Maurizio Dente, Cristianità n. 71 (1981)
Il Partito Comunista – dal 1975 al governo del comune di Napoli – cerca di sfruttare la recente catastrofe naturale per conquistare il potere anche sulla società di una città particolarmente ricca di fermenti anticomunisti. Così, nella Napoli del dopo- terremoto, la “pianificazione” urbanistica viene scelta come occasione per la deportazione “indolore” di decine di migliaia di napoletani – che avevano il “torto” di resistere alla penetrazione comunista – in un contesto socio-culturale più adatto alla “rieducazione” politica, necessaria ai comunisti per estendere il loro potere nella città.
Il terremoto del 23 novembre 1980 e la “grande emergenza” naturale prodottasi in tale circostanza rappresentano per il Partito Comunista Italiano l’occasione per sconvolgere la realtà socio-politica di Napoli, di una città, cioè, le cui sorti sono strettamente collegate all’intera area che viene denominata Mezzogiorno d’Italia, come più volte è stato fatto rilevare da esponenti del PCI campano (1).
Uscito vittorioso dalle elezioni amministrative del giugno 1975; divenuto primo partito cittadino con il 32,15% dei voti e 27 seggi su 80 in consiglio comunale; quasi costretto, suo malgrado, a mettersi alla testa di una giunta di sinistra che lasciava la Democrazia Cristiana all’opposizione (2), il PCI si è venuto a trovare alla guida di una città ricca di tradizione e di cultura – usando questo secondo termine nel suo significato più ampio di visione del mondo -, che, evidentemente, non basta demonizzare per rendere complice dei propri progetti (3).
Paradossalmente, e all’opposto della strategia suggerita da Gramsci – prima il potere sulla società civile, poi il governo -, si può affermare che i comunisti, a Napoli, erano dal 1975 al governo del comune, ma non al potere, nel senso di un reale controllo sulla società civile napoletana.
L’immagine, peraltro evocatrice di storiche sconfitte, dei comunisti rinchiusi nel palazzo del governo cittadino, in una grande città quotidianamente percorsa da cortei di disoccupati e di dimostranti di diversa estrazione, ricca di fermenti anticomunisti, mentre procedeva con difficoltà l’opera di infiltrazione e di radicamento del PCI all’interno delle istituzioni comunali, era certamente adatta a descrivere la realtà napoletana.
Il rilevamento elettorale, compiuto dopo cinque anni di governo cittadino, nel giugno 1980, ha confermato e aggravato il quadro descritto: mentre il PCI teneva a fatica le proprie posizioni (31,7% contro il 32,1% del 1975) – pur godendo dei consistenti vantaggi connessi al fatto di detenere le leve del potere comunale (4), e a prezzo dell’essiccamento delle risorse dei poli esterni alla sua sinistra, rappresentati dal Partito di Unità Proletaria e da Democrazia Proletaria (5) -, si registravano il significativo risultato del Movimento Sociale Italiano-Destra Nazionale (22,3%, contro il 18,6% del 1975) e la massiccia percentuale di astensioni, prova che circa la metà del corpo elettorale, a Napoli, aveva votato per il partito più lontano dalle posizioni del PCI o non aveva votato affatto. E a questi fatti andava unita la sconfitta della DC, principale interlocutrice del PCI napoletano (25,4% contro il 28,4% del 1975), e autentico puntello della giunta guidata dal PC stesso, attraverso il suo coinvolgimento nelle responsabilità di governo cittadino definito dalla formula di “accordo programmatico”.
La situazione immediatamente anteriore al 23 novembre 1980
La situazione di difficile governabilità della città – nella quale si andavano producendo molteplici tensioni, con sintomi reattivi del corpo sociale e delle categorie produttive (6), destinati a non avere dirette conseguenze politiche, in quanto non giustamente valutati e opportunamente orientati, benché visibilmente esistenti – veniva ulteriormente compromessa, sul piano della credibilità amministrativa della giunta di sinistra, da uno scandalo, che vedeva coinvolti assessori ed ex assessori (7).
L’immagine pubblica del PCI, che nel 1975 si era presentato ai napoletani con la parola d’ordine “un nuovo modo di governare“, subiva un serio colpo (8).
La “emergenza” naturale creata dal terremoto del 23 novembre 1980, pur avendo, evidentemente, caratteri di eccezionalità, si presentava come una grande occasione, per il PCI stesso, per rafforzare i propri precari equilibri di potere nel breve termine, coinvolgendo il maggior numero possibile di partiti nelle responsabilità del governo cittadino del dopo-terremoto e ponendo, nel contempo, le basi per una sua incidenza assai maggiore sulla società napoletana, attraverso una opportuna programmazione del dopo terremoto stesso, cioè di quelle ipotesi sul futuro assetto non soltanto urbanistico della città, che si classificano sotto la voce di “ricostruzione”. Ed ecco la calamità naturale diventare una “occasione di programmazione più generale, con riferimento non all’emergenza“, secondo quanto affermato da un esponente comunista di primo piano (9).
Minoritario nella “Napoli reale” prima ancora che in consiglio comunale; quasi assediato nel palazzo del comune da una opposizione sociale che è andata progressivamente lievitando, il PCI sceglierà di “cavalcare la tigre” della “emergenza” – che cercherà di drammatizzare e di enfatizzare attraverso i mass media (10) -, puntando contemporaneamente a realizzare, anche a prezzo di incomprensioni nell’elettorato e nella opinione pubblica (11), i propri grandi progetti di sconvolgimento della realtà sociopolitica della città. Tra essi si colloca, anzitutto, la deportazione, fuori dal centro storico e dalla cinta urbana, di decine di migliaia, forse centinaia di migliaia, di napoletani. E tali Progetti vengono presentati come doverosi e ineludibili piani di “riassetto urbanistico”, che incontrano, su questa strada, i progetti di sapore illuministico degli epigoni di quei nobili filo-giacobini di Napoli, che nel 1799 si schierarono con la Rivoluzione e l’esercito francese contro la popolazione che resisteva con le armi in pugno (12).
La deportazione del sottoproletariato del centro storico presupposto per l’estensione del potere comunista
L’ampia parte di città inclusa nell’area considerata “centro storico”, in cui rientrano popolosissimi quartieri (13), è prevalentemente abitata da una piccola borghesia commerciale e da un sottoproletariato che appare profondamente radicato nel tessuto cittadino e assai reattivo sul piano sociale. Anche il riscontro elettorale è, da questo punto di vista, indicativo. Il voto moderato e anticomunista dei quartieri del centro storico fa da pendant e riequilibra elettoralmente la città di fronte a quello della periferia industriale, in cui l’insediamento comunista è massiccio, e dei quartieri della periferia di recente aggiunti alla città (14).
Ebbene, facendo leva su uno scadimento del patrimonio abitativo certamente esistente, ma risalente, per buona parte, a prima del 23 novembre, il PCI, aiutato da una indubbia. “psicosi del terremoto”, ha potuto costruire la “grande emergenza”, la psicologia della “grande emergenza”, e fare di Napoli un “caso nazionale” (15).
Infatti, la drammatizzazione della situazione del dopo-terremoto, la creazione di una “grande emergenza”, oltre a costituire il presupposto per la “grande alleanza”, è la giustificazione per il coinvolgimento, almeno sul piano della responsabilità, di altre forze, perfino quelle abitualmente demonizzate, secondo una formula già nota altrove e ampiamente sperimentata: “tutti al governo e tutto il potere ai comunisti” (16). Tutto ciò è anche necessario per la realizzazione dei progetti di sconvolgimento, a fini rivoluzionari, degli equilibri sociali, politici ed economici su cui poggia la città (17).
Lo sradicamento della popolazione e la deportazione
Di fronte al dato di fatto di una popolazione su cui riesce a esercitare solamente un potere limitato, il PCI – rifacendosi, d’altronde, a una lunga tradizione in tal senso (18) – punta al suo “reciclaggio” ideologico attraverso lo sradicamento e la integrazione di larghi strati della popolazione del centro storico in altri contesti socio-politici.
Strumento di tale progetto è la installazione dell’edilizia prefabbricata di tipo “pesante”, che rappresenta, secondo pareri concordi, non una soluzione transitoria, ma piuttosto il nucleo originario di nuovi insediamenti abitativi, in base a una delibera già adottata dalla giunta comunale e ratificata dal consiglio, per l’insediamento di “13 mila vani costruiti con i metodi della prefabbricazione pesante“; a questi bisogna aggiungere la localizzazione di altre 4 mila case, definite invece “provvisorie”, e che vengono considerate aggiuntive rispetto alle 1200 in corso di localizzazione (19). Che cosa si proponga questa delibera – sulla cui “filosofia”, ci viene assicurato dai comunisti, “ha fatto blocco il fior fiore dell’intellettualità napoletana” (20) – sembra risultare abbastanza chiaro dalle affermazioni di autorevoli esponenti del PCI napoletano: la localizzazione di quelli che vengono definiti, con evidente contenuto sdrammatizzante, “alloggi parcheggio“, da utilizzare per la deportazione di decine di migliaia di napoletani non altrimenti condizionabili, è il mezzo per “nuove aggregazioni urbane civili e qualificate in comuni più interni della provincia e della regione” (21). “Aggregazioni civili e qualificate” che demoliscano, finalmente, le resistenze di quella “cultura del sottosviluppo” che, come si è detto, viene “utilizzata demagogicamente da forze avventuristiche ed eversive” (22).
Appare così evidente come si sia di fronte a un progetto di enorme portata, e non semplicemente al trasferimento di qualche centinaio di napoletani (23).
D’altra parte, un tale progetto risulta bene inserito nella concezione che della ricostruzione hanno i comunisti: “essa deve avere come obbiettivo la modificazione dell’attuale assetto del Mezzogiorno” (24), come ha detto il segretario generale del PCI, in visita a Napoli.
Le proporzioni del progetto di deportazione – peraltro già avviato, essendo operativa la delibera sull’insediamento degli “alloggi parcheggio” – comportano, naturalmente, dei rischi a causa delle reazioni che esso è destinato a incontrare, nonostante non si sia compresa, nella gran parte dei casi, la valenza socio-politica dello sradicamento della popolazione dai quartieri d’origine e dalla città, e nonostante l’assenza di una adeguata e doverosa azione informativa a riguardo.
Si tratta, per i comunisti, di una battaglia non facile, combattuta su un terreno difficile, quale quello di una città che è stata capitale di un regno e che conserva, nonostante la massiccia opera di demolizione della sua memoria storica, una cultura e una tradizione ancora vive. Si tratta, ancora, di una battaglia che potrebbe, addirittura, condurre a una rovinosa sconfitta (25), ma che deve essere combattuta: “Non si vede, infatti, come il partito comunista, l’amministrazione di sinistra della città […] possano evitare questo cimento, se non vogliono compromettere la loro funzione politica e il destino di Napoli al tempo stesso” (26). Potrebbe solo accadere che il PCI decidesse di combattere per interposta persona, accettando lo scioglimento del consiglio comunale e la nomina di un commissario governativo, con garanzia di attuazione dei propri progetti, del resto già pronti (27).
L’abbandono temporaneo del governo cittadino, d’altra parte, preluderebbe all’assunzione, da parte del PCI, del potere reale nella città, una volta avviato il “riciclaggio” socio-politico dei napoletani. A quel punto, infatti, i comunisti avrebbero vinto quella “battaglia tra immagini diverse della città” (28) in corso da tempo.
Le fasi decisive di questa battaglia sono lo sradicamento e la deportazione di decine, forse centinaia di migliaia di napoletani.
Ai cattolici, agli anticomunisti, il compito di denunciare il piano e di opporvisi. Nel dopo-terremoto si decide realmente il futuro di Napoli e della sua popolazione.
Maurizio Dente
Note:
(1) Cfr., per esempio, ANTONIO BASSOLINO, segretario regionale del PCI campano: “una decadenza [di Napoli] sarebbe pagata da tutto il Mezzogiorno e dall’intero Paese” (L’Unità, 31-12-1980).
(2) Cfr. quanto hanno scritto due ricercatori marxisti in un saggio sul comportamento elettorale dei napoletani: “il successo politico elettorale [del PCI] è stato […] oltre, probabilmente, le aspettative e forse la stessa disponibilità, o capacità a gestirlo dei beneficiari” (Guido D’AGOSTINO e MAURIZIO MANDOLINI, Napoli alle urne (1946-1979), Guida, Napoli 1980, p. 42).
(3) “[…] vi è una certa cultura del sottosviluppo che è dura a morire e che viene utilizzata demagogicamente da forze avventuristiche ed eversive“, ha scritto il deputato comunista e capogruppo in consiglio comunale Andrea Geremicca (Guardiamo anche al futuro, in Il Mattino, 19-1-1981).
(4) Si pensi che il comune di Napoli (circa un milione e mezzo di abitanti) vanta un organico di quasi 30 mila dipendenti, costituendo così la prima azienda cittadina. Nel tentativo di radicarsi all’interno delle istituzioni, il PCI ha fatto, nei primi cinque anni di potere, massicce assunzioni. Secondo informazioni di stampa, negli ultimi cinque anni sarebbero stati assunti ben 16 mila dipendenti. Cfr. GENNY BRUZZANO, L’organico del Comune non teme concorrenza, in Roma, 4-6-1980.
(5) Le liste del PCI al Comune venivano riempite di “indipendenti di sinistra”: tra essi, oltre a esponenti di vari gruppi di estrema sinistra, l’unico rappresentante di DP in consiglio comunale, Vittorio Vasquez, che era eletto nelle file del PCI, mentre DP scompariva dal consiglio comunale stesso.
(6) L’11 novembre 1980 i commercianti attuavano una clamorosa serrata di protesta, manifestando un chiaro spirito polemico nei confronti della giunta di sinistra e impedendo addirittura al sindaco comunista di prendere la parola al comizio.
(7) Il 22 ottobre veniva arrestato il neo-assessore social-democratico (il Partito Socialista Democratico Italiano è nella coalizione di sinistra) ai cimiteri, de Rosa, per il reato di concussione. L’11 novembre venivano raggiunti da comunicazioni giudiziarie tutti gli assessori ai cimiteri dal 1973 al 1980: a distanza di qualche settimana erano arrestati, nell’ambito della stessa indagine – definita dalla stampa e dalla opinione pubblica l’inchiesta sul “racket dei cimiteri” – un ex assessore socialdemocratico (in giunta con il PCI nel 1975) e un ex assessore repubblicano (in giunta fino al giugno 1980), di fatto incluso nella coalizione di sinistra.
(8) La coalizione guidata dal PCI, inoltre, si vedeva privata di due voti, risultando ulteriormente indebolita e disponendo così in consiglio comunale di soli 38 voti su 80.
(9) Dal resoconto ufficiale della conferenza stampa del sindaco di Napoli e della giunta, del 10-12-1980, fornito dall’ufficio stampa del comune: “L’assessore d’Antonio [il comunista Mariano d’Antonio, assessore alla programmazione] osserva che questa calamità naturale può essere, però, anche un’occasione di programmazione più generale, naturalmente sempre con riferimento non all’emergenza“.
(10) Per settimane, subito dopo il terremoto, si è svolta ogni mattina, al comune, una conferenza stampa con la partecipazione del sindaco e della giunta. Nelle numerosissime interviste concesse appare evidente, da parte comunista, la enfatizzazione della “emergenza” prodotta dal terremoto. Cfr., per esempio, l’intervista del sindaco Valenzi a la Repubblica, del 16-12-1981: “[…] oggi l’emergenza è talmente grande che bisogna lasciare perdere gli elementi di divisione e guardare quello che si può fare insieme. Sì, Napoli è all’ultima spiaggia“.
(11) La giunta guidata dal PCI offre una impressione di inerzia. In città, nei quartieri del centro storico, dove maggiore è il numero degli edifici sgomberati, non si svolgono neanche quei lavori di riattamento di lieve entità, che consentirebbero il ritorno a casa di migliaia di persone, ora precariamente alloggiate. Il loro ritorno porterebbe, però, alla ricreazione di quelle aggregazioni, di quegli equilibri sociali ed economici – l’economia sommersa, definita “del vicolo” -, di quella cultura, definita “del sottosviluppo”, che si alimenta di un complesso di valori difficilmente permeabili, come provato in questi anni, dalla ideologia comunista.
(12) Sul comportamento dei liberali napoletani nel 1799, sulle loro caratteristiche di minoranza settaria, avulsa dalle aspirazioni della città, cfr. LUIGI DE LUTIO DI CASTELGUIDONE, I sedili di Napoli, Morano, Napoli 1973, cap. VIII, pp. 205-265. Sulla rivoluzione del 1799 de Lutio scrive: “quello che accadde all’ombra della rivoluzionaria bandiera francese a Napoli fu un avvenimento politico scaturito dal pensiero formatosi, nella Capitale stessa e nelle province del Regno, nel seno di alcune nobili famiglie, e presso alcuni studiosi della borghesia“.
In tema di progetti di “decongestionamento” della città attraverso le deportazione dei napoletani, cfr. le dichiarazioni del repubblicano on. Francesco Compagna, ministro della Marina Mercantile, a Il Diario, del 6-1-1981 (Napoli non basta a sé stessa. La nuova? A Villa Literno) [località del casertano dove l’on. Compagna propone di edificare una “città satellite”], a il Giornale nuovo, del 7-1-1981 (Napoli scoppia, ha trecentomila abitanti di troppo), e a L’Espresso, del 15-2-1981 (Morta una Napoli se ne fa un’altra). In quest’ultima intervista, l’on. Compagna afferma: “Chiamiamola pure “deportazione”. In realtà si tratta di una decongestione naturale [corsivo nostro] che deve ricondurre la densità abitativa di Napoli ai valori di Genova, città orograficamente simile a Napoli ma che sfiora il milione di abitanti“.
(13) Tra essi l’intero quartiere di Montecalvario, con circa 35 mila abitanti.
(14) Cfr. le percentuali delle recenti elezioni dei consigli circoscrizionali (giugno 1980) della circoscrizione – compresa in gran parte nel centro storico, in base al piano regolatore del 1972 – di Avvocata – Montecalvario – S. Giuseppe – Porto: PCI, 28,9% (media cittadina 31,7%); MSI-DN, 23,8% (media cittadina 22,3%); DC, 28,6% (media cittadina 25,4%); o di quella di Pendino – Mercato: PCI, 30,6%; MSI 29,7%; DC 24,6%; e di Chiaia – S. Ferdinando – Posillipo: PCI 23,8%; MSI 23%; DC, 28,4%. Di fronte a queste percentuali sono indicative quelle delle periferie industriali di Bagnoli, dove sorge il complesso siderurgico della Italsider: PCI, 45,4%; MSI, 11,6%.; DC, 23,4%; o della zona orientale (zona industriale, quartieri al margini della città): Barra: PCI, 48,7%. MSI, 9,5%; DC, 22,3%; Ponticelli: PCI, 48,2%; MSI, 8,5%; DC, 22,7%. E ancora, della periferia più disgregata dal punto di vista sociologico: Soccavo: PCI, 39,9%; MSI, 14,4%; DC, 23,8%; S. Pietro a Patierno: PCI, 30%; MSI 14,3%; DC, 34,6%; Secondigliano: PCI, 35,3%; MSI, 15,4%; DC, 34,6%. In questi quartieri si vogliono installare i prefabbricati “pesanti”, destinati a essere i nuclei di nuovi insediamenti abitativi.
(15) A prescindere da una valutazione dei danni reali, comunque considerevoli, apportati dal terremoto, qui si vuole sottolineare la volontà dl utilizzare, per una “programmazione più generale“, il disagio creatosi. È un fatto sotto gli occhi di tutti, d’altronde, che lavori anche di minima entità non vengano svolti mentre molti sfollati ripetono che con l’esecuzione di semplici puntellamenti sarebbe loro possibile il ritorno a casa.
Soltanto tre giorni dopo il terremoto il sindaco comunista affermava: “Napoli diventa sempre più una questione nazionale” (l’Unità, 26-11-1981). Ancora Valenzi, sottolineando la necessità di fare del “caso Napoli” un caso di portata nazionale, affermava: “[…] se anche si riuscisse a trovare soluzioni umanitarie [la costituzione di una giunta di “compromesso storico” al comune] ci sarebbe ancora un altro problema da risolvere; riuscire a fare di Napoli una grande questione nazionale” (l’Unità, 4-2-1981).
(16) Alla vigilia della prima seduta del consiglio comunale dopo il terremoto, il sindaco lanciava un “appello all’unità” ampiamente ripreso dai mezzi d’informazione, richiamandosi direttamente all’esperienza di collaborazione del dopoguerra: “Io invoco la DC ad accettare le nostre richieste di collaborazione. E ribadisco all’estrema destra la richiesta di una neutralità che non è scandalosa di fronte al disastro calato su Napoli“. Questa tragedia impone solidarietà, in Paese Sera, 21-12-1980.
(17) Da parte comunista si lascia capire che la costituzione di una giunta “unitaria” – cioè di “compromesso storico”, verso la quale non ci sono riserve di principio da parte della DC, non esistendo più, come ha affermato il segretario provinciale di questo partito, “alcuna pregiudiziale anticomunista“, (l’Unità, 5-2-1981), – non è sufficiente, perché rischia, oltretutto, di lasciare sempre troppo spazio alla opposizione sociale, destinata a prodursi con forza ancora maggiore in seguito alla realizzazione dei progetti di sconvolgimento della realtà socio-politica della città. Le ultime vicende politiche lasciano ipotizzare la scelta di una alternativa alla giunta DC-PCI. Nel clima di una “grande alleanza” sempre esistente, il PCI preferirebbe abbandonare temporaneamente il consiglio comunale, “accettando” lo scioglimento del consiglio stesso in occasione del voto sul bilancio di previsione, e la nomina di un commissario governativo “non ostile”, che fungerebbe, oltretutto, da paravento al momento delle decisioni più impopolari.
(18) Sulla deportazione di interi popoli praticata in URSS cfr. ALEKSANDR NEKRIC, Popoli deportati, trad. it., La casa di Matriona, Milano 1979. Sulla deportazione della popolazione urbana a fini rivoluzionari, cfr. quanto praticato dai comunisti cambogiani in PIERO GHEDDO, Cambogia, rivoluzione senza amore, SEI, Torino 1976, pp. 45 ss.
(19) Cfr. il testo della delibera della giunta comunale dell’1-2-1981. Le aree scelte per gli insediamenti sono collocate in una periferia disgregata e disgregante, a forte presenza comunista. L’insediamento di 2 mila vani è previsto a Ponticelli, di 1500 a Secondigliano, e ancora a Barra, a S. Pietro a Patierno, a Soccavo, ecc.
(20) Cfr. l’Unità, 4-2-1981: “urbanisti, economisti, ecologisti, il fior fiore dell’intellettualità napoletana hanno fatto blocco intorno alla filosofia della delibera: riqualificare la città“.
(21) Cfr. ANDREA GEREMICCA, deputato e capogruppo del PCI al consiglio comunale di Napoli, Guardiamo anche al futuro, in Il Mattino, 19-1-1981.
(22) Ibidem.
(23) “[…] non si tratta di predicare la disseminazione di qualche casa in più per napoletani fuori dalla cinta urbana […], il disegno è più complesso ed ambizioso: si tratta certamente di spostare le nuove residenze – a partire da una aliquota maggioritaria delle case parcheggio previste per i terremotati – fuori dal Comune di Napoli, ma anche di decentrare funzioni urbane e di dislocare nuove fonti di lavoro verso l’interno della regione” (MARIANO D’ANTONIO, Napoli non è questione a sé, in Rinascita, n. 3, 23-1-1981).
(24) l’Unità, 4-1-1981.
(25) “Se vince il vecchio, stavolta saremo costretti ad andarcene. Non c’è scelta, deve vincere il nuovo“, ha affermato d’Antonio (Panorama, 9-2-1981). Lo stesso d’Antonio, secondo il settimanale citato, si è opposto duramente alla localizzazione dei prefabbricati all’interno della cinta urbana, minacciando le proprie dimissioni.
(26) M. D’ANTONIO, Napoli non è questione a sé, in Rinascita, cit.
(27) Il settimanale Napoli oggi ha documentato, senza ricevere smentite, l’esistenza di un “provvedimento generale di sgombero” della intera zona dei quartieri spagnoli, già predisposto dal sindaco comunista con una comunicazione del 5-1-1981, prot. 2.492, destinata, oltre che al commissario straordinario di governo, ai vigili del fuoco e al direttore dell’ufficio tecnico comunale (Napoli oggi, 21-1-1981).
(28) A. BASSOLINO, Mezzogiorno alla prova, De Donato, Bari 1980, p. 24.
“A Napoli non si può solo ridisegnare e risanare l’ambiente architettonico; servono nuovi progetti anche per la produzione e la distribuzione della ricchezza: bisogna “ridisegnare” anche il mercato e le figure dei suoi protagonisti. L’economia artigiana e la produzione decentrata che si nascondono nelle viscere partenopee hanno gambe troppo deboli per sopravvivere, sia al trauma del terremoto, che a quello della rilocalizzazione.
“Questa “economia sommersa” frettolosamente giudicata vitale, non regge, per qualità e costi, il confronto con l’economia nazionale. Ed infatti, la cultura che ne scaturisce come quella che la sostiene, sono solo capaci di rivolgersi alla malinconica contemplazione del passato, riducendo la città ad una sorta di laboratorio sociologico: ambiente sterilizzato in cui tenere in vita “mostri” altrimenti irreperibili“, ha scritto, sintetizzando significativamente l’”anomalia” della Napoli attuale nella prospettiva dei comunisti, MASSIMO LO CICERO, economista comunista, ex direttore del quindicinale La Voce della Campania, in Il Mattino, 6-2-1981.