Oscar Sanguinetti, Cristianità n. 409 (2021)
1. Premessa
Allo storico di solito tremano i polsi quando si trova a confrontarsi — soprattutto con un esiguo spazio a disposizione — con personaggi di una statura tale da dare il nome, da esprimere il kairos, il «sapore», il tono, lo Zeitgeist, di una intera epoca. A Napoleone Bonaparte (1769-1821) infatti si associa inevitabilmente una pagina-chiave della biografia dell’Europa — e, indirettamente, anche della Magna Europa — durata almeno un ventennio. A lui si possono paragonare solo personaggi come Gaio Giulio Cesare Augusto (63 a.C.-14) — si parla di «età augustea» — o Carlo V d’Asburgo (1500-1558), personaggi che determinano i destini di ampie parti del mondo per decenni, se non per secoli. Parlare di «età napoleonica» o di «età augustea» significa dire molto più che non «Germania hitleriana» o «Italia mussoliniana»: Napoleone è il protagonista e insieme il simbolo di una stagione della modernità occidentale, in cui trionfa una nuova — anche se con antecedenti antichi — visione del mondo, in cui si inaugura un «altro» modo di governare e prendono avvio processi che domineranno in larga misura il mondo successivo.
Che cosa dire a duecento anni dalla scomparsa? Su di lui sono corsi fiumi di inchiostro e di lui è stato detto tutto e il contrario di tutto, perciò non è facile argomentare qualcosa di originale (1). Per molti è l’icona del liberatore armato, per altri quella del carceriere di due Papi, del «liquidatore» delle ultime vestigia della cristianità, del bieco distruttore di antiche chiese, sostituite da caserme e da polveriere, di un tiranno di popoli.
Dalla prospettiva conservatrice molti di questi rilievi critici — o tout-court accuse —sono stati formulati quando egli era ancora vivo e anche con notevole veemenza, come nel caso del quasi coetaneo François-René de Chateaubriand (1768-1848) (2).
Sforzandosi di essere obiettivi, anche da questa angolatura si deve riconoscere — lo farà il cattolico-liberale, ma pur sempre cattolico, Alessandro Manzoni (1785-1873): quando si chiederà «fu vera gloria?» (3) — che la sentenza obbligata del postero non può che essere affermativa, in relazione alla grandezza del suo genio militare e politico, che fu capace di dare forma a una seppure breve epoca dell’intero Occidente e, in qualche misura, anche del Vicino Oriente.
Sfruttando il capitale di potenza militare — meno su mare che non su terra — accumulato dalla plurisecolare monarchia franco-francese, Bonaparte, il parvenu venuto dalla «periferia» côrsa, a lungo incerto se scegliere fra lotta per l’indipendenza della sua isola e difesa della Francia e della Rivoluzione, fu capace di sconfiggere a più riprese, in un continuum di oltre un decennio, dalle Alpi Marittime alle pianure centro-europee, non singole armate ma coalizioni dei più potenti eserciti del tempo. La sua fortuna militare ha del prodigioso: egli sembra cavalcare in maniera unica l’hegeliano Zeitgeist, facendo sì che le forze dialetticamente avverse cedano alla sua per fondersi poi dando vita ad altra e ulteriore realtà.
In effetti il giovane e ambizioso ufficiale subalterno di artiglieria, illustratosi contro i monarchici a Tolone alla fine del 1793, sarà il «cavallo vincente» sul quale — nonostante la sua amicizia con il rivoluzionario giacobino Maximilien de Robespierre (1758-1794) che, dopo Termidoro, gli frutterà una condanna al carcere ad Antibes (4), poco prima dell’«avventura» (5) in Italia — punteranno le scaltre «eminenze grigie» della Rivoluzione — incarnate dal Direttorio — perché guidi l’espansione della Grande Nation (6) nel mondo. Il suo sogno sarà grandioso ed egli sarà a un passo dal realizzarlo: Napoleone non mirava solo a creare l’Impero francese ma a rinnovare, con altra linfa e secondo i paradigmi della «laïcité» moderna, quella struttura politica che aveva caratterizzato l’Europa nei secoli della cristianità. Egli giocherà con antichi imperi, regni e principati come si gioca a Monopoli: abbatteva, comprava, vendeva, riformava, accorpava, creava dal nulla, divideva… Nulla, nemmeno l’immenso impero degli zar, perenne minaccia gravante su quella ridotta appendice dell’Asia che era ed è la penisola europea, gl’incutevano timore: nemmeno la strapotente marina britannica, nemmeno le lontane Piramidi.
Ma l’azzardo e la fiducia nella «stella» della nazione francese «repubblicanizzata» si spingeranno in lui troppo oltre: alla lunga le fiere navi inglesi, le immense e gelate steppe russe e la tenace resistenza dei popoli iberici gli saranno fatali. L’impero costruito con il sangue di milioni di francesi e di vassalli crollerà in pochi mesi. Anche il suo genio delle armi non basterà più: ha evocato dalla «pancia» delle potenze forze troppo numerose e potenti per contendere loro la vittoria. Le forze «oscure», che avevano «fatto» l’Ottantanove e lo avevano sostenuto lungo tutta la parabola del suo astro, di fronte alla reazione sempre più estesa e decisa dei regni che mai avevano accettato la Rivoluzione, gli ritireranno il consenso, pur di salvare il salvabile, ossia — prima tentativamente, poi alla lunga con successo — la Rivoluzione in un solo Stato, in una Francia cioè, in cui la restaurazione borbonica sarà a ragione pronosticata come effimera, essendo troppo profonda l’impronta impressa dal ventennio rivoluzionario sulla società e sui costumi transalpini.
Confinato prima nell’irrisorio dominio dell’isola toscana dell’Elba poi nel mezzo dell’Oceano Atlantico, Bonaparte si spegnerà — nell’anno in cui muore un altro strenuo avversario suo e della Rivoluzione, Joseph de Maistre (1753-1821) — non solo come condottiero e come sovrano ma anche come uomo.
2. Elementi valutativi
Tornando alla prospettiva conservatrice, va riconfermato che, nonostante le apparenze, Napoleone fu quanto di più antitetico alla conservazione si possa immaginare. Anzi, fu colui che salverà e renderà un «punto di non ritorno» la Rivoluzione francese. Egli, creando geniali amalgami e operando fortunate forzature, spegnerà i furori e metterà ordine nel caos post-rivoluzionario — politico, religioso, sociale — a rischio di auto-lesione, «organizzerà» il mondo frutto dell’eruzione del colossale «vulcano» della Rivoluzione di Francia, dandogli leggi e istituzioni che creeranno un monolite politico e sociale inattaccabile. Nonostante «organi di controllo» assembleari che in tesi lo affiancheranno, egli saprà accumulare e concentrare in sé un potere assoluto e sterminato, quale solo gl’imperi «asiatici» avevano conosciuto.
Se vogliamo tentare un bilancio storico il più possibile oggettivo — ossia fondato sui dati della ricerca — della sua figura, dobbiamo evidenziarne i «magis» e i «minus», tanto in assoluto quanto in relazione al contesto storico in cui la sua straordinaria parabola umana si snoda.
2.1 Fra «magis» e «minus»: il genio militare
Napoleone fu in primis un portento dell’arte militare. Grazie a una borsa di studio procacciatagli dal padre, il piccolo nobile Carlo Maria Buonaparte (1746-1785), compie la sua formazione militare nelle scuole della monarchia francese, la quale, in quel Settecento declinante, prima della grande Rivoluzione, ha accademie di primissimo ordine, dove si insegnano strategie, tattiche e — come nel caso del giovane futuro artigliere — anche tecniche avanzatissime, superiori a quelle della già allora famosa Prussia. L’esercito francese — assai meno la marina — è allora il più potente in Europa. La Rivoluzione ne decapiterà parecchi generali aristocratici e altri ne costringerà all’emigrazione, ma l’Armée rimarrà, pur all’interno di una nazione assai impoverita dalle ininterrotte «febbri» ideologiche ed epurazioni, un corpo formidabile. Napoleone, ancora al servizio del re, divorerà i volumi che insegnano la nuova arte bellica e, al servizio della repubblica, ne applicherà vittoriosamente i princìpi, trasfigurati dal suo genio, in ogni circostanza, iniziando a sconfiggere i «parrucconi» sardi e austriaci sulle colline della Liguria orientale, a meno di trent’anni di età (7). Ma egli non conosce solo le teorie e l’arte del comando: ad Auxonne, in Borgogna, prima di ricevere le spalline da sottotenente, ha dovuto servire in un reggimento indossando i gradi da caporale in su e qui ha conosciuto i colleghi aristocratici, ma soprattutto ha vissuto fianco a fianco con la truppa e così sa che cosa il soldato vuole sentirsi dire e dunque saprà come rivolgersi ai suoi «grognard» — inclusi i vandeani «ricuperati» —, prima e nel corso delle future battaglie per guadagnarsene il consenso e l’affetto, sapendone spingere l’obbedienza e il valore fino al delirio. Oltre a tutto ciò, la leva obbligatoria — dalla Francia estesa poi ai Paesi satellizzati — fornirà prima alle truppe repubblicane e poi a quelle imperiali una formidabile massa di manovra, quindi, un notevole vantaggio sugli eserciti di mestiere delle potenze anti-napoleoniche. Il nuovo modo di combattere — e di «approvvigionarsi» ai danni dei Paesi conquistati o attraversati — delle armate napoleoniche, la loro velocità di spostamento, l’intelligenza delle manovre decise da Bonaparte saranno per anni, fino all’esaurimento delle risorse e alla ribellione generale dei popoli, il fattore-chiave del successo del neo-imperatore. Va sottolineato che, contrariamente alla più comune accezione del termine «genio», in Bonaparte questa dote è sì innata, ma è anche coltivata mediante uno studio assiduo e nutrito fecondato da uno spirito di osservazione che accumula e capitalizza fatti e dati per un futuro che talora gli capita di vivere: non è un «Superman», bensì un uomo che sa fare tesoro di ogni possibile spunto utilizzabile per vincere (8).
2.2 I «magis»
Partendo dalla religione, va osservato che Bonaparte è un gran libertino — ha due mogli e le sue amanti ufficiali e pro tempore non si contano (9) — e non si fa grossi scrupoli di coscienza nell’ignorare la legge del Signore e nel trattare in maniera poco onorevole i Papi e la Chiesa. Ma non è ateo: per esempio, anche quando qualcuno lo vorrebbe staccare dal cattolicesimo e fargli creare una Chiesa nazionale autocefala, si rifiuta; magari coltiva l’idea di fare della Santa Sede il dipartimento religioso del suo impero, ma si rifiuta. Le cronache dei suoi ultimi giorni nell’isola di Sant’Elena e soprattutto l’articolo 1 del testamento (10) ne evidenziano chiaramente l’attaccamento alla religione dei padri (11). Ha uno zio cardinale, il côrso Joseph Fesch (1763-1839) che, dopo anni di abbandono dell’abito e dalle idee repubblicane, tornerà in seno alla Chiesa di Roma, servendola con zelo fino a meritare il fasto del galero.
È un fatto poi che il suo avvento al potere, con il Concordato del 1801, segna la fine della criminalizzazione della Chiesa e del massacro del clero in Francia, mentre ridà spazio, sebbene ridotto rispetto a prima, al culto pubblico (12). A lui si deve altresì il rientro dall’emigrazione di molti sacerdoti e religiosi e, anche se la maggior parte dei beni ecclesiastici di prima della Rivoluzione non tornerà alla Chiesa, egli si curerà di sostenere le diocesi e le parrocchie con il denaro pubblico. L’Impero, a differenza della Repubblica, riconoscerà la Chiesa di Roma come interlocutore, sebbene in una prospettiva secolarizzata, cioè come corpo collettivo in grado di fornire all’impero un ineludibile «supplemento d’anima» e di muovere le masse cattoliche.
Nel medesimo spirito in cui s’intrecciano la volontà ordinatrice e l’assoggettamento dei culti allo Stato, si preoccuperà delle altre presenze religiose in Francia e nell’Impero. Per esempio, convocherà il sinodo — o «Gran Sinedrio» — ebraico del 1806, cercando di integrarne nella nazione le comunità — tradizionalmente divise nelle origini e nelle forme cultuali — e confermandone l’emancipazione. Coltiverà altresì la prospettiva della creazione di un «focolare ebraico» nella Palestina ottomana (13).
In campo politico, se pure porrà le premesse per il discutibile «risorgimento» della Penisola, è un fatto che egli «prepari» l’unità italiana, ancorché, nella sua prospettiva dispotica, vedendola come satellite «a sovranità limitata» (14). Né si può negare che diversi aspetti della modernizzazione «tecnica» delle strutture che egli attua fossero un passo avanti rispetto all’intricato e decrepito «antico regime».
2.3 I «minus»
Venendo ora alle «dolenti note» (15), cioè ai «minus», ai demeriti, alle «ombre» create dal fulgore del suo «astro», di cui in sede storiografica si deve prendere atto, il loro elenco è oggettivamente assai più ricco di quello testé redatto. Va premesso che su Napoleone i suoi estimatori — e non si tratta di cultori privati ma dell’ideologia di interi Stati e regimi, tuttora insediati al potere — è stata creata una «leggenda rosa» (16), al cui mulino molta della storiografia accademica, tanto quella ottocentesca quanto quella più recente, ha portato torrenti di acqua, trattando non di rado i dati della ricerca con una certa «disinvoltura» e anteponendo alla realtà fitti schermi di «wishful thinking». Ora, l’intento corretto non dev’essere quello di costruire una «leggenda nera» fondata sui medesimi «canoni», ancorché «inversi», ma di far entrare in gioco una prospettiva ideale «alternativa» — in genere trascurata perché, almeno da noi, perdente —, non afflitta da pregiudizi filo-rivoluzionari ma «continuistica», e dalla finalità non encomiastica ma sanamente critica.
Come detto, Napoleone, grazie alla sua arte militare innovativa e al suo straordinario talento strategico e tattico, abbatte imperi, regni e principati e in breve arco di tempo rimodella la mappa d’Europa — e anche d’America, se consideriamo la cessione della Louisiana. Con lui l’Europa delle monarchie di diritto divino tramonta definitivamente; l’antica frammentazione statuale di origine medioevale — già in fase di ricomposizione almeno dal Quattrocento in poi (17) — cede a compagini più ampie — come nell’ordinamento dipartimentale della Francia, da lui confermato, e nella «semplificazione» degli Stati germanici e nei principati italiani — che rimarranno tali anche in seguito. L’Italia, la Polonia, la Germania sono i «laboratori» della sua politica internazionale. Il suo tallone di ferro schiaccia le nazionalità che allora stanno prendendo coscienza della loro identità sotto il soffio della cultura «romantica», specialmente in area germanica e britannica: la lotta contro la Francia sarà anche — e così sarà giocata abilmente dai principi anti-rivoluzionari — una lotta di liberazione delle nazioni. La battaglia combattuta sui campi sassoni di Lipsia nel 1813, in cui Napoleone conosce per la prima volta una grave sconfitta, passerà alla storia come «Völkerschlacht», «battaglia delle nazioni».
Napoleone erigerà il suo impero con il consenso — talora estorto con la forza — delle superstiti élite nobiliari e borghesi di tutta Europa, già profondamente «infrancesate» dall’illuminismo cosmopolita settecentesco e dall’ideologia democratica del periodo rivoluzionario. Ma nei popoli il fulgore della sua figura, se abbaglia i potenti, si estingue ben presto e si tramuta in avversione profonda e in spirito di rivolta. Se tanti fra i soldati francesi — in prima fila i vandeani «ricuperati» —, polacchi e italiani di Napoleone combatteranno con entusiasmo e con valore, per molti di loro servire sotto le aquile imperiali sarà un destino esecrato. L’edificazione dell’impero «dei francesi» dissanguerà, infatti, l’Esagono e i popoli vassalli, i cui figli saranno costretti a combattere ininterrotte e sanguinose guerre in Paesi lontani, talora contro altri popoli in rivolta. Bonaparte costruirà la potenza francese drenando risorse da tutta Europa: farà mantenere le sue armate dai contadini europei e saccheggerà spietatamente e sacrilegamente abbazie e monasteri — proprio nei giorni in cui scrivo la Chiesa beatifica sei monaci cistercensi dell’abbazia di Casamari (Frosinone) massacrati dai soldati francesi in ritirata nel 1799 —, basiliche e santuari — si pensi al «tesoro», frutto degli oboli di migliaia di umili pellegrini, della Santa Casa di Loreto (Ancona), predato subito dopo l’invasione degli Stati Pontifici nel 1797 —, collegiate e monti di pietà, demani statali e casse municipali, trafugando inestimabili tesori artistici di musei, chiese, palazzi e curie soprattutto italiani: solo così nascerà il grandioso Museo del Louvre, dal 1802 «Musée Napoléon» (18).
Il suo regime cesareo-illuminato — il «bonapartismo» diventerà dopo di lui un «idealtipo» weberiano, nonché una categoria politologica — si fonderà su nuovi ordinamenti, i famosi «Code Napoléon», che esprimono la quintessenza dell’individualismo egualitario e libertario della Rivoluzione, pur assegnando un ruolo primaziale e centrale allo Stato (19). Il suo sarà un governo misto di carisma e di burocratismo. Sotto il primo aspetto la persona dell’imperatore-generale è il centro decisionale supremo e la fonte di ogni politica e relazione internazionale; dall’altro, l’amministrazione, razionalmente e ferreamente organizzata, trasmette le decisioni fino agli estremi limiti della nazione. La creatura istituzionale più originale, tipica e duratura — in Francia e Italia valevole fino a oggi — della sua amministrazione centralizzata sarà la figura del prefetto. Se non si può affermare che lo Stato costituzionale e parlamentare liberale dell’Ottocento replichi tout-court il modello del regime napoleonico, quanto meno per la Francia e per l’Italia, è vero che la sua amministrazione adotta praticamente in blocco il modello napoleonico. E parecchio di essa residuerà altresì nelle repubbliche democratiche novecentesche. Questo aspetto della dilatazione delle strutture pubbliche nel regime che nasce dalle rovine di quello «antico» viene spesso sottovalutato, quando non ignorato, in sede storica. È un paradosso che per garantire più libertà a più soggetti in maniera equa sia giocoforza che le strutture regolatrici e coattive crescano rispetto alla società.
In Francia come nell’Impero, il regime napoleonico reprime con ancor maggior durezza rispetto agli anni «giacobini» le rivolte popolari che scoppiano ovunque, dal Tirolo alle Calabrie, dalla Spagna alla Russia, durante il suo dominio.
Sotto il profilo socio-economico, anche grazie alla messa in circolazione dei patrimoni delle grandi famiglie ebraiche multipolari emancipate — i Rothschild, gli Ambron, i Warburg, cui seguiranno i Rockefeller, i Loeb, i Lehman, i Sassoon, gli Schiff, i Lazare e tanti altri (20) —, negli anni di Bonaparte si creano le premesse per l’intreccio fra capitalismo finanziario ed economia reale che dominerà l’Occidente euro-americano nell’Ottocento e che sarà a sua volta preludio della prima «globalizzazione», quella del denaro.
Quanto alla religione, Napoleone non concepisce neppure di spartire il potere supremo con una qualsiasi altra entità, temporale o spirituale. E la Chiesa di Roma è uno di questi poteri, ancorché impalpabile. Ma il Côrso non vuole sopprimerla, come i «giacobini», bensì assoggettarla all’Impero, usarla come instrumentum regni per ottenere la pace sociale. Egli non si limiterà a rinverdire il vecchio giurisdizionalismo «illuminato» dei monarchi: vorrà proprio fare della Chiesa una branca dello Stato. Costringerà il Papa Pio VII (1800-1823) a stipulare un concordato che concede qualcosa, ma toglie parecchio alla libertas Ecclesiae; lo irriderà, costringendolo a incoronarlo — a Notre Dame di Parigi e non più a Reims, come per secoli i re capetingi — ma ponendosi sul capo la corona da solo; lo piegherà a un nuovo concordato che vedrà il potere laico invadere ancor più abbondantemente la sfera ecclesiastica — e che, per questo, il Papa sconfesserà non appena potrà. Nella sua pressione sui Papi non esiterà a incarcerare Papa Pio VI (1775-1799) — che morrà in esilio a Valence, in Francia, durante il viaggio verso Parigi —, e a deportare Pio VII a Fontainebleu. Sarà il primo sovrano a reiterare in questa forma, ben più grave, lo «schiaffo di Anagni» (Frosinone) del 1303. Ma lo schiaffo sarà altrettanto pesante quando, nel 1798 e nel 1810, sopprimerà lo Stato Pontificio, mostrando al mondo e ai rivoluzionari in specie — che ne trarranno debita «lezione» — che abbattere gli antemurali temporali di Pietro era possibile, anzi cosa facile. Non tutte le gerarchie e il clero si assoceranno alla resistenza dei Papi contro il despota: vi sarà chi — il cardinale bolognese Giovanni Battista Caprara Montecuccoli (1733-1810), arcivescovo di Milano — «inventerà» il culto di un san Napoleone e, nel 1806, elaborerà un «catechismo imperiale» per il fedele cattolico, in cui la figura dell’imperatore assumerà contorni semi-divini.
L’esperienza napoleonica lascerà tracce profonde pressoché in tutti i popoli che l’hanno fatta o subìta. La Restaurazione stessa non potrà cancellarla. L’esperienza di anni in cui le idee rivoluzionarie hanno trovato applicazione concreta e stabile, sebbene temporaneamente sconfitte, rimarrà nella mente degli uomini che vi sono stati coinvolti e vi hanno partecipato con entusiasmo, dai generali ai quadri ufficializi, che hanno apprezzato «il concitato imperio e il celere ubbidir» (21) nel fragore dei campi di battaglia di tutta Europa. Già nel 1821 questa memoria provoca, in Italia, le prime sollevazioni contro i governi restaurati. Poi, le idee legate alla figura di Napoleone fermenteranno ancora, fino a riesplodere nei moti del 1830-1831 e nella grande stagione rivoluzionaria del 1847-1849. E torneranno di nuovo nel fenomeno del «secondo bonapartismo» che governerà la Francia fino al 1870.
Come accennato, il «cesarismo» un po’ posticcio del regime napoleonico, il suo parziale «ricupero» delle aristocrazie e delle popolazioni, il suo tentativo neo-imperiale, lo sforzo di creare una nuova «aristocrazia del sangue», alimentata dai parenti e dai marescialli — senza dimenticare le centinaia di migliaia di figli del popolo mandati a morire dalla sua sconfinata ambizione (22) —, la repressione che egli attua contro le correnti rivoluzionarie più radicali — che faranno nascere in Italia fenomeni settari come la Carboneria —, abbacineranno molti dei suoi nemici e ne opereranno il ralliément al regime. Il «passo indietro», dopo i classici «due passi avanti» che egli fa compiere al processo rivoluzionario illuderanno molti che la Rivoluzione sia finita: in realtà cambierà solo modalità di marcia. Questa fascinazione si riproporrà con i nuovi «bonapartismi» dell’Ottocento e del Novecento (23) e in ogni occasione di scontro fra destra e sinistra, configurando una delle tante «false destre», una fra le più pericolose perché apparentemente ragionevole e «richiesta dalle cose».
3. In conclusione
Da questa breve panoramica di meriti e demeriti si può concludere che, pur a una «pesatura» sommaria, i secondi eccedono senza alcun dubbio i primi e non solo per noi italiani ma per l’intera Europa. Sta di fatto che il volto «liberatore» di Napoleone, singolarmente — ma non tanto —, è celebrato ormai solo in Francia e in Italia: negli altri Paesi europei — in Spagna, in Svizzera, in Gran Bretagna, in Austria, in Germania, in Russia — lo si ricorda invece come invasore protervo e despota senza scrupoli, sconfitto dai principi legittimi ma anche dalla ribellione dei popoli. In Italia il beneficio di aver avviato processi di unificazione e di modernizzazione scompare davanti alle profonde ferite che l’«esperienza napoleonica» ha inferto nel tessuto religioso e civile di una nazione — cui pure Bonaparte doveva le origini — che a più riprese, nella sua «pancia» più profonda e sanamente legata al passato ha dato prova di un totale rifiuto dell’utopia rivoluzionaria e del dominio straniero. Il dominio non più, come per secoli, di una Corona transalpina, bensì di una nazione «nazionalista» in senso pienamente moderno e ancor più oppressivo. Si sono contate, come doveroso, fino all’ultima unità le vittime delle rappresaglie dell’occupante nazionalsocialista fra il 1943 e il 1945, ma delle stragi, ben più ingenti, di cui sono stati autori i soldati francesi, e non sempre per rappresaglia, si è persa la memoria. Ho menzionato i beati martiri di Casamari, ma, come ha ricordato giustamente l’arcivescovo di Frosinone-Veroli-Ferentino, mons. Ambrogio Spreafico, durante il rito di beatificazione, il giorno prima, il 12 maggio, giorno di Pentecoste, nei pressi dell’abbazia, a Isola del Liri, i francesi e i militi della «giacobina» Repubblica Romana, comandati dai generali François Watrin (1772-1802) e Jean Baptiste Olivier (1765-1813), avevano sterminato qualcosa come 533 civili: per la precisione, «464 uomini, […] 70 donne, […] 9 sacerdoti e […] 100 forestieri», come recita la lapide commemorativa, perché avevano osato sfidare in campo aperto — non in un agguato proditorio — le colonne transalpine. La maggior parte delle vittime, specialmente donne e bambini, si era rifugiata nella chiesa di San Lorenzo Martire, trasformata in un autentico carnaio (24).
Il mito di Bonaparte liberatore fino a ieri, salve rarissime e superficiali parentesi — come negli anni 1930, al tempo del fascismo, quando Niccolò Rodolico (1873-1969) e Giacomo Lumbroso (1897-1945) riscopriranno l’insorgenza popolare anti-francese — è stato una specie di dogma, perché associato strettamente a quello risorgimentale. Esso, tuttavia, è sempre più eroso dalla storiografia salutarmente «revisionistica» e dalla rinascita del sentimento identitario locale. La storia del bicentenario dell’Insorgenza e la fioritura di studi e di iniziative controcorrente, che è nata allora e prosegue oggi, ne sono la prova solare.
Un’ultima considerazione. Giovanni Cantoni (1938-2020) ha scritto che talvolta le ricorrenze cadono in frangenti in cui appunto ricorrono quadri di fondo analoghi o simili a quelli dell’evento celebrato (25). Quali, nel nostro caso? Non è sbagliato dire che tanti accadimenti contemporanei richiamano alla mente il modello «bonapartistico». Se la parabola della Rivoluzione francese sente a un determinato momento il bisogno di uscire dal caos degli anni della Convenzione e del Direttorio affidandosi a un «tecnico» di alto prestigio, anche oggi il mondo ultra-democratico e «sessantottino», tornato dal «lungo viaggio» attraverso la «buia parentesi» berlusconiana, pare in cerca di soluzioni più temperate e stabilizzate, imboccando vie certo non di tipo militare ma tali da sembrare comunque propense alla rivalutazione dell’autoritarismo.
L’impero bonapartistico, per altro aspetto, può essere visto altresì come il primo tentativo di costruire un contenitore internazionale che calasse le idee della Rivoluzione in un contesto istituzionale ampio e saldo che ne diffondesse e ne prolungasse l’effetto. Il tentativo successivo — ovviamente a uno stadio ulteriore del fenomeno rivoluzionario — sarà l’Unione Sovietica (URSS) e forse, oggi, crollata l’URSS, è — tralascio gli Stati Uniti, anch’essi nel progetto dei Fondatori contenitore di libertà per più popoli e nazioni (26) — l’Unione Europea, oppure la Cina post-maoista, comunista ma «riveduta e corretta». Dunque, tornare oggi a studiare la «scimmia» del Sacro Impero rappresentata dall’impero del parvenu côrso non è esercizio ozioso, ma utile ausilio per lettura del presente in vista del futuro.
Note:
1) Cfr. un «assaggio» della sterminata bibliografia napoleonica in Luigi Mascilli Migliorini, Napoleone, Salerno Editrice, Roma 2001, pp. 618-630.
2) Cfr. François René de Chateaubriand, Di Buonaparte e dei Borboni, 1814, trad. it., a cura di Cesare Garboli (1928-2004), Adelphi, Milano 2000.
3) Alessandro Manzoni (1785-1873), Il cinque maggio, in Inni sacri e Odi, in Opere, a cura di Riccardo Bacchelli (1891-1985), Ricciardi, Milano-Napoli 1973, v. 31.
4) Forse grazie al tradimento del connazionale e commissario repubblicano Antoine Christophe Saliceti (Antonio Cristofano; 1757-1809), uno dei protagonisti del futuro Triennio Giacobino in Italia. Sul punto cfr. specialmente Jean Tulard, Napoleone. Il mito del salvatore, 1971, trad. it., Rusconi, Milano 1994, parte I, cap. 3, L’uomo di Robespierre, pp. 71-84, in part. p. 79 (n. ed., Bompiani, Milano 2003).
5) Cfr. Guglielmo Ferrero (1871-1942), Avventura. Bonaparte in Italia. 1796-1797, 1936, trad. it., Garzanti, Milano 1947 (n. ed., prefazione di Sergio Romano, Corbaccio, Milano 1996).
6) Cfr. Jacques Godechot (1907-1989), La grande nation. L’expansion révolutionnaire de la France dans le monde de 1789 a 1799, Aubier, Parigi 1956; 2a ed. interamente rifusa nel 1983, ibid. 2004 (trad. it. della 1a ed., La grande nazione. L’espansione rivoluzionaria della Francia nel mondo. 1789-1799, Laterza, Bari 1962).
7) Questo aspetto, non proprio arcinoto, è evidenziato da Jacques Bainville (1879-1936), Napoleone, 1931, trad. it., prefazione (saggio biografico sull’autore) di Patrice Gueniffey (pp. 7-79), Baldini Castoldi Dalai, Milano 2006, p. 103. A mio avviso questo ormai datato saggio dello storico amico dell’Action Française è uno dei migliori e più piacevoli in circolazione. Una critica «moderata» da una prospettiva anglo-sassone in Paul Johnson, Napoleone, 2002, trad. it., Fazi Editore, Roma 2004.
8) Bainville lo rimarca di continuo e non certo per sminuire la statura del generale, anzi…; cfr. ibid., passim.
9) Un elenco, ancorché del tutto tangenziale — anzi alquanto fuori luogo — rispetto al tema, si può ricavare dal romanzo storico di Elido Fazi, Potenza e bellezza. Cronache da Roma e da Parigi (1796-1819), Fazi Editore, Roma 2021.
10) Cfr. Testamento di Napoleone, in [Emmanuel-Augustin-Dieudonné-Joseph, conte de] Las Cases (1766-1842), Il memoriale di Sant’Elena, 1822-1823, trad. it., introduzione di Giovanni Ansaldo (1895-1969), 2 voll., Gherardo Casini, Roma 1962, vol. II, pp. 787-802 (p. 787) (incluso [Francesco] Antommarchi (1780-1838), Gli ultimi giorni di Napoleone, vol. II, pp. 803-926).
11) Sul punto cfr. le brevi riflessioni del card. Giacomo Biffi (1928-2015), Napoleone vinto anche da Dio, in Avvenire. Quotidiano di ispirazione cattolica, 29-10-2013, che chiosa alcuni passi del Memoriale di Sant’Elena (passim).
12) Su Napoleone e la religione cfr. il vecchio, ma «sempreverde», studio di mons. Guglielmo (Wilmos) Tower (1879-1958), Ciò che le biografie di Napoleone non dicono, 1937, trad. it., 3a ed., Istituto Missionario Pia Società S. Paolo, Alba (Cuneo) 1942.
13) Cfr. Abraham Shalom Yahuda (1877-1951), Napoleone e uno Stato ebraico, in La Rassegna Mensile di Israel, terza serie, vol. 16, n. 5, maggio 1950, pp. 202-209.
14) Su questo punto la letteratura, italiana e straniera, è sterminata: segnalo solo Luigi Mascilli Migliorini (a cura di), Italia napoleonica. Dizionario critico, prefazione di Giuseppe Galasso (1929-2018), UTET Libreria, Torino 2011; Nicola Raponi (1931-2007), Il mito di Bonaparte in Italia. Atteggiamenti della società milanese e reazioni nello Stato romano, Carocci, Roma 2005; e Alain Pillepich, Napoleone e gli italiani, 2003, trad. it., il Mulino, Bologna 2005.
15) Dante Alighieri (1265-1321), La divina commedia, Inferno, canto V, v. 25.
16) Tuttavia, quando inizia il declino, su di lui sarà costruita anche una effimera «leggenda nera», di cui fa stato J. Tulard, L’anti-Napoleone, 1964, trad. it., prefazione di Renzo De Felice (1929-1996), Veutro Editore, Roma 1970. Che quella nera si sia rivelata nel tempo «meno vitale» di quella «rosa», come afferma l’illustre prefatore italiano del volume di Tulard, è eloquente testimonianza di chi sia prevalso nella «battaglia delle idee».
17) Sul processo di superamento del Comune e della sovranità feudale cfr., fra l’altro, Cesarina Casanova, L’Italia moderna. Temi e orientamenti storiografici, Carocci, Roma 2001; nonché alcuni eccellenti capitoli di Francesco Pappalardo, Lo Stato moderno, D’Ettoris, Crotone 2021 (in via di pubblicazione).
18) Cfr. Marco Albera, «I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre», in Cristianità, anno XXV, gennaio-febbraio 1997, n. 261-262, pp. 11-14.
19) Cfr., fra l’altro, Xavier Martin, Mythologie du Code Napoleon. Aux soubassements de la France moderne, Dominique Martin Morin, Bouère (Francia) 2003.
20) Sul rapporto fra grande finanza internazionale, inclusa l’area ebraica, e Rivoluzione la letteratura è amplissima. Fra i tanti testi cfr. Henry Coston (1910-2001), L’alta finanza e le rivoluzioni, 1963, trad. it., a cura di Marco Tarchi, prefazione di Georges Virebeau (pseud. di Henry Coston), Edizioni di Ar, Padova 1971.
21) A. Manzoni, Il cinque maggio, cit., vv. 83-84.
22) Wikipedia, alla voce Grande Armata ci fornisce qualche dato: «I Contingenti stranieri, nel corso delle Guerre napoleoniche, contribuirono in maniera sempre più determinante alla formazione della Grande Armée francese, tanto che nel corso della campagna di Russia i soldati stranieri equivalevano quelli francesi per numero. Molte armate europee del tempo reclutarono milizie e volontari stranieri e il Primo Impero francese non fece eccezione. Quasi tutte le nazionalità europee furono rappresentate nei ranghi della Grande Armée. A tal proposito riportiamo di seguito l’elenco delle nazionalità degli oltre 600.000 uomini che servirono Bonaparte nella campagna di Russia del 1812: 300.000 uomini arruolati tra Francia e Paesi Bassi; 95.000 reclutati in Polonia; 50.000 italiani; 24.000 reclutati in Baviera; 20.000 Sassoni; 20.000 provenienti dalla Prussia; 35.000 Austriaci; 35.000 croati; 17.000 provenienti dalla Vestfalia; 15.000 svizzeri». Un ulteriore dettaglio, con i nomi dei vari reparti, offre alla voce Contingenti stranieri nella Grande Armata.
23) Sul punto cfr., fra l’altro, Massimo Luciani, Bonapartismo, oggi?, in Teoria politica. Annali IX, anno XXXIV, n. 9, 2019, pp. 139-168 (anche nel sito web <http://journals.openedition.org/tp/774>); nonché Alceo Riosa (a cura di), Napoleone e il bonapartismo nella cultura politica italiana. 1802-2005. Atti del convegno omonimo, Milano, 1/3-12-2005, Guerini e associati, Milano 2007.
24) Cfr. [Paul Charles Henri François Adrien Dieudonne Thiébault (1769-1846)] Memoires du Général Baron Thiébault, 3a ed., a cura di Fernand Calmettes (1846-1914), 5 voll., Plon, Parigi 1894, vol. II, pp. 529-535. Colpiscono le analogie — ma non certo le identità — con la strage di San Miniato (Pisa) del 22 luglio 1944, in cui 55 civili — dieci volte meno di Isola del Liri —, in maggioranza donne e bambini, concentrati dai tedeschi occupanti nel duomo della città, persero la vita a causa di un proiettile sparato dall’artiglieria americana, che martellava il nemico in ritirata, penetrato dall’alto nel tempio. Sul massacro, che una ideologica storiografia partigiana ha per decenni imputato ai soldati della Wehrmacht e ai fascisti repubblicani, è stato costruito il — peraltro pregevole — pluripremiato film dei fratelli Paolo e Vittorio (1929-2018) Taviani, La notte di San Lorenzo, del 1982, che — senza alcuna rettifica da parte degli autori, entrambi di fede comunista, quando affiorò la verità — ha contribuito a perpetuare e a «blindare» la menzogna.
25) Cfr. Giovanni Cantoni, L’Italia fra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, in Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, trad. it., 3a ed. accresciuta, Edizioni di «Cristianità», Piacenza 1977, pp. 7-50 (p. 7).
26) Della vocazione federativo-espansionistica — in nome della libertà — degli Stati Uniti, è assertore, per esempio, uno dei massimi teorici dell’«American Republic», Orestes Augustus Brownson (1803-1876) (sul punto cfr. Robert A. Herrera, Orestes Brownson: sign of contradiction, ISI Books, Wilmington (Delaware) 1999, p. 143; cit. nel mio Alle origini del conservatorismo americano. Orestes Augustus Brownson: la vita, le idee, D’Ettoris Edtori, Crotone 2013, p. 190). L’incorporazione di Paesi lontani come le isole Hawaii, Portorico, l’Alaska e — pro-tempore — le Filippine ne è poi eloquente «prova-provata».