Per l’Italia avere chiarezza sulle loro fonti di finanziamento non è violazione della privacy, ma doveroso esercizio di sovranità
L’operazione Mare Nostrum è durata da ottobre 2013 a ottobre 2014, e ha impegnato un notevole numero di navi, aeromobili ed elicotteri che hanno garantito il soccorso a partire dal limite delle acque territoriali della Libia. Il governo Renzi decise di concluderla perché costava troppo e impegnava solo l’Italia: fu sostituita da Triton Frontex, con un minor numero di navi e aerei, e col sostegno di altre nazioni europee. In realtà, non fu tanto il bilancio economico di Mare Nostrum a decretarne la fine, quanto l’evidente incremento di partenze che essa determinò dalle coste libiche, e dall’altrettanto significativo aumento dei morti in mare: avviata dopo il naufragio che il 3 ottobre 2013 era costato la vita a 366 persone al largo di Lampedusa, Mare Nostrum ha visto aumentare i decessi nel Canale di Sicilia da un totale di 707 nel 2013 a 3.072 nel 2014. Il ruolo che svolgono le Ong che raccolgono migranti davanti alle acque libiche è nient’altro che Mare Nostrum in gestione privatistica: senza alcun mandato istituzionale, surrogano il minor numero di imbarcazioni inviate dagli Stati europei. Quasi tutti i migranti recuperati sono poi condotti in Italia e dislocati nella rete di accoglienza.
L’autorità giudiziaria italiana stabilirà se e quali di tali Ong, come è stato ipotizzato nelle ultime settimane, abbiano accordi con i trafficanti di uomini che organizzano i viaggi della disperazione: c’è da augurarsi che avvenga in modo chiaro, senza illazioni sfornite di elementi di prova e con gli strumenti rigorosi dell’indagine penale. Poiché però i tempi dei procedimenti giudiziari non sono quelli delle decisioni dei governi, i dati obiettivi finora a disposizione fanno porre dei quesiti, che meritano risposta immediata. Il primo: è ammissibile che Ong di varia nazionalità svolgano compiti che spettano agli Stati e agli organismi internazionali? Non è una domanda formalistica, per la ricaduta immediata che il soccorso in mare ha sull’Italia, e in misura minore sulla Grecia. È più che logico che uno Stato sovrano affronti il nodo dell’incidenza dell’attività di tali Ong all’interno della propria realtà istituzionale e sociale, non si rassegni ad accollarsi l’intera gestione del “dopo” lo sbarco senza interloquire sulla filiera del “prima”, e ponga il tema in sede europea e internazionale.
Obiezioni e risposte
All’obiezione che le Ong svolgono una funzione di soccorso prevista dalle convenzioni internazionali, è agevole rispondere che:
A) Quelle convenzioni impongono sì il soccorso, ma non l’organizzazione dei percorsi antecedenti, come invece accade da anni da parte delle Ong.
B) Il soccorso impone di condurre le imbarcazioni nel porto sicuro più vicino: escludendo che sia un porto libico (ma tale esclusione non sarebbe assoluta per i criteri delle convenzioni vigenti), non è detto che debba essere sempre un porto italiano. Prima dell’Italia c’è Malta, la cui area di soccorso marino è vastissima. È evidente che Malta non può accogliere sul proprio ridottissimo territorio i migranti che l’applicazione delle convenzioni imporrebbe di far scendere nei suoi porti; ma se il concetto di limite vale per ragioni obiettive per Malta perché, in scala maggiore, non dovrebbe valere per l’Italia? Chi stabilisce che La Valletta non può e Roma sì, senza misura?
C) L’incremento di attività delle Ong nel tratto di Mediterraneo ha moltiplicato gli arrivi e i morti dalla sponda sud: 153.842 arrivi e 3.771 morti nel 2015, 362.376 e 4.685 nel 2016, 44.776 e 1.092 nei primi quattro mesi del 2017 (si ricordi che nel 2010 arrivarono in 4.406 e ci furono 20 morti). Si cantino pure le lodi delle Ong emblema di solidarietà: il dato oggettivo, al di là delle intenzioni, è che il loro intervento fa crescere i morti in mare. La ragione è evidente: se il trafficante ha la certezza che la nave soccorritrice attende a 12 miglia marine dalla costa, adopererà i natanti più economici e quindi più insicuri, riempiendoli all’inverosimile pur di ottenere il massimo illecito profitto.
Da ultimo. Le Ong non sono l’equivalente laico di ordini religiosi mendicanti che vivono di carità e regalano carità. Hanno risorse rilevanti che permettono loro di allestire navi che raccolgono centinaia di persone: per l’Italia avere chiarezza sulle loro fonti di finanziamento non è violazione della privacy, ma doveroso esercizio di sovranità. Negli Stati Uniti, da decenni, qualsiasi ente che acquisisca fondi da un paese straniero ha l’obbligo di segnalazione in un registro controllato dal governo. Se una Ong assume iniziative che producono effetti nella vita interna italiana, la trasparenza verso le nostre istituzioni è una base minima di lealtà. Tutto questo si può fare come governo, con l’appoggio del parlamento, senza attendere gli esiti giudiziari. A patto di gettare a mare da un lato l’insipienza, dall’altro la demagogia. Queste non vanno salvate.
Alfredo Mantovano
Da “Tempi” del 12 maggio 2017. Foto da L’intellettuale dissidente