Di Lucia capuzzi da Avvenire del 16/01/2024
L’immagine ha fatto il giro del mondo. Un vescovo in ginocchio, con le mani alzate, circondato da una folla di agenti pesantemente armati. «Fratelli, non ce l’ho con voi», sussurrava mentre lo obbligavano a rientrare nella curia di Metagalpa. Era il 4 agosto 2022, il giorno in cui è cominciata la detenzione di Rolando Álvarez, 57 anni. Sarebbe durata 528 giorni, di cui 329 trascorsi nel settore di massima sicurezza del carcere di La Modelo, a venti chilometri di Managua. Fino a quando, nella notte tra sabato e domenica, grazie al lavoro della Santa Sede, è stato caricato su un aereo e spedito a Roma, dopo due intenti falliti di accordo. Per lo stesso regime di Daniel Ortega il detenuto Álvarez era diventato troppo scomodo. Da Washington all’Onu agli altri Paesi latinoamericani, Brasile in testa, ne avevano chiesto il rilascio. Oltre, ovviamente, a papa Francesco che, solo a gennaio, ha citato per due volte in pubblico il Nicaragua. La necessità del governo di “liberarsi” del vescovo ha favorito il negoziato. Allo stesso tempo, non poteva rimettere in libertà il detenuto-simbolo della repressione nei confronti solo della Chiesa bensì dell’intera società. Questo è e resta monsignor Álvarez per il popolo nicaraguense. Dalla rivolta nonviolenta dell’aprile 2018, repressa nel sangue da Ortega, la sua era diventata la voce della sofferenza collettiva. Ma anche della speranza. Perché «un popolo senza speranza si autoseppellisce», ha detto nell’omelia dell’11 agosto 2022, quando era già ai domiciliari. La campagna di discredito era in atto già da anni ma si era intensificata da aprile quando una delle sue collaboratrici e ministra della Parola era stata aggredita. «Prendetevela con me, non con i fedeli», aveva detto in quell’occasione. Poi erano iniziati i pedinamenti, le perquisizioni, le vessazioni e gli insulti delle “turbas”, i paramilitari al soldo del regime, fino alla detenzione di fatto, senza processo, nell’arcivescovado di Metagalpa e a Managua. Il giudizio-lampo si è svolto il 10 febbraio scorso, il giorno dopo il rifiuto del pastore di andare in esilio negli Usa con 222 oppositori. E il verdetto è stato durissimo: 26 anni e 4 mesi di carcere per «cospirazione contro la patria». Le “prove” presentate a suo carico sono stati brani delle omelie e degli interventi social in cui esortava al dialogo e chiedeva la fine della repressione. Quello stesso giorno era stato portato a La Modelo. Nemmeno il carcere, però, l’aveva messo a tacere. Tantissimi fedeli e sacerdoti custodivano e ripetevano nel Paese le sue parole imprigionate. Tanto da costringere il governo a minacciare di arresto quanti lo citassero nelle omelie. Invano. La voce di Álvarez continua a risuonare per il Nicaragua.