Intervista con S.E. Rev.ma mons. Pablo Antonio Vega
Nicaragua: per «una vera solidarietà internazionale»
Il 4 luglio 1986 S.E. Rev.ma mons. Pablo Antonio Vega, vescovo-prelato di Juigalpa e vicepresidente della Conferenza Episcopale del Nicaragua, è stato esiliato dal suo paese. Contro il gesto del governo di Managua hanno protestato il Pontefice e le conferenze episcopali di numerosi paesi del mondo, compresa quella italiana. Siamo riusciti a raggiungere telefonicamente il vescovo esule a Tegucigalpa, in Honduras, e a farci rilasciare la prima intervista dopo i fatti del 4 luglio.
D. Eccellenza, che cosa è successo esattamente il 4 luglio?
R. La sera prima, il 3 luglio, mi è giunto l’ordine di presentarmi alle otto e mezza dal responsabile politico della Quinta Regione, di cui fa parte Juigalpa. Gli ho telefonato e gli ho spiegato che ero bloccato da una indisposizione; in effetti avevo un forte mal di stomaco. È stato molto insistente e alla fine ho acconsentito a incontrarlo il mattino seguente. Il 4 luglio, alle 8, il responsabile politico ha mandato l’autista a prendermi con la sua macchina; appena sono salito in automobile ho trovato dei poliziotti che mi hanno dichiarato in arresto. Sono stato portato alle carceri di Juigalpa e trattenuto nel cortile del penitenziario. Lì erano pronti due elicotteri; mi hanno fatto salire su uno senza dirmi dove mi portavano. Dopo un’ora e mezza di volo mi hanno fatto scendere in una località chiamata La Fraternidad, nei pressi della frontiera con l’Honduras. Lì mi hanno comunicato che dovevo lasciare il paese e non avrei più potuto farvi ritorno; che non ero più nicaraguense e avrei dovuto trovarmi una nuova patria. Poi mi hanno messo su un camion che mi ha portato alla frontiera. Le guardie di confine dell’Honduras, appena hanno saputo chi ero, sono state molto cortesi e mi hanno rilasciato senza difficoltà un permesso di residenza nel paese a tempo indeterminato. L’arcivescovo di Tegucigalpa è venuto a prendermi alla frontiera e mi ha condotto in città, dove sono ospite suo e del nunzio apostolico.
D. Si aspettava un provvedimento di questo genere?
R. Tutti ci aspettavamo qualcosa dopo l’esilio di monsignor Bismarck Carballo. La mia posizione era per qualche verso simile alla sua: monsignor Carballo aveva parlato in Italia e in Francia esponendo le posizioni della Chiesa; io nel mese di giugno ho parlato a Washington, di fronte a parecchi esponenti politici di rilievo. Da quando sono tornato sono cominciate le voci secondo cui ero ormai «condannato» e potevo «sparire» in qualunque momento.
D. Può riassumerci il contenuto della sua conferenza a Washington, che il governo di Managua ha definito diffamatoria?
R. A Washington ho detto soprattutto che gli equivoci sul Nicaragua sono spesso equivoci di linguaggio. Così quando si parla di «diritti umani» l’espressione non ha lo stesso significato in Occidente e per il governo del Nicaragua. Nella tradizione occidentale e cristiana i diritti umani sono diritti inalienabili della persona, fondati sul diritto naturale. Per il governo del Nicaragua i diritti umani sono diritti concessi ai cittadini dallo Stato e che in caso di necessità lo Stato può revocare. Il cittadino è oggetto di una concessione dello Stato e non è soggetto di diritti. Un’altra espressione – dicevo – che non ha lo stesso significato in Nicaragua e all’estero è «cooperativa». Esistono cooperative anche negli Stati Uniti e nell’Europa Occidentale: i loro soci ne sono i proprietari, congiuntamente, e sono anche proprietari di quanto viene prodotto. In Nicaragua il vero proprietario della cooperativa e dei suoi prodotti è lo Stato. La disinformazione sul Nicaragua deriva dal fatto che realtà tipiche dello Stato marxista vengono presentate con termini ed etichette «democratiche». Ho concluso che il governo del Nicaragua non può essere definito democratico, se democratico è un governo che riconosce l’esistenza di diritti civili e politici nei singoli prima che nello Stato. Anzi, un governo che non riconosce diritti propri alle persone non è neppure un governo legittimo.
D. Secondo il governo del Nicaragua Lei ha incitato all’insurrezione armata. Che cosa ha detto esattamente a Washington su questo punto?
R. Ho detto nel modo più chiaro che la Chiesa vuole per il Nicaragua una soluzione civile e non una soluzione militare. Ho anche detto che sembra che sia il governo a rifiutare le soluzioni civili e il dialogo con tutte le forze di opposizione, lasciando le soluzioni militari come unica possibilità. Ho aggiunto che la violenza non potrà cessare finché non cesseranno le violazioni dei diritti umani e della identità cristiana del nostro popolo.
D. Come vede la situazione in Nicaragua dopo i provvedimenti contro di Lei e contro monsignor Carballo?
R. Quello che è in atto è precisamente un tentativo di far tacere la Chiesa con tutti i mezzi possibili. La Chiesa è la sola voce che denuncia il sistema che si è impadronito del Nicaragua: un sistema totalitario, ideologico, materialista. E la Chiesa è una voce veramente «popolare» perché rappresenta le aspirazioni e le idee del popolo nicaraguense, alla cui storia il marxismo è totalmente estraneo. Non è «popolare» invece la cosiddetta Iglesia Popular – che ora si fa chiamare «Chiesa dei poveri» e che ha appoggiato anche gli ultimi provvedimenti del governo contro la Chiesa -, che è soltanto uno strumento del marxismo. Sono preoccupato perché gli ultimi atteggiamenti di questa «Chiesa dei poveri» sembrano voler sostituire la religione con una specie di culto dello Stato e del marxismo; ormai non credono più in Cristo-Dio ma in un Cristo incarnazione del guerrigliero, di ordine puramente temporale.
D. Come influisce sulla situazione del Nicaragua l’atteggiamento dei gruppi «internazionalisti» che operano a favore del governo del Nicaragua all’estero e che hanno inviato molti dei loro membri nel suo paese?
R. L’internazionalismo, come impegno dei giovani in Europa e negli Stati Uniti a favore dei meno sviluppati, non è di suo un fenomeno negativo. Diventa negativo quando è messo al servizio di una ideologia. Allora «internazionalismo» non significa più aiutare i popoli in via di sviluppo rispettando la loro identità e la loro storia, ma cercare di sottomettere tutti i popoli a uno stesso modello ideologico, calare tutti i popoli in un unico blocco. Non è un caso che il movimento internazionalista abbia deciso di chiamarsi in alcuni paesi, come El Salvador e l’Honduras, «blocco», bloque. D’altro canto il nome di «blocco» serve a nascondere le connotazioni negative che ha ormai per i nostri popoli la parola «internazionalista», che è diventata sinonimo di «marxista» o «comunista».
All’estero spesso questi gruppi «internazionalisti» si trasformano in semplici ripetitori dei comunicati del governo di Managua. Quello di cui abbiamo bisogno è una vera solidarietà internazionale con la Chiesa del nostro paese e con i vescovi; una solidarietà in cui, per ora, si sono spesso distinte soprattutto organizzazioni private come l’opera Aiuto alla Chiesa che soffre e, in Italia, Alleanza Cattolica. Ritengo che appelli e telegrammi alle ambasciate e ai consolati del Nicaragua siano forme di protesta utili; in passato il governo si è mostrato abbastanza sensibile a questo tipo di gesti.
a cura di Massimo Introvigne e Salvatore Napoli