Da Avvenire del 15/03/2020
Il ritorno all’essenziale. La necessità di cambiare stili di vita. Soprattutto, la centralità dell’Eucaristia e l’importanza di essere comunità. Nella riflessione del patriarca di Venezia, Francesco Moraglia i giorni drammatici che stiamo vivendo rappresentano una lezione di futuro da capire e valorizzare. «Dal punto di vista ecclesiale – sottolinea –, questo forzato digiuno eucaristico ci sta portando a riscoprire la Messa come essenziale. Se prima partecipare poteva essere vissuto come semplice adempimento o abitudine, adesso non poter essere presenti ci aiuta a capirne l’importanza. Ho chiesto ai miei sacerdoti, e li ringrazio per l’impegno che stanno profondendo anche con una certa “fantasia pastorale”, che non potendo celebrare “con” il popolo, lo facciano “per” il popolo e lo comunichino alle loro comunità».
Spesso è l’assenza a farci capire l’importanza di quello che non abbiamo più.
Mi sembra che l’Eucaristia venga riscoperta nella sua essenza proprio a partire dal non poter essere presenti.
Nelle nostre comunità vive stanno ritornando esempi come quelli dei cristiani di Abitene che all’inizio del IV secolo testimoniarono che “senza la domenica non si può vivere”. Questo digiuno ci fa riscoprire l’Eucaristia come realtà che fa la Chiesa.
Esserci non è un optional…
La vita ecclesiale è fatta di partecipazione, di comunità che si incontrano, questa “diaspora” che ci vede forzatamente divisi e separati ci aiuta a recuperare la dimensione dell’appartenenza anche nel senso del corpo mistico.
Dalle dirette streaming a Facebook, i nuovi media ci consentono di seguire le liturgie cui è impedito partecipare. Non c’è il pericolo che passi l’idea che poi non è così importante andare in chiesa?
È il mio timore. Sono presidente della Conferenza episcopale del Triveneto. Quando ci fu il terremoto del Friuli, per ovvi motivi di sicurezza non si potevano usare gli edifici ecclesiastici. Oggi i preti più anziani ricordano che in quel momento c’è stata una discesa di affezione al giorno del Signore. Pensando ad allora, credo che dobbiamo cercare di tenere desto il senso della domenica e riscoprire il valore della comunità. Io oggi celebrerò sulla ter- ra ferma, nel Duomo di Mestre (alle 11 in diretta streaming dalla pagina Facebook di Gente Veneta, così come da Antenna 3 e Rete Veneta ndr.) ma nelle prime due domeniche di Quaresima sono stato alla Salute e al Redentore di Venezia che poi sono due “voti”, per la liberazione dalla peste rispettivamente del 1630 e del 1576– 1577, quella “di san Carlo Borromeo”. Celebrare in edifici vuoti mi fa sentire molto la nostalgia per le chiese stracolme. Quando, soprattutto per la visita pastorale, vado in parrocchie piene di bambini, di giovani, di famiglie, di anziani, di malati, che arrivano anche con il girellino per poter deambulare. Sento la nostalgia di questa chiesa e credo che il digiuno liturgico, eucaristico, domenicale, debba risvegliare l’amore per le comunità vive, magari piccole ma concrete, reali. Certamente la comunicazione digitale, la tv, i social, la radio sono mezzi importanti ma rappresentano dei tamponi, dei supporti, degli aiuti. La realtà ecclesiale è potersi scambiare un gesto di pace, è pregare sentendo gli uni la voce degli altri.
Da più parti un po’ tutti diciamo che il nostro Paese può uscire da questa crisi solo se resta unito. Le distanze però si avvertono.
Effettivamente ci sono un po’ ovunque smagliature provocate soprattutto da chi crede di essere più intelligente, più furbo degli altri. Si tratta di capire come il senso di appartenenza, che pure credo ci sia, in certi casi debba diventare anche una sorta di disciplina. Un tema che ha anche un valore educativo. Decidere di non fare quello che potresti e vorresti, ti rende più membro della tua comunità, più cittadino, più capace di guardare gli altri negli occhi.
Dal punto di vista umano questi giorni che cosa possono o debbono insegnare?
Che non siamo delle isole, che bisogna andare al di là delle potenzialità che la tecnica ci consegna. Non basta essere in contatto, bisogna incontrarsi. In questo senso non potersi vedere fisicamente può diventare un modo per ripensare le buone relazioni.
La tecnologia non basta, serve un surplus di umanità.
Ci siamo riscoperti fragili. Nonostante le conquiste della modernità siamo tornati a sentirci creature bisognose. Questa emergenza è un po’ coincisa con l’inizio della Quaresima che è un tempo di ritorno dell’uomo a se stesso, di ritorno a Dio, che ci fa riconoscere le nostre fragilità. C’è poi un aspetto legato alla globalizzazione. Mi sembra che la diffusione di questo virus sia in un certo senso anche un prodotto di quella realtà per certi aspetti importante che ci permette di comunicare in tempo reale e di trasferirci da una parte all’altra del globo in poche ore.
Anche il progresso va messo in discussione, insomma.
Io ribalterei il discorso. Bisogna essere capaci di quella globalizzazione che è il bene comune, cioè la mia salute non è alternativa alla tua, il mio bene non è alternativo al tuo, il mio e il tuo bene si ritrovano in un bene più grande. Si tratta di cambiare i nostri stili di vita, di ridimensionarci, compreso l’innocente ritrovarsi insieme dei ragazzi, nell’ottica della conversione al bene comune. E poi abbiamo bisogno di potenziare il rapporto con il Signore a livello personale. Le nostre chiese restano aperte e questo credo sia un bel segno per la preghiera individuale mentre a soffrire è un po’ la carità, che in genere facciamo in contatto anche fisico con chi si rivolge alle mense, ai dormitori. Però vedo molto bene come tanti adulti e giovani si rendano disponibili ad aiutare le persone anziane che non possono uscire di casa. Io con i sacerdoti ho sottolineato l’importanza, tenendo conto delle precauzioni, di visitare i malati nei casi di necessità, di portare loro il conforto dell’Eucaristia anche sotto forma di viatico, dell’ascolto delle Confessioni. Nel segno di una fede responsabile, amica della ragione, che sa stare nella città, che sa viverla e rispettarla, consapevole che questo momento può essere superato certo con la preghiera, che è la cosa prima e più importante per il cristiano, ma anche cambiando degli stili di vita.
Cosa vorrebbe che ci insegnassero questi giorni?
Vorrei che non li dimenticassimo, che li portassimo nella nostra memoria, come un ricordo vivo, che ci permette un discernimento diverso sul futuro. E poi mi auguro che questa situazione ci renda più umili, virtù prima di tutto cristiana ma anche civile, nell’usufruire dei beni della natura, dell’ambiente e anche di quelle che possono essere le possibilità sociali di una comunità e di un popolo.
E alla comunità di Venezia passata nei mesi scorsi attraverso prove terribili, cosa dice il suo pastore?
Venezia ha saputo tirarsi su da momenti drammatici, grazie a una solidarietà certamente umana ma che per poter essere fraterna guardava al Padre Comune. In questo senso il Redentore e la Salute sono un po’ il marchio sui drammi di fine ‘500 e inizio ‘600. Alla mia comunità chiedo di guardare al passato per poter vivere il presente con quell’umiltà e quel coraggio che la storia ci insegna essere capaci di generare futuro. Dico proprio questo: dobbiamo essere capaci di generare futuro. Noi stiamo soffrendo molto per l’acqua alta, fenomeni che si verificavano ogni 15 anni adesso capitano due tre volte all’anno. E poi patiamo l’aver reso la città un prodotto commerciale, perché il turismo è importante, ma va contemperato all’interno di rapporti di cittadinanza. La città deve trovare una sua civitas, una possibilità di vivere senza essere solo un bene di fruizione turistica. I mutamenti climatici ma anche del modo di vivere, perché la scienza e la tecnologia ci hanno cambiato, e ora il dramma di questo virus così pervasivo ci devono aiutare a generare un futuro nuovo. Anche nella Bibbia il popolo di Dio vive momenti drammatici che poi segnano delle ripartenze. Dobbiamo guardare al futuro facendo tesoro dei momenti difficili che stiamo condividendo insieme tra pastori, fedeli e città.
«Questo digiuno eucaristico ci sta portando a riscoprire la Messa». Ma non nasconde il timore che cresca l’idea di poter vivere anche senza l’incontro domenicale con il Signore e con la comunità «Le nostre chiese restano aperte e questo credo sia un bel segno per la preghiera individuale mentre a soffrire è un po’ la carità, che in genere facciamo in contatto anche fisico con chi si rivolge alle mense, ai dormitori». «Alla mia comunità chiedo di guardare al passato per poter vivere il presente con l’umiltà e il coraggio che la storia ci insegna. Dico proprio questo: dobbiamo essere capaci di generare futuro». «Celebrare in edifici vuoti mi fa sentire molto la nostalgia per le chiese stracolme».
Questa situazione che stiamo vivendo «credo debba risvegliare l’amore per le comunità vive, magari piccole ma concrete, reali»
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