NIENTE «ORO ALLA PATRIA»!
I commentatori politici nazionali e internazionali, invariabilmente e da mesi, vanno esprimendo viva preoccupazione per la sorte futura del nostro paese, e per le conseguenze che il suo destino comporta per il mondo intero, nel visibile e nell’invisibile.
Fonte di preoccupazione è la possibilità, che viene definita come “non remota”, dell’avvento del comunismo in Italia, con le rilevanti variazioni del panorama europeo e mondiale che a tale avvento si possono collegare.
Neppure osservando la situazione con lo sguardo deformato dal più inconsulto e irriducibile ottimismo, è lecito negare la oggettività e la fondatezza di tale preoccupazione, sì che ci pare assennato, più che fingere di ignorarla, studiare piuttosto o almeno illuminare in qualche modo la ineluttabilità dell’esito paventato.
Rebus sic stantibus, cioè “stando così le cose”, cioè ancora “se non cambiano le premesse”, l’avvento del comunismo è infatti la inevitabile conseguenza a lungo termine delle condizioni in cui la nostra nazione è stata portata da un processo almeno pluridecennale. È una tesi la cui dimostrazione non si può certo affidare a un articolo di rivista, ma che è già stata oggetto di studio e di prova, per l’intera Cristianità, da parte dei pensatori cattolici controrivoluzionari del secolo scorso e del nostro.
Si tratta però di una tesi che, se per il passato richiede soltanto di essere confrontata con i fatti, per il presente e ancor più per il futuro è sub condicione, dipende cioè in misura assolutamente rilevante da quel “se non cambiano le premesse” prima ricordato. E, ancora, è una tesi che indica la ineluttabilità di un esito, senza evidentemente determinarne i tempi.
Perciò, il compito spettante a chi segue la vita politica nazionale con fondata trepidazione ma anche con fredda volontà di capire, consiste, a breve termine, nell’individuare con la massima precisione la natura della attuale congiuntura e dunque dell’attuale governo, per quindi ricavarne una serie di atteggiamenti e di decisioni atte, forse, a dare inizio all’indispensabile “cambio delle premesse”.
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La domanda a cui si deve dare risposta significativa e articolata riguarda, molto sinteticamente, il governo Andreotti, e se sia l’ultimo governo non comunista o il primo governo comunista della nostra storia in fieri.
Infatti, l’aura da cui è circondata la compagine governativa in funzione ne fa una realtà meritoria, il massimo che ci si possa aspettare considerati i tempi e i luoghi, l’espressione della responsabilità nazionale che, nella sua pregnanza e con la sua austera presenza, riesce a imporre anche agli avversari, quasi magicamente, sentimenti o almeno atteggiamenti di rispetto: la sua forza d’attrazione impedisce a sinistra la formazione del paventato fronte popolare, e a destra produce la spaccatura verticale dell’unica realtà ufficialmente anticomunista presente sulla scena politica, sostanzialmente dividendola sul problema della opportunità di correre in sua difesa paludati di una tricolore astensione.
Un silenzio teso segue le mosse governative, come un pubblico di bimbi quelle di un acrobata che su una corda tenta di attraversare una piazza di paese, con piroette che rendono ancora più pericoloso il già difficile gioco. Tutti guardano e tacciono o si sussurrano l’un l’altro che le sorti della nazione sono intimamente legate al successo di quella perigliosa traversata.
E le cose stanno veramente così, anche se in termini diametralmente opposti a quelli voluti e sperati dalla maggioranza degli italiani.
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Per comprendere la verità di quanto affermiamo, è necessario, come più sopra dicevamo, mettere a fuoco la nostra congiuntura politica e la natura dell’attuale compagine governativa.
Cominciamo dalla congiuntura. Viviamo in un tempo in cui il comunismo con la violenza, con la corruzione, con la collaborazione colpevole di élites politiche e religiose, che pure dovrebbero ostacolarlo, sta per arrivare alla conquista del potere in tutto il mondo.
Gli strumenti che ha messo e mette in opera per perseguire il suo scopo sono svariatissimi e adattati alle situazioni in cui si trova a operare.
Nello sfruttamento oculato della gamma completa delle possibilità operative, nel 1973, dopo il fallimento della esperienza cilena del governo di Salvador Allende, cioè dopo la “lezione cilena”, la branca italiana del comunismo internazionale ha lanciato la mossa denominata “compromesso storico”.
Da allora a oggi, dall’ottobre del 1973 al dicembre del 1976, gli avvenimenti politici di rilievo, sulla scena della nostra vita nazionale, non sono assolutamente mancati. Basti ricordare, per tutti, il referendum del 1974 e le due ultime tornate elettorali, rispettivamente amministrativa e politica, del 1975 e del 1976.
Da allora a oggi, giova ripeterlo, i fatti non sono certo mancati, ma il fatto a nostro avviso di maggiore rilievo, meritevole di essere particolarmente sottolineato, consiste nella persistenza e nella coerenza della azione politica comunista. Infatti la strategia del “compromesso storico” non solo non è assolutamente venuta meno, non solo non si è minimamente esaurita, ma ha assunto dimensioni continentali, europee, che interessano non soltanto Berlinguer, ma anche Marchais e Carrillo. Il neocomunismo da tempo in gestazione – la cui anima è il gramscismo – si è qualificato come eurocomunismo ed è giustamente al centro dell’attenzione generale.
Le sue linee maestre consistono nell’evitare lo scontro frontale sul piano politico e nel costruire un fronte unitario fra classi medie e classe operaia sul piano sociale. Questi due scopi vengono perseguiti attraverso la gestione di un potere reale sempre maggiore – ma da non ostentare, da nascondere quasi – e il coinvolgimento del maggior numero possibile di forze politiche nella titolarità del governo e nella responsabilità formale delle trasformazioni sociali. L’espressione sintetica di questa manovra potrebbe essere, parafrasando il leniniano “Tutto il potere ai soviet”, così descritto: “Tutti i partiti al governo, tutto il potere ai comunisti”.
Non diversamente da momenti di questa azione di avvicinamento al governo – la strada, dopo la “lezione cilena”, è dal potere al governo e non viceversa – possono essere interpretati, nel tempo breve, lo scarsissimo sfruttamento propagandistico delle vittorie elettorali, teso a non drammatizzare l’atmosfera nazionale; le operazioni, faticose e talora involute, di rimando delle consultazioni referendarie, cui vengono preferite le consultazioni elettorali comuni, meno frontali, perché lo scontro si disperde su molti fronti secondari; il mantenimento della unità sindacale e le “responsabili” posizioni della CGIL; la proposta del cosiddetto “governo di emergenza”, che dall’”arco costituzionale” porta alla ricostituzione del CLN, ma soprattutto quella stranissima figura politica che è l’”astensione determinante”, che regge realmente il governo con la “non sfiducia”.
Si tratta con ogni evidenza di lenti, anzi lentissimi passaggi dal potere al governo, che viene caricato di tutta la impopolarità della congiuntura politica e soprattutto economica, e in modo particolare delle provvidenze congiunturali, che altro non sono che trasformazioni sociali strutturali, di grande importanza e profondità, che vengono però fatte passare come contingenze e necessità del momento.
Nel tempo lungo, varrebbe forse la pena di fare la storia del “compromesso storico” non dalla fine del 1973, come frutto della “lezione cilena”, ma, come abbiamo già accennato, dalla togliattiana “svolta di Salerno” – alternativa a quella che fu dopo qualche anno la disastrosa esperienza greca – e ancor più, forse, dalla prospettiva gramsciana del “nuovo blocco storico” e dal carattere privilegiato della politica culturale nei paesi di più antica civiltà, per la dilatazione del consenso e quindi per la formazione di una maggioranza schiacciante – ben superiore al 50,1% di un ipotetico fronte popolare – e per la instaurazione di una condizione di egemonia, che non trasformi l’andata al governo in una avventura.
Basti comunque quanto abbiamo detto per capire che:
1. L’attuale governo non è un “povero” governo nazionale da liberare dalla ipoteca comunista, ma è il governo comunista secondo la contingente “lezione cilena” e la storica prospettiva gramsciana. L’attuale governo si deve perciò chiamare Andreotti-Berlinguer e non prelude forse – se non nell’avventura – a un governo Ingrao, da tutti paventato, ma piuttosto a un non troppo ipotetico gabinetto De Carolis-Amendola, che potrebbero trovare un punto di incontro nella comune matrice “laica”!
2. L’attuale governo non va aiutato ma osteggiato. Così facendo non si indebolisce una ipotetica ultima frontiera, versione aggiornata della famosa diga di quarantottesca memoria, ma si impedisce soltanto la posa ordinata, indisturbata e rituale della prima pietra, se non della pietra d’angolo, dell’Italia rossa.
3. Se è vero, come è vero, che la partnership democristiana è indispensabile all’avvento comunista e alla stabilizzazione del comunismo stesso dopo l’avvento, osteggiare l’attuale governo non significa anticipare l’entrata nel governo dei comunisti, ma piuttosto posticiparla. Gli inviti alla prudenza e alla calma che l’onorevole Moro va da qualche tempo rivolgendo ai comunisti sono nella prospettiva della sopravvivenza del governo Andreotti che prepara la “emergenza” e quindi il “compromesso”. I comunisti non dimenticano che l’ultimo test elettorale, che pure li ha visti avanzare, ha rilevato la presenza di un elettorato anticomunista almeno per il 60%; quindi una eventuale auspicabile caduta del governo Andreotti, sulla base di una adeguata resistenza sociale alle inique pressioni fiscali, per esempio, prelude semplicemente allo stallo della manovra che abbiamo descritto, se non al ritorno al centro-sinistra. L’ipotesi di un ingresso duro dei comunisti al governo apre, per i comunisti anzitutto, sull’avventura, ma questa scelta compete a loro e non agli anticomunisti. E che in paesi come l’Italia i comunisti non vogliano vivere questa avventura – ferme restando le condizioni attuali della congiuntura internazionale – pare testimoniato dal conto in cui tengono la “lezione cilena” e dal carattere forse pluridecennale della loro strategia nei paesi cattolici di antica e radicata cultura; una strategia che, come abbiamo visto, non si può escludere sia anteriore alla stessa guerra di Spagna, che pure costituisce una discriminante di rilievo nella storia dei rapporti tra i comunisti e i cattolici.
Ergo, le indicazioni operative per ogni anticomunista deciso a tenere nel dovuto conto quanto abbiamo mostrato, sono ricavabili da quanto affermava Adalberto Minucci in illo tempore, cioè su L’Unità del 24 ottobre 1973, dicendo: “Non si può tenere a lungo se i medici si rifiutano di curare gli ammalati, se la distribuzione viene paralizzata ad oltranza, se i trasporti non funzionano“.
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All’inizio di queste nostre considerazioni abbiamo detto che lo sviluppo della situazione era condizionato dalla capacità di capire e la congiuntura e il governo, e quindi dalla capacità di intervenire. Non possiamo che ripetere l’affermazione, sperando almeno di avere portato il nostro contributo a capire la condizione del nostro paese. Ora tocca ai sindacati autonomi, agli ordini professionali, alle associazioni di mestiere, alle confederazioni padronali, agli organi di informazione. Da parte nostra non daremo l’”oro alla patria”.