La domanda di giustizia, che gli abusi sui minori commessi da uomini di Chiesa pongono, esige una risposta giudiziaria, oltre che di fede e di cultura; non servono, però, processi sommari, affidati a Commissioni «indipendenti» alla ricerca di presunti colpevoli, più che della verità. L’esigenza di accertare le responsabilità neppure può condurre a sacrificare il sigillo sacramentale della confessione: non vi è bisogno di far entrare il giudice nel confessionale per identificare e punire i colpevoli di crimini così odiosi. La difesa della riservatezza del rapporto con il penitente è un baluardo della libertà religiosa ed è l’antemurale di ogni spazio di autonomia rispetto all’invadenza del potere. Si tratta, in definitiva, di un allarme che, pur toccando il cuore della vita della Chiesa, va ben oltre il sacro recinto. È stato raccolto in proposito il parere di un’autorevole canonista, la professoressa Geraldina Boni, docente di diritto ecclesiastico e diritto canonico all’Università di Bologna, dal 2011 consultore del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, intervistata dal magistrato Domenico Airoma, di Alleanza Cattolica.
D. Il ricorso a «commissioni indipendenti» per l’accertamento di responsabilità correlate ai casi di pedofilia in che modo si pone rispetto ai tradizionali strumenti di accertamento conosciuti dal diritto canonico?
R. Il tema delle «commissioni indipendenti» — termine invero ambiguo, non essendoci evidentemente un concorso per titoli in vista della scelta dei membri — è oggi molto dibattuto. Sono ancora in corso le roventi polemiche sull’operato della cosiddetta Commission Sauvé — la commissione indipendente sugli abusi sessuali nella Chiesa in Francia — con le critiche, specialmente di ordine metodologico, che le sono state anche autorevolmente rivolte. Non vorrei entrare in questo dibattito e ripetere quanto già ampiamente commentato.
Da giurista, però, ci tengo a sottolineare come secoli di riflessione teorica e di esperienza pratica abbiano insegnato che la via più idonea e sicura per accertare la verità dei fatti è quella del processo giudiziario. In esso l’evoluzione del diritto — negli ordinamenti secolari ma con la collaborazione, specie nel Medioevo, del diritto canonico — ha progressivamente predisposto dei mezzi che consentono di approdare al maggior grado di certezza umanamente possibile. E soprattutto lo consentono rispettando il diritto di difesa degli accusati, «ritenuti innocenti finché non sia provato il contrario», come ha esplicitamente prescritto (sia pure in maniera non del tutto soddisfacente) il nuovo Libro VI del Codex Iuris Canonici sul diritto penale da poco promulgato: ma anche tutelando la dignità delle vittime dei comportamenti delittuosi e le loro pretese di risarcimento dei danni subìti. I fatti devono essere accertati su impulso di denunce puntuali contro imputati identificati, chiamati a rispondere — adducendo prove in contraddittorio — di precisi reati, secondo il diritto vigente all’epoca in cui furono commessi e tenendo conto del favor rei.
Questi cui ho appena accennato — senza entrare nel dettaglio tecnico — non sono astuti tranelli creati da legulei imbroglioni per lasciare impuniti i delinquenti: al contrario, sono tutti princìpi di civiltà giuridica irrinunciabili, conquistati faticosamente e, si credeva, in maniera irreversibile, protèsi al raggiungimento di soluzioni coerenti a giustizia. Non si vede, quindi, perché gli abusi sessuali compiuti da chierici e religiosi non debbano essere verificati davanti a tribunali nel modo che si è dimostrato migliore per permettere l’accertamento della verità a magistrati terzi e competenti: e debbano invece essere oggetto di «indagini» che, senza voler qui sottilizzare sulle specifiche modalità di ciascuna, certamente non fruiscono di quelle garanzie per accusati, vittime, giudici stessi, di cui il processo penale, scandito da una maturazione ultracentenaria, è corredato. Infatti, il loro svolgersi al di fuori del canale del giusto processo di per sé non può non gravarle del sospetto della sommarietà e della parzialità: se non della strumentalizzazione politica, anche a discapito dell’interesse delle vittime stesse. Per non parlare del paradosso secondo il quale gli abusi sessuali compiuti da chierici e religiosi sono gli unici posti perennemente sotto i riflettori di questa inedita «sacra inquisizione»: a fronte, da una parte, dell’impegno poderoso nella repressione avviato dalla Chiesa cattolica — unica fra le istituzioni — già a partire dal pontificato di Giovanni Paolo II (1978-2005) con un inasprimento assai incisivo della sua normativa; e a fronte, dall’altra, di una diffusa tolleranza e di un’assoluzione generale per gravi abusi del tutto similari commessi in «ambienti» diversi da quello ecclesiale.
D. Le decisioni che hanno istituito tali commissioni rappresentano un novum? Possono costituire precedenti pericolosi?
R. Vi sono vari esempi nel mondo di commissioni costituite o per iniziativa statale o per decisione delle autorità ecclesiastiche: e rappresentano già un precedente pericoloso proprio per quanto appena illustrato. Mi permetto un’osservazione desunta dalla prassi giuridica. Recentemente ha suscitato un certo clamore la decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) che per la prima volta ha riconosciuto l’immunità della Santa Sede dalla giurisdizione interna degli Stati nelle controversie su richieste di risarcimento per abusi sessuali compiuti da membri del clero cattolico. Lasciando da parte tale questione, vorrei notare l’anomalia della causa sin dalla fase genetica: in essa risultava indeterminato, se non completamente assente, quel minimo di piattaforma probatoria che precede logicamente e necessariamente ogni legittima pretesa risarcitoria. Venivano, cioè, solo «affermati» generici danni per generici abusi sessuali addebitati a chierici, senza che nulla fosse stato provato e accertato previamente in un processo. Proprio per questo, del tutto esattamente e del resto in maniera (almeno sino ad oggi) scontata, è stato stabilito che, poiché i fatti addebitati agli altri imputati — vescovi e superiori di ordini religiosi — non erano stati sostenuti dai ricorrenti con elementi concreti e circostanziati, il ricorso, limitatamente ai convenuti diversi dalla Sede Apostolica, fosse da ritenersi radicalmente nullo nella fase di merito, come sottolinea la stessa Corte EDU.
Tuttavia, mi chiedo che cosa succederà — prima di tutto nella percezione collettiva — qualora queste commissioni «indipendenti» dovessero moltiplicarsi e i risultati delle loro indagini extraprocessuali, condotte sulla base di mere «dichiarazioni», a volte con telefonate, nel totale anonimato, non suffragate da prove e non verificate in contraddittorio, si reputassero fondati e definitivi: oltre che titolo sufficiente per richieste risarcitorie. Forse, allora, non risulteranno più chiaramente inaccettabili, come finora del tutto pacifico, le rivendicazioni solo accampate ma non documentate in alcun modo, del tipo di quelle giunte al vaglio della Corte di Strasburgo. E, più generalmente, ci si deve interrogare se ci arrenderemo a questo metodo di imputare i crimini e di individuare i colpevoli, rinnegando il pilastro del giusto processo cui si è approdati, attraverso un lungo itinerario, al fine di accertare la verità nel rispetto della giustizia: verità cui hanno il sacrosanto diritto, invece, sia gli accusati sia le vittime. La prospettiva è davvero inquietante: dopo i «processi mediatici» — spesso rivelatisi infarciti di falsità — che distruggono in pochi secondi e in maniera irrecuperabile la buona fama e la vita delle persone, avremo l’affidamento cieco a commissioni presunte «indipendenti» che «giudicano» secondo criteri e procedure discrezionalmente determinati e non sindacabili, che possono travolgere tragicamente degli innocenti.
D. Ma, allora, quale sarebbe secondo Lei la strada più proficuamente percorribile per contrastare il fenomeno degli abusi, specie se commessi su minori o persone vulnerabili?
R. Occorre ovviamente, oltre che prevenire, contrastare e reprimere con fermezza e rigore l’abominio degli abusi: ma davanti ai tribunali dello Stato e davanti ai tribunali della Chiesa, e senza abdicare, in entrambi gli ordinamenti, al giusto processo. Su questo terreno non si può recedere, a costo altrimenti di un regresso di civiltà macroscopico: su ciò stupisce l’inconsapevolezza di molti che reclamano a gran voce le commissioni «indipendenti».
Essendo io una canonista, ricordo che la Chiesa ha appena novellato il suo diritto penale nella direzione di un notevole irrigidimento della disciplina con l’introduzione di nuovi delitti, la maggiore severità delle sanzioni e la forte limitazione della discrezionalità delle autorità nella loro applicazione. Eppure, non sembra essere percepita l’esigenza di una riforma a mio avviso assai più urgente: quella rivolta a superare la normativa emergenziale, e caotica, di questi anni che ha visto centralizzarsi nella Congregazione per la Dottrina della Fede la punizione dei cosiddetti delitti più gravi, fra cui gli abusi sessuali da parte di chierici, per procedere poi normalmente, al fine di poter provvedere al grande numero di casi, in via amministrativa. Il procedimento amministrativo è più snello e rapido ma, purtroppo, non garantisce gli standard del giusto processo. Va effettuata, invece, una revisione della regolazione del processo penale che elimini le carenze normative e prospetti la procedura giudiziaria come la via maestra per la comminazione delle pene, a salvaguardia delle vittime e senza lesioni del diritto di difesa. Una via agile e ben strutturata, percorribile da tutti i tribunali della Chiesa così che chi ha subìto (o ha notizia di) un abuso possa denunciarlo, consentendo che vengano celermente ma accuratamente accertate le responsabilità. Rimarco poi che per i delicta reservata alla Congregazione per la Dottrina della Fede la prescrizione è derogabile e quindi l’essere trascorso molto tempo dal fatto contestato non costituisce un ostacolo all’avvio della causa: una scelta cui l’ordinamento canonico è pervenuto, pressoché unico al mondo, sulla spinta delle pressioni esterne, ma misconoscendo — mi sia consentito lamentarlo — le legittime ragioni che sostengono tale istituto, soprattutto la garanzia per il cittadino di non trovarsi esposto al potere punitivo dello Stato per un tempo non prevedibile. Ciò sarà possibile, fra l’altro, se si permetterà ai laici di svolgere mansioni giudiziarie così che si provveda all’amministrazione della giustizia in modalità congrue e in tempi ragionevoli: un laicato consapevole e preparato, provvisto dei titoli di studio canonici ma anche, simultaneamente, secolari che attestino l’idoneità alla funzione giudicante. Le norme che richiedono il sacerdozio per ricoprire incarichi giudiziali — già dispensabili — appaiono oggi discutibili, retaggio di quel clericalismo tanto riprovato da Papa Francesco. Non è questa la sede per approcciare, neppure per sommi capi, la questione anche nelle sue implicazioni teologiche: ma se il supremo legislatore canonico, con la riforma del processo di nullità matrimoniale del 2015, ha attribuito a laici — due su tre nel collegio — il potere di accertare la nullità o meno di un sacramento, non si vedono motivi plausibili per precludere ad essi i giudizi penali, anche nei confronti di chierici. Insomma, mi sembra che vi siano strade proficuamente e celermente percorribili, senza abbandonare il baluardo del giusto processo rimettendosi a «indagini» più o meno attendibili di commissioni «indipendenti»: di cui nessuno, peraltro, controlla l’«oggettività» dell’operato, come invece accade nei processi articolati in gradi di giudizio.
D. Da più parti viene individuato nel sigillo sacramentale l’ostacolo principale per un accertamento rapido delle responsabilità per i casi di pedofilia. Qual è il suo giudizio sul punto?
R. Sono convinta che l’attenzione quasi ossessiva al sigillo sacramentale e le accuse secondo cui esso abbia agevolato la perpetrazione di abusi sessuali sia francamente esagerata in una società largamente scristianizzata e secolarizzata: e per operare efficacemente occorre avere una percezione quanto più possibile esatta dei fenomeni criminosi che si intendono combattere. Certamente la Chiesa si è macchiata in passato della colpa terribile dell’omertà e dell’insabbiamento, di più, dell’impassibile sordità al grido di disperazione e sofferenza delle vittime, succube di una mentalità deviata intenta soprattutto a non incrinare il «buon nome» e anche il potere delle autorità ecclesiastiche: e in questo contesto il sigillo sacramentale può essere stato deprecabilmente strumentalizzato, distorcendone l’autentico valore. Ma credo non si possa negare come la situazione ecclesiale odierna sia diametralmente mutata. Gli errori gravissimi compiuti sono stati riconosciuti da Benedetto XVI (2005-2013) — da tempo e anche recentemente — con parole durissime, pesanti come macigni, le quali non consentono più alcuna indulgenza o giustificazione: la Chiesa va mondata dalla sporcizia che la deturpa, colpendo in modo intransigente la piaga purulenta degli abusi. Chi oggi intendesse approfittare del sigillo sacramentale al fine di piegarlo alla vergognosa copertura di delitti, così profanandolo, non meriterebbe nessuna comprensione. Infatti, esso è intrasgredibile perché s’innerva direttamente e profondamente nella costituzione divina nella Chiesa: e lo è perché indissolubilmente connesso al fine supremo dell’ordinamento canonico, la salus animarum.
D. Può dirci qual è la disciplina attuale del segreto della confessione? Vi è differenza fra sigillo sacramentale e segreto ministeriale?
R. Premesso che il sigillo sacramentale ricomprende tutto ciò di cui il confessore è venuto a conoscenza nell’ambito della confessione, mentre si definisce segreto se ad apprendere tali notizie è un terzo, sono persuasa che in questa sede, senza indugiare troppo sulle prescrizioni canoniche, sia più utile soffermarsi sulle rationes poste a fondamento della tutela rafforzata che il diritto della Chiesa predispone per evitare trasgressioni e lesioni. Il sigillo sacramentale è indispensabile per preservare la santità del sacramento e per difendere la libertà di coscienza del fedele, ma si colloca anzitutto nel dialogo fra il penitente e la misericordia di Dio mediante la ministerialità della Chiesa che si esprime attraverso il confessore: per questo è sottratto alla disponibilità non solo di quest’ultimo ma anche del singolo penitente per porsi a presidio del bene comune, di tutti i penitenti, quindi della Chiesa nella sua interezza.
Con l’espressione corrente «segreto ministeriale» si intende, invece, ciò che il ministro di culto ha conosciuto nell’esercizio e a causa del ministero stesso, in quello che si denomina canonisticamente «foro interno extra-sacramentale», ovvero quell’attività di direzione spirituale e di assistenza morale nei confronti di chi a lui si rivolge per ricevere sostegno e consiglio, facendo totale affidamento nella riservatezza di quanto confida. Un’attività, quest’ultima, che svolgono tutti i ministri delle confessioni religiose alle quali è, per contro, estranea la dimensione della confessione sacramentale e che quindi ignorano il sigillo: e i diritti secolari accordano al segreto ministeriale protezione proprio in vista della libertà religiosa dei cittadini fedeli, a prescindere dalla loro appartenenza confessionale. «Segreto» è, purtroppo, un vocabolo circondato da una cattiva fama oramai indelebile che ha finito per inquinare la comprensione delle rilevanti e delicate esigenze ad esso sottese e che custodisce: le quali sono invece legate inscindibilmente all’intimità della coscienza di ogni persona.
D. Come conciliare l’inviolabilità del segreto e la tutela delle vittime di pedofilia?
R. Mentre il sigillo sacramentale è assolutamente impenetrabile per la sua pregnanza sovraindividuale — che sfugge alla disponibilità del confessore, anche se autorizzato dal penitente —, la rivelazione di quanto appreso nell’accompagnamento spirituale è rimessa al discernimento del ministro che valuta ogni situazione e tutti gli interessi delle persone implicate: egli, pertanto, in alcuni e probabilmente molti casi non solo può, ma deve esternare quanto conosciuto laddove questo consenta l’inibizione e la repressione di atti aberranti. D’altronde, lo stesso confessore può rivelare ciò di cui è venuto a conoscenza anche aliter, cioè in qualsiasi altro modo fuori della confessione, laddove sussistano importanti esigenze da soddisfare. E nell’ipotesi — come ha recentemente ammonito la stessa Penitenzieria Apostolica — «[…] si presenti un penitente che sia stato vittima del male altrui, sarà premura del confessore istruirlo riguardo ai suoi diritti, nonché circa i concreti strumenti giuridici cui ricorrere per denunciare il fatto in foro civile e/o canonico e invocarne la giustizia» (Nota sull’importanza del foro interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale, 29-6-2019).
Insomma, a parte i limitati casi in cui il sigillo impedisce ogni rivelazione, il ministro di culto deve avere riguardo solo al conseguimento della giustizia e della verità, agendo di conseguenza: e pure il confessore, al quale possono rivolgersi sia l’aggressore sia la parte offesa, ha delle possibilità di arginare il male e di indirizzare verso la punizione del colpevole. Al contrario, costringere i ministri di culto, eventualmente sotto la minaccia di una pena, a violare in ogni caso il sigillo e il segreto provocherebbe prevedibilmente e inevitabilmente l’allontanamento dei penitenti, ma anche delle vittime e dei fedeli tutti, traditi nelle loro aspettative di riservatezza: finendo per frapporre solo un ostacolo in più nella lotta agli abusi.
D. Quale rilievo ha la tutela del sigillo sacramentale e del segreto ministeriale ai sensi dal Concordato che regola i rapporti fra Stato e Chiesa? Il segreto è tutelato anche dal diritto comune?
R. In Italia si tutela il segreto ministeriale più che il sigillo sacramentale — che nel primo è peraltro incluso — sia nella normativa di derivazione pattizia sia nella normativa unilaterale dello Stato che riguarda i ministri di tutte le confessioni religiose. Come il Concordato lateranense del 1929, anche nell’Accordo di Villa Madama fra Repubblica italiana e Santa Sede del 1984 vi è una disposizione — l’art. 4, n. 4 — a tenore della quale gli «ecclesiastici non sono tenuti a dare a magistrati o ad altra autorità informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragione del loro ministero». Secondo poi l’art. 200 del Codice di Procedura Penale italiano, «non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria […] i ministri di confessioni religiose, i cui statuti non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano»; mentre l’art. 256 del medesimo Codice attiene al segreto documentale; la regolazione processuale del segreto trova poi un «contrappunto» nell’art. 622 del Codice Penale.
Come già ricordato, il riconoscimento del segreto ministeriale s’incardina sulla considerazione del diritto fondamentale che viene, per suo tramite, valorizzato e promosso, cioè principalmente quello alla libertà religiosa, suggellato solennemente nella nostra Carta costituzionale ma anche in numerosissime fonti di diritto internazionale. Pertanto, dal punto di vista almeno delle norme statali, non si concedono prerogative alla gerarchia clericale o all’apparato di governo della Chiesa: ma destinatari della tutela sono i cittadini — anzi l’art. 19 della Costituzione non limita la titolarità della libertà religiosa solo ad essi — che sono anche fedeli. A eloquente testimonianza si può segnalare che la protezione del segreto dei ministri di culto è stata sempre incontrovertibilmente assicurata, e fin dalla vigenza della codificazione napoleonica, nella laicista e a lungo aspramente anticlericale Francia. Perciò, specularmente a come nell’art. 200 del Codice di Procedura Penale si tutela il segreto dell’avvocato in riferimento al diritto di difesa e il segreto del medico con riguardo al diritto alla salute, così il segreto del ministro di culto va correlato alla libertà religiosa. Il fondamento ultimo di queste norme risiede nell’istanza, di natura squisitamente pubblicistica ancor prima che privatistica, di garantire il libero esercizio di attività deputate alla piena attuazione di diritti fondamentali teleologicamente volti alla realizzazione della personalità dell’individuo, il cui rilievo giustifica talora il sacrificio di altri interessi.
D. Qual è l’atteggiamento della giurisprudenza italiana verso il segreto ministeriale?
R. La giurisprudenza in Italia, dopo avere a lungo applicato correttamente le norme sul segreto non solo con riferimento a sacerdoti cattolici, ma, con larghezza, nei confronti dei ministri di altre confessioni, ha di recente assunto posizioni preoccupanti: esse sembrano quasi condizionate dal clima di pregiudiziale avversione verso il chierico cattolico, dipinto frequentemente come un pedofilo seriale che, all’ombra di un tenebroso confessionale, si dedica all’occultamento di altri predatori di bambini. Mi riferisco, in particolare, a un caso giudiziario giunto fino alla Corte di Cassazione: si trattava della vicenda drammatica di un’adolescente che aveva subito reiterate violenze sessuali di gruppo da parte di coetanei. Prima di sporgere denuncia alle forze dell’ordine, si era rivolta a un sacerdote per ottenere conforto ed era stata da lui affidata ad una religiosa: entrambi, nel corso del processo, si erano avvalsi della facoltà di non rispondere. La Cassazione, confermando la condanna dei due per il reato di falsa testimonianza, avalla l’asserzione secondo la quale la fattispecie esulava dall’ambito di tutela del segreto ministeriale. Non voglio ora ripercorrere le argomentazioni errate e censurabili su cui poggiava la sentenza, stigmatizzate autorevolmente in dottrina: per esempio, si adduceva che la ragazza non era una penitente, trascurando che la norma non può fare esclusivo riferimento al sigillo sacramentale proprio della sola Chiesa cattolica, o si affermava che l’assistenza spirituale a soggetti deboli «non rientra certamente nell’esercizio diretto di “fede religiosa”» (Corte di Cassazione, sez. IV penale, sentenza n. 6912 del 2017), riducendo in pratica il ministero alle attività sacramentali. Ma, al di là di questi profili, il caso è particolarmente emblematico di quanto detto sinora. Infatti, quel sacerdote e quella suora hanno invocato il segreto — e poi hanno subito una pena ingiusta — benché non fossero vincolati dai precetti canonici del sigillo sacramentale: e non vi erano neppure delitti da celare in un’oscurità torbida, non il decoro o l’onorabilità della Chiesa o l’immunità della «casta sacerdotale», rea di reati abietti da proteggere. Solo, com’è nella ratio dell’istituto del segreto ministeriale, lo scopo che li animava era convalidare quell’interesse a che nel futuro chiunque avesse avuto bisogno di accedere a un ministro di culto per ricevere aiuto, aprendo vulnerabilmente la sua coscienza, non sarebbe stato deluso nella sua aspettativa di assoluta confidenzialità.
D. Quali possono essere gli strumenti per la difesa del sigillo sacramentale?
R. A mio avviso insistere sulla preservazione della specificità del sigillo sacramentale e, dunque, sulle caratteristiche singolarissime della confessione sacramentale, non è una strategia oculata perché potrebbe far pensare che si pretenda per la Chiesa cattolica un regime abnorme e di privilegio, assai difficilmente accettabile oggi ed anzi, da molti, aborrito. Si deve, invece, immettere il sigillo sacramentale, pur senza adulterarne in alcun modo l’identità, entro il segreto religioso, cioè entro le coordinate generali di protezione disegnate sulla scorta dei diritti fondamentali: le uniche che possono aspirare a una più stabile resistenza. Del resto, il segreto ministeriale viene anche normativamente sempre affiancato — pure nel sopra citato art. 200 del Codice di Procedura Penale — ad altri segreti professionali che le società contemporanee ritengono imprescindibili e spesso «blindati», nonché, tra l’altro, in espansione.
È quindi palese che, nell’ottica della Chiesa, ancorata a solidi elementi teologici prima ancora che giuridici, è assurdo equiparare il sigillo sacramentale al segreto ministeriale e, ancor più, ai segreti professionali. Ma non è saggio arroccarsi nella rivendicazione solamente del sigillo, certo innestato profondamente nel patrimonio dogmatico cattolico ma del tutto assente, con quegli inconfondibili connotati, nelle altre confessioni religiose: a stento «dal di fuori» afferrato nella sua sostanza sacra e anzi, a volte proprio per questo, osteggiato: d’altronde l’aderenza al diritto divino rivelato, l’orrore per il sacrilegio, i danni irreparabili per le anime invocati dalle autorità ecclesiastiche temo non possano che cadere nel vuoto dinanzi a ordinamenti secolari ove oramai ci si indispettisce alla sola menzione del diritto naturale. Occorre invece perseguire la garanzia, questa sì da conservarsi integra e non intaccabile, della libertà religiosa e, al contempo, della non discriminazione dei culti, dinanzi a sistemi giuridici che non possono discriminare schizofrenicamente e irragionevolmente fra diritti fondamentali: alcuni enfatizzati, altri mortificati.
D. Quindi la difesa del sigillo sacramentale va in qualche modo collegata al mantenimento dei segreti professionali?
R. A mio parere sì, dovendosi abbandonare l’ambizione attualmente utopistica alla salvaguardia della specificità del sigillo sacramentale. Senza annacquare, oppure, peggio, snaturare princìpi che, superiormente fondati, sono inabdicabili nello ius Ecclesiae, si tratta di reclamare per i segreti strumentali all’esplicazione della libertà religiosa una tutela pari a quella dei segreti volti a presidiare altri valori costituzionali o comunque universalmente riconosciuti, con riferimento a relazioni di natura strettamente fiduciaria, essenziali per un’equilibrata convivenza comunitaria e per il «buon andamento» della società. D’altro canto, i successi recentemente conseguiti hanno visto, non a caso, alleate della Chiesa cattolica le altre confessioni religiose: per esempio, la proposta di legge che in California imponeva al sacerdote la denuncia alle autorità giudiziarie statali della segnalazione di un abuso durante la confessione sacramentale è stata ritirata grazie a una mobilitazione massiccia nella quale si sono coalizzati i leader di tutti i culti, imbracciando la bandiera della non intromissione dello Stato nella coscienza dei credenti quale pietra angolare della democrazia.
D. Eppure, sembra che si vada verso un obbligo incondizionato di denunzia anche nella Chiesa…
R. Lei tocca un tasto dolente. Come noto, spesso in base alla convinzione che la maggior parte dei tremendi abusi sessuali su minori siano restati impuniti grazie all’esenzione dalla testimonianza di chierici e religiosi, che avrebbe creato una rete di silenzio e reticenza delinquenziale intralciando il corso della giustizia statuale, si è preso come bersaglio appunto il segreto ministeriale: anzi ci si è accaniti in particolare contro il sacramentale sigillum della Chiesa cattolica. La vigilanza sull’incolumità dei bambini, cui nessuno oserebbe mai opporsi, è stata talora pretestuosamente accampata per contrarre la tutela del segreto fino a farla svanire. Così i legislatori statuali si sono attivati per fissare obblighi di denuncia — che alquanto raramente gravano su tutti i cittadini — solo a carico dei sacerdoti: coazioni che necessariamente si proiettano in un’erosione, se non in un’abolizione, del diritto al mantenimento della riservatezza. E purtroppo anche il legislatore vaticano, e poi quello canonico, hanno recentemente emanato normative che paiono allinearsi a siffatte tendenze. Su tale obbligo di segnalazione/denuncia introdotto nell’ordinamento della Chiesa — ora punito con una pena dal novellato Codex Iuris Canonici — mi sono espressa, in vari miei contributi scientifici, in maniera decisamente perplessa, additando le non lievi incoerenze normative: obiezioni tecnico-giuridiche, certo, ma che non restano senza ripercussioni, anche dirompenti, sul piano della realtà regolata.
Non mi inoltro, ovviamente, in questo ginepraio: voglio qui solo ricordare come un obbligo di denuncia indiscriminato non viga pressoché in nessun ordinamento secolare, essendo questa, in Italia come in molti altri Paesi, un atto facoltativo per i cittadini tranne in ipotesi davvero straordinarie per evitare — si spiega in ogni manuale — l’instaurarsi di uno Stato autoritario, ovvero totalitario, che istiga la delazione e l’ostilità di tutti contro tutti. Completamente diverso è, invece, incentivare la denuncia, attivando sistemi agili e facilmente accessibili nonché predisponendo schermi precauzionali per chi segnala — come la Chiesa meritoriamente ha fatto — e convocando tutti i fedeli a collaborare, lodevolmente appellandosi alla corresponsabilità ecclesiale, oltre che al senso civico di giustizia: come più volte ha fatto Papa Francesco. Eppure, anche l’ordinamento canonico si è accodato a queste involuzioni giuridiche sull’obbligo di denuncia, imposto poi (finora) solo a chierici e religiosi: e tali incaute previsioni non possono che debilitare ancor più quell’apparato, oggi traballante, di garanzie apprestate dai diritti secolari al segreto ministeriale. Insomma, i chierici e i religiosi — va ribadito senza equivoci e ambiguità — in molti e probabilmente quasi tutti i casi non solo possono ma devono presentare segnalazioni alle autorità ecclesiastiche, così come esposti e denunce a quelle civili, anche memori delle deplorevoli inadempienze del passato e ben consapevoli delle proprie responsabilità. Ma deve essere il loro libero e prudente discernimento sulla sussistenza di una «giusta causa» a pilotarli, tenuto conto del sigillo sacramentale, di tutte le circostanze individuali e fattuali e di quanto debba essere compiuto per scongiurare pericoli alle persone e far arrestare gli abusatori: in vista, dunque, del bene comune,inclusivo di quello dei soggetti coinvolti e della loro incomprimibile dignità.
D. Vi sono altre conseguenze dell’obbligo canonico di denuncia che è stato introdotto?
R. La previsione di tale obbligo di denuncia può condurre a conseguenze paradossali: per fare un solo esempio, nel can. 1398 § 2, secondo il dettato entrato in vigore nel 2021, si contempla il delitto contra sextum — un qualsiasi comportamento attinente alla sessualità anche senza violenza, minaccia, abuso di autorità — con minore commesso da «qualunque fedele che gode di una dignità o compie un ufficio o una funzione nella Chiesa». Non si effettua distinzione fra minori, differenziando gli infraquattordicenni o gli infrasedicenni: come invece fa anche il diritto italiano e pressoché tutte le legislazioni penali secolari nella repressione di tali reati, data la gravità enormemente divergente del fatto criminoso, oltre alla capacità di autodeterminazione all’esercizio della sessualità di solito riconosciuta ai quattordicenni, così come in genere anche alle persone portatrici di debilitazioni fisiche o psichiche. Inoltre, non si tiene alcun conto del consenso del minore alle soglie della maggiore età, la cui sussistenza inibirebbe invece la configurazione della fattispecie di reato in molti ordinamenti statuali. In virtù di tale fattispecie, quindi, d’ora in poi un laico che abbia rapporti sessuali con un/una minorenne, per esempio un catechista diciottenne con la sua fidanzata diciassettenne — entrambi, nel diritto canonico, si badi bene, abili al matrimonio —, non commette solo peccato ma anche un delitto… Ci si dovrebbe inoltre chiedere — poiché pare che, nella revisione delle disposizioni sull’obbligo di segnalazione (in «scadenza», in quanto approvate per un triennio nel 2019), esso sarà esteso per tutte le nuove fattispecie — se la notizia di tale «delitto» dovrà essere comunicata all’ordinario e se l’omissione comporterà la pena non leggera comminata… Forse, una maggiore attenzione nella fase di redazione testuale avrebbe evitato questo scivolamento nel ridicolo, causato da una normativa penale eccessiva e non troppo ponderata.
Ma soprattutto — e ciò è molto, molto più grave — imporre sempre e comunque la segnalazione può finire per pregiudicare l’interesse della stessa vittima, che potrebbe anche non volere affatto la denuncia e opporsi alla medesima per evitare i danni conseguenti al processo e alla diffusione della notizia: non è infatti riconducibile alla tanto celebrata trasparenza mettere in piazza dolorose vicende intime, ma si tratta di penosa e inammissibile violazione della sfera privata. D’altronde l’equazione «miglior tutela» = «esercizio dell’azione penale»appare affrettata: solitamente si deve invece far prevalere la decisione insindacabile del soggetto o dei suoi familiari, investendosi fatti strazianti che essi potrebbero non voler esporre allo strepitus fori oppure che si vorrebbe evitare di «rivivere in aula» con costi psichici elevatissimi. Solo per evocare la delicatezza dei valori esistenziali in gioco, i quali non devono mai essere dimenticati. Come si è riscontrato più volte nel corso del nostro discorrere, certe irriflesse battaglie ideologiche di questi tempi concitati spesso arrivano a compromettere proprio l’interesse delle vittime che dovrebbe invece sempre guidare come stella polare.
D. Il diritto canonico conserva ancor oggi una funzione di difesa della libertà religiosa?
R. La Chiesa, anche con l’esemplarità del suo diritto, dovrebbe fermamente opporsi alle derive normative che abbiamo velocemente descritto, estirpando con intransigenza il cancro degli abusi sessuali dal suo seno in modo che mai più la dignità delle persone, specie quelle più fragili e dei minori, venga calpestata. Ma, al contempo, non cedendo sulla difesa della libertà religiosa che, come in verità è avvenuto ripetutamente nei secoli, è ancor oggi fortemente a rischio. Gli attacchi che la insidiano in molti Paesi del mondo — cavalcando sovente il malessere suscitato dallo scandalo della «pedofilia» — devono essere coraggiosamente fronteggiati: ribadendo come la libertà religiosa della persona, proprio quale riverbero della sua intangibile dignità e dell’inviolabilità della sua coscienza, costituisca l’eredità più preziosa della tradizione giuridica occidentale, che non si può permettere venga dilapidata.