbo, tendenzialmente polimorfo e “perverso”, in adulto eterosessuale, eroticamente mutilato ma conforme alla Norma» (Mario Mieli [1952-1983], Elementi di critica omosessuale, a cura di Gianni Rossi Barilli e Paola Mieli, nuova ed. ampliata, Feltrinelli, Milano 2002, p. 17). Lo stesso autore, più avanti, afferma: «Noi checche rivoluzionarie sappiamo vedere nel bambino non tanto l’Edipo, o il futuro Edipo, bensì l’essere umano potenzialmente libero. Noi, sì, possiamo amare i bambini. Possiamo desiderarli eroticamente rispondendo alla loro voglia di Eros, possiamo cogliere a viso e a braccia aperte la sensualità inebriante che profondono, possiamo fare l’amore con loro. Per questo la pederastia è tanto duramente condannata: essa rivolge messaggi amorosi al bambino che la società invece, tramite la famiglia, traumatizza, educastra, nega, calando sul suo erotismo la griglia edipica. La società repressiva eterosessuale costringe il bambino al periodo di latenza, ma il periodo di latenza non è che l’introduzione mortifera all’ergastolo di una “vita” latente. La pederastia, invece, “è una freccia di libidine scagliata verso il feto”» (p. 62).
10) Cfr. Friedrich Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato. In rapporto alle indagini di Lewis H. Morgan, trad. it., Editori Riuniti, Roma 2005, pp. 57-110.
11) Il femminismo post-marxista propugnato dalla Firestone è condensato in questo delirante passaggio, dove si invoca apertamente l’instaurazione di un regime pansessuale da fondarsi sulla freudiana «perversione polimorfa», quasi a precorrere le più avanzate posizioni dell’attuale «teoria del genere»: «Così come per assicurare l’eliminazione delle classi economiche occorre la rivolta delle classi indigenti (il sottoproletariato) e, in una dittatura temporanea, il loro sequestro dei mezzi di produzione, così per assicurare l’eliminazione delle classi sessuali occorre la rivolta del sottoproletariato (donne) e la presa del controllo della riproduzione: non solo la piena restituzione alle donne della proprietà del proprio corpo, ma anche la loro (temporanea) presa del controllo della fertilità umana — la nuova biologia della popolazione così come tutte le istituzioni sociali della gravidanza e educazione dei figli. E proprio come l’obiettivo finale della rivoluzione socialista non era solo l’eliminazione del privilegio di classe economica, ma della stessa distinzione di classe economica, così l’obiettivo finale della rivoluzione femminista deve essere, a differenza di quello del primo movimento femminista, non solo l’eliminazione del privilegio maschile ma della stessa distinzione di sesso: le differenze genitali tra gli esseri umani non avrebbero più importanza culturalmente» (Shulamith Firestone,The Dialectic of Sex. The Case for Feminist Revolution, Bentham Books, New York 1970, pp. 10-11).
12) Ibid., p. 240.
13) «Qui impariamo il metodo che ci permetterà di conoscere chi è il Cristo. Qui scopriamo il bisogno di osservare il quadro del suo soggiorno in mezzo a noi: cioè i luoghi, i tempi, i costumi, il linguaggio, i sacri riti, tutto insomma ciò di cui Gesù si servì per manifestarsi al mondo. Qui tutto ha una voce, tutto ha un significato. Qui, a questa scuola, certo comprendiamo perché dobbiamo tenere una disciplina spirituale, se vogliamo seguire la dottrina del vangelo e diventare discepoli del Cristo. Oh! come volentieri vorremmo ritornare fanciulli e metterci a questa umile e sublime scuola di Nazaret! Quanto ardentemente desidereremmo di ricominciare, vicino a Maria, ad apprendere la vera scienza della vita e la superiore sapienza delle verità divine! Ma noi non siamo che di passaggio e ci è necessario deporre il desiderio di continuare a conoscere, in questa casa, la mai compiuta formazione all’intelligenza del vangelo. Tuttavia, non lasceremo questo luogo senza aver raccolto, quasi furtivamente, alcuni brevi ammonimenti dalla casa di Nazaret» (san Paolo VI [1963-1978], Discorso a Nazaret, 5-1-1964).
14) Luigi Pareyson (1918-1991), Ontologia della libertà, Einaudi, Torino 2002, p. 10. «L’uomo è un rapporto: non che sia in rapporto, non che abbia un rapporto, ma è un rapporto, più precisamente un rapporto con l’essere (un rapporto ontologico), rapporto con altro (intenzionalità, cioè l’intenzionalità husserliana ontologicamente approfondita). E in questo rapporto che l’uomo è, consiste la sua esistenzialità, la sua singolarità, la sua storicità» (ibidem, p. 10).
15) Il filosofo Martin Buber (1878-1965) avrebbe affermato all’inizio della sua ricerca: «Non c’è alcun io in sé, ma solo l’io della parola fondamentale io-tu, e l’io della parola fondamentale io-esso» (Martin Buber, «Io e Tu (1923)», in Il principio dialogico e altri saggi, trad. it., San Paolo, Milano 1993, pp. 57-157 [p. 59]).