Maurizio Dente, Cristianità n. 127-128
Intervista con Federico Müggenburg
Nicaragua e Messico nella Rivoluzione centroamericana
D. Cominciamo dal provvedimento più recente, la reintroduzione dello stato d’emergenza. Secondo le giustificazioni addotte da Daniel Ortega e dagli altri dirigenti del Fronte Sandinista tale provvedimento sarebbe stato reso necessario dalla guerriglia condotta dagli oppositori anticomunisti e dalla ostilità nordamericana. Non si tratterebbe, perciò, di una evoluzione logica del regime, ma di un evento accidentale.
R. Credo che sia vero esattamente il contrario. I «sandinisti» hanno dovuto dichiarare lo stato d’emergenza non per fronteggiare gli attacchi esterni dei patrioti anticomunisti, ma perchè sono incapaci di contenere la protesta interna; vi sono elementi precisi che lo confermano: la persecuzione costante dell’imprenditoria privata e, più di recente, la chiusura della radio cattolica, che aveva trasmesso una omelia integrale, senza censura, del cardinale Obando Bravo.
D. La Chiesa del Nicaragua viene presentata abitualmente dalla stampa progressista europea come una Chiesa spaccata in due: da una parte la Chiesa «conservatrice» della gerarchia, dall’altra la cosiddetta Iglesia popular. Ma esiste davvero questa spaccatura, e quali dimensioni ha?
R. È strano che all’estero i «sandinisti» e i membri della cosiddetta «Chiesa popolare» insistano nel presentare due diverse Chiese: quella che chiamano «istituzionale» o «tradizionale» e quella «popolare», che considerano l’autentica. Posso riferire la mia personale esperienza. Sono stato a Managua nel marzo del 1985 per tenere conferenze nelle parrocchie, ai fedeli, e al clero, su invito del cardinale Obando Bravo. I sacerdoti diocesani sono cento, e meno del 10% di loro, cioè 8-10, appartengono alla Iglesia popular. Questo risulta dai documenti, dalle petizioni che hanno firmato nei mesi precedenti dichiarando ufficialmente la propria appartenenza a questa Iglesia popular. Ma in mia presenza hanno affermato che la Iglesia popular non esiste, che è una semplice «invenzione di Roma». «Siamo soltanto – mi hanno detto – sacerdoti che hanno fatto una opzione per i poveri». Ma vi è altro che ho potuto constatare di persona, e non solo a Managua, ma anche a Masaya e a Granada: il popolo, fondandosi sul proprio sensus fidei, distingue perfettamente tra i sacerdoti leali, fedeli a Roma, gli autentici sacerdoti della Chiesa cattolica, e questi agenti del governo che vogliono apparire come i rappresentanti di una presunta «Chiesa popolare». I fedeli non partecipano alle loro messe perché non credono a quanto affermano e a quello che fanno e li considerano semplicemente spie del CDS, il Comitato di Difesa Sandinista. Alle loro funzioni e attività partecipano soltanto i commando della milizia sandinista e gli informatori. Questo serve a far credere alla stampa nordamericana e agli altri media internazionali che essi hanno una base di appoggio in un gregge di fedeli che invece è inesistente, che è fatto di agenti «sandinisti» …
D. Veniamo all’opposizione parlamentare, a quella dei partiti, che sono quasi tutti fuori legge. Si tratta di forze politiche senza solide radici nel paese reale. Bisogna pensare che la difesa dei diritti naturali dei nicaraguensi sia ormai affidata soltanto alla Chiesa?
R. Sulla base della mia esperienza e delle informazioni in mio possesso mi pare di poter dire che si sta verificando in Nicaragua un processo simile a quello polacco: i fedeli vivono intensamente intorno alle loro parrocchie, perché esse sono gli unici luoghi in cui possono parlare delle loro sofferenze, della loro vita, e possono cercare di difendere tutto il possibile nell’ambito dell’educazione cattolica e della diffusione dei princìpi della fede. Ma bisogna anche segnalare che negli ultimi mesi hanno dimostrato di sopravvivere ancora piccoli raggruppamenti di corpi intermedi, come organizzazioni di imprenditori o associazioni di padri di famiglia, che continuano a difendere i propri diritti naturali. I «sandinisti» ritengono evidentemente pericolose le loro idee. Ho già detto della chiusura della radio cattolica; il presidente degli imprenditori è stato fatto bersaglio di una campagna di stampa a base di calunnie e poi ha subìto l’espropriazione delle sue aziende e proprietà agricole, nonostante l’opposizione dei dipendenti. Quanto al presidente dell’associazione dei padri di famiglia, è stato arrestato per aver difeso pubblicamente il diritto-dovere dei genitori a una educazione dei propri figli coerente con i propri princìpi. I colpi che vengono sferrati contro queste sacche di resistenza dimostrano comunque che è la Chiesa nella sua articolazione, nella sua gerarchia, nelle sue organizzazioni apostoliche il bastione principale della resistenza al processo totalitario.
D. Come si può classificare l’atteggiamento degli Stati centroamericani verso il Nicaragua, dopo la decisione dell’Ecuador di rompere i rapporti diplomatici?
R. L’esempio dato dal governo ecuadoriano è importante. Può servire da stimolo agli Stati vicini al Nicaragua per un atteggiamento più energico. Credo, comunque, che difficilmente, per il momento, si possa giungere a una rottura diplomatica generalizzata, perché pesa ancora molto la forte interdipendenza, stabilita negli ultimi 10-15 anni, tra i paesi centroamericani, con una tendenza all’unificazione dell’America Centrale che si è manifestata in diversi modi, come, per esempio, con la nascita di una conferenza episcopale centroamericana, di una confederazione centroamericana di imprenditori, di un mercato comune. E tutto questo comporta legami che non si vogliono rompere ora. La rottura diplomatica provocherebbe, al minimo incidente alle frontiere con il Nicaragua, una guerra.
D. Che giudizio dà sull’azione svolta dai paesi del «gruppo di Contadora»?
R. All’origine del gruppo, costituito dai governi del Messico, del Venezuela, di Panama e della Colombia, vi è l’intenzione di mantenere la pace o di impedire la guerra. L’idea fu dei governi messicano e venezuelano in un momento in cui in Venezuela erano al governo i socialdemocratici; un governo molto simile, a parte alcune peculiarità locali, a quello messicano. Lo scopo principale e ufficiale era quello di impedire la guerra, almeno nel senso di scontro armato. Tuttavia vi è un’altra faccia della realtà, per quanto sia spiacevole rivelarla, ed è che la mediazione del «gruppo di Contadora», è servita soltanto a dare ai «sandinisti» il tempo di radicarsi al potere. E questa è una verità che non si può tacere.
D. Il Nicaragua gode ancora dell’appoggio di importanti paesi latinoamericani, anzitutto del Messico. Come si può spiegare la posizione di questo Stato?
R. Contadora è stato un progetto dell’attuale capo del governo messicano, Miguel de la Madrid, che pare inserirsi in una strategia più ampia per mantenere la pace in America Centrale a ogni costo, pagando qualsiasi prezzo … Jean François Revel ha scritto di recente un articolo sulla rivista francese Est-Ouest in cui definisce il Messico «una falsa democrazia»; e spiega come nel sistema messicano la simulazione è una regola costante: un presidente del passato, Luis Echevarria Alvarez, appariva, agli occhi di tutto il mondo, come uno dei principali oppositori degli Stati Uniti, fautore di una politica di sinistra, filocomunista e filosovietica, ma era questo stesso presidente a realizzare i migliori affari con i nordamericani. Jean Francois Revel parla di una «retorica» della politica messicana che ha come prospettiva soggiacente quella di sacrificarsi, di immolarsi sull’altare di Fidel Castro per cercare di impedire che Fidel Castro attivi la guerriglia in Messico. Ma bisognerebbe chiedersi quali benefici reali produca questo atteggiamento. Fidel Castro può attivare la guerriglia in Messico in qualunque momento lo voglia, ma ha bisogno di un terreno pacifico, appunto il Messico, su cui possano operare gli agenti del KGB, che preparano l’aggressione agli Stati Uniti d’America. Al fondo, sostiene lo stesso Revel, sembra esistere una complicità di ampia portata tra la strategia espansionista sovietica nel continente americano contro gli Stati Uniti e l’apparente neutralità di un territorio messicano che serve all’Unione Sovietica come base di operazione per i suoi agenti.
D. Dunque, non vi sarebbero, a breve, prospettive di esportazione della guerriglia comunista in Messico. Questo paese è per il momento base di operazioni «pacifiche» …
R. È una zona che deve restare «tranquilla» perché si possa realizzare da lì l’opera dei servizi segreti.
D. Veniamo alle posizioni degli Stati Uniti, o almeno di una parte del gruppo dirigente di questo paese, verso il regime del Nicaragua. Vi sono accuse esplicite di capi della resistenza come Eden Pastora secondo cui gli Stati Uniti vorrebbero utilizzare la resistenza come un semplice strumento di pressione per una ipotetica evoluzione in senso moderato del gruppo dirigente di Managua …
R. Bisogna specificare con precisione che cosa intendiamo per Stati Uniti d’America. Le posizioni del presidente Reagan sono le stesse del suo vice, Bush, che è legato alla Trilateral Commission? Direi di no. Mi pare si possa affermare che la Trilateral riesce a prevalere con i propri orientamenti nella politica estera nordamericana, mentre i gruppi che hanno portato Ronald Reagan alla presidenza e lo sostengono adesso prevalgono in politica interna. Una guerra in Nicaragua è fuori dagli schemi degli uomini della Trilaterale. Quando gli Stati Uniti intervennero a Grenada, in molti si aspettavano che i paesi del patto dei Caraibi avrebbero sollecitato l’intervento armato in Nicaragua. Ma non fu così. Probabilmente prevalsero le tesi trilateraliste secondo cui «la tecnologia sarebbe più importante dell’ideologia». Ma vorrei aggiungere, a proposito di Eden Pastora, che non nutro alcuna fiducia in lui; mi pare che giochi il ruolo di una specie di carta di riserva di alcuni settori dell’Internazionale socialista: se i marxisti-leninisti cadessero, i socialdemocratici della fazione di Willy Brandt avrebbero un loro uomo di fiducia da sostenere.
D. Veniamo allo stato di salute della Resistenza anticomunista. Daniel Ortega, nel suo recente viaggio in Europa, si è vantato di aver conseguito nel 1985 un obiettivo fondamentale, cioè la sconfitta della Resistenza. Pensa che l’obiettivo sia stato veramente raggiunto?
R. Certo, la guerriglia non può fronteggiare in campo aperto un esercito potente e armato come quello del governo del Nicaragua. I patrioti anticomunisti non sono attrezzati a combattere un esercito regolare. Ma combattono. D’altra parte, voglio ricordare che la tattica della guerriglia non è una invenzione dei comunisti. Risale alle guerre carliste spagnole, agli chouan francesi, e la sua essenza consiste proprio nel rifiutare lo scontro in campo aperto con le forze preponderanti dell’esercito regolare e nel moltiplicare i fronti e i piccoli assalti. D’altronde, se l’esercito di Managua può utilizzare i suoi carri armati, le sue jeep e i suoi camion, questo accade soltanto grazie alla benzina che il governo messicano gli fornisce gratuitamente oppure a crediti ultra-agevolati. Se queste forniture cessassero, i comunisti si ritroverebbero un esercito immobilizzato e sarebbe per loro molto più difficile fronteggiare i patrioti. Vorrei riferire, a questo proposito, una indiscrezione: il presidente del Messico ha ammesso recentemente, in conversazioni private, che il Nicaragua è diventato «uno scorpione», che non si sa più da che parte prendere. È una ammissione significativa, ma bisognerebbe chiedergli chi ha consentito la nascita di un autentico nido di scorpioni. Questa ammissione, comunque, è un sintomo della difficoltà, anche per il governo messicano, di continuare ad appoggiare un regime che, di recente, perfino Felipe Gonzalez e François Mitterrand hanno dovuto criticare ufficialmente.
a cura di
Maurizio Dente