di Valter Maccantelli
Una delle poche notizie che in questi giorni è risuscita a scavalcare la cronaca della pandemia è stata quella del crollo delle quotazioni del greggio.
Negli ultimi anni il valore geopolitico del greggio è profondamente cambiato. Sinteticamente possiamo descrivere questo mutamento dicendo che nel mondo contemporaneo non si fanno più le guerre per il petrolio ma si fanno le guerre con il petrolio: l’oro nero non è più il bottino ma l’arma.
Il mercato delle materie prime energetiche risponde, come tutti gli altri, alla legge della domanda e dell’offerta e i maggiori cambiamenti si sono verificati sul fronte dell’offerta. Non solo il petrolio non è finito, come qualche catastrofista immaginava, ma si scoprono in continuazione nuovi giacimenti in aree del mondo molto diverse da quelle classiche, dall’Artico alla Siberia. La cosa è icasticamente simboleggiata dal fatto che gli Stati Uniti d’America si sono trasformati negli ultimi anni da principali importatori a esportatori netti di greggio, ben oltre l’autosufficienza inseguita per decenni.
Il mutamento più gravido di conseguenze risiede però nel fatto che il greggio è passato dall’essere un semplice fattore di ricchezza per il ristretto e fortunato circolo degli “sceicchi” all’essere un elemento indispensabile per numerosi bilanci statali: questo rende possibile colpire una nazione erodendo alla base questa colonna portante del suo gettito. Da qui nasce il concetto di guerra per mezzo del petrolio dove la materia prima non viene più “tolta” al nemico ma, al contrario, ne viene immessa di più sul mercato in modo da far scendere il prezzo per tutti e danneggiare gli introiti dell’avversario.
In questo tipo di guerra la parte dell’attaccante è stata sempre interpretata dalle cosiddette “petromonarchie” del Golfo (Persico). Queste nazioni, avendo una struttura statale pressoché inesistente e un’opinione pubblica numericamente esigua, circondata da una massa enorme di lavoratori-servitori di origine straniera a costi esigui e diritti nulli, potevano permettersi di chiudere ed aprire i rubinetti a piacimento. L’unico cosa da decidere era il valore del dividendo della rendita petrolifera che poteva anche essere temporaneamente ridotto.
Parte soccombente erano invece quegli stati con popolazioni numerose, sistemi di welfare articolati e dipendenti dagli incassi delle esportazioni: Iran, Russia, Venezuela, Messico, per citarne solo alcuni. Per anni L’Arabia Saudita ha attaccato il suo competitor iraniano tenendo il prezzo del greggio sotto il livello necessario a rendere sostenibile il budget del regime degli ayatollah, nella speranza di causarne il tracollo prima economico e poi sociale.
Almeno dal 2014 la situazione non è più questa: la mostruosa inefficienza dei sistemi sociali delle petromonarchie ha presentato il conto anche agli “sceicchi”. E’ nata così la necessità di trovare un equilibrio fra offerta e domanda che calmierasse il prezzo del barile su livelli accettabili e, nel frattempo, di riformare i sistemi sociali per renderli maggiormente competitivi. E’ (era) questo il programma dell’astro nascente del Medio oriente, il principe ereditario al trono saudita Muhammad Bin Salman (MBS). Ma, si sa, riformare costa e Riad, per questa ristrutturazione ha bisogno di un prezzo del barile vicino agli 80 dollari e comunque superiore a 60.
Anche gli Stati Uniti hanno bisogno di un prezzo alto del barile non tanto per necessità di bilancio quanto per il fatto che negli anni delle quotazioni del barile sopra i 100 dollari è nata in Nord America una nuova tipologia di petrolieri che estraggono il greggio dagli scisti: il cosiddetto shale oil, mediante la tecnica del fracking, costosa e complessa e bisognosa di grandi investimenti. Questa pratica rappresenta una fonte importante di reddito per stati come Texas e Louisiana, considerati importanti per la rielezione del Presidente Donald J. Trump e oggi sull’orlo del default di settore.
Chi, invece, in ragione di un rapporto privilegiato con il grande assetato cinese, poteva permettersi di vendere a minor prezzo era la Federazione Russa. Nel bilancio federale russo ogni anno i conti vengono fatti dichiarando esplicitamente il valore atteso del barile di greggio e per il 2020 questa stima è stata fissata a 42 dollari. Quando, sul finire del 2019, L’Arabia Saudita ha proposto alla Russia di rinnovare un precedente accordo di riduzione dell’estrazione che mirava a tenere le quotazione sopra il 60 dollari, Mosca ha rifiutato. Cercando di sbaragliare il tavolo, l’impulsivo MBS, per ritorsione ha aumentato la produzione saudita fino a far crollare il prezzo a meno di 30 dollari, con il triplice scopo di colpire la Russia, uccidere l’Iran e soffocare la concorrenza dello shale oil americano.
Tutti (Russia, USA e OPEC) pensavano di rifarsi con un accordo, tardivamente raggiunto la domenica di Pasqua, che, definendo quote mutualmente soddisfacenti, avrebbe permesso di risalire la china. Ovviamente nessuno aveva previsto lo spettacolare ingresso sulla scena del quarto incomodo: Covid-19. In un periodo di prezzi già bassi e scorte al massimo, la domanda è passata in un mese da 100 milioni di barili al giorno a meno di 70 milioni, e la caduta non si arresterà certo qui. Risultato: indici prossimi allo zero e un mercato nel quale il valore non è più nel petrolio ma negli slot di stoccaggio: ti pagano se glielo ospiti nei tuoi depositi.
Nulla di cui gioire, vista la conclamata – e del tutto corretta, almeno tecnicamente – ininfluenza del valore del barile sul prezzo dei nostri carburanti di consumo. Questa tempesta perfetta porterà l’Arabia Saudita vicina all’implosione, l’Iran all’ulteriore miseria, il Venezuela all’ultimo girone del suo personalissimo inferno, la Russia a guardare sempre più verso Oriente e, forse, Joe Biden ad insediarsi alla Casa Bianca. No, comunque vada, non andrà proprio tutto bene.
Lunedì, 27 aprile 2020