di Maurizio Brunetti
«Ci sono casi in cui la lotta armata è una realtà inevitabile a cui in circostanze tragiche non possono sottrarsi neanche i cristiani». Sono parole che Papa san Giovanni Paolo II (1920-2005) pronunciò nel 1983 quando, a due giorni dal 300° anniversario della clamorosa vittoria sull’esercito ottomano che assediava Vienna, ne ricordò «[…] con ammirazione» i difensori e i liberatori.
Sul punto il Magistero pontificio non dà adito a dubbi: l’opzione del pacifismo assoluto, quantunque estesa e potente sia stata la sua fascinazione fra laici ed ecclesiastici dal Sessantotto in avanti, non è una posizione autenticamente cattolica. Del resto, come osservò l’allora Arcivescovo Ordinario Militare per l’Italia mons. Giovanni Marra (1931-2018), «la dottrina della non violenza è inaccettabile ed in effetti è antievangelica, proprio perché porta alla non difesa dei deboli e privilegia i forti prepotenti». In quello stesso intervento, l’arcivescovo rammentò gli elementi tradizionali della dottrina della guerra giusta che, di lì a poco, sarebbero stati inglobati nel Catechismo della Chiesa Cattolica (nn. 2309-2314).
È perciò legittimo, anche per un cristiano del secolo XXI, nutrire ammirazione e persino un po’ di affetto per quel frutto maturo della civiltà cristiana romano-germanica che furono gli ordini religiosi cavallereschi. Le origini del più famoso di questi, l’Ordine dei Poveri Compagni d’Armi di Cristo e del Tempio di Salomone – più noto come «Ordine dei Templari» – sono connesse alle esigenze di assistenza armata ai pellegrini in Terrasanta emerse dopo il felice esito, nel 1099, della prima crociata.
Ai monaci guerrieri che vi militavano san Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) scrisse una lettera esortatoria nella quale si esprimeva così: «È questo dunque un nuovo genere di milizia – sconosciuto al mondo –, per cui si combatte una duplice battaglia, allo stesso tempo contro la carne e il sangue, e contro gli spiriti del male […]. L’impavido guerriero […] come indossa nel corpo l’armatura di ferro, così indossa nell’animo l’armatura della fede. […] Procedete dunque sicuri, o guerrieri, e con animo intrepido respingete i nemici della croce di Cristo, certi che né la morte né la vita potranno separarvi dall’amore di Dio».
La lettera si concludeva con l’invito a non confidare mai esclusivamente sulla propria forza e a ripetere spesso il primo versetto del salmo 115: «Non nobis Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam», e cioè: «Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome da’ gloria».
Delle varie opere musicali che nel corso dei secoli sono state composte su questi versi scritturali, segnalo quella per coro e orchestra composta dal britannico Patrick Doyle (n. 1953) per la colonna sonora dell’Enrico V (1989), il film scritto, diretto e interpretato da Kenneth Branagh.
Come osservato dall’anglista Elisabetta Sala, l’opera omonima del drammaturgo e poeta inglese William Shakespeare (1564-1616) da cui il film è tratto non permette di risolvere univocamente l’«enigma Enrico V»: si tratta di un ipocrita dal cuore gelido, oppure di un grande sovrano che sapientemente reprime i propri affetti e le proprie amicizie personali per il bene del Paese? La lettura di Branagh propende per la seconda ipotesi: il “suo” Enrico V sembra sincero quando, per accertarsi che la guerra che sta per intraprendere sia “giusta”, interroga il vescovo sulla fondatezza delle proprie pretese dinastiche sulla Francia; nel corso del conflitto il sovrano evita – per quanto possibile – inutili spargimenti di sangue; infine, dopo la schiacciante vittoria ad Azincourt – battaglia effettivamente disputata il 25 ottobre 1415 non lontano da Calais, in Francia – ordina che si canti il Nos nobis, il Te Deum, e che si seppelliscano caritatevolmente i morti.
Qui la scena del testo shakespeariano si chiude, eppure il genio teatrale di Branagh inserisce nel film una sequenza di quattro minuti e più, girata con la tecnica della carrellata, che è fra le più toccanti della pellicola. I soldati intonano dunque il Non nobis Domine e anche il Re partecipa alla pietosa pratica che aveva ordinato. Bisognerà però attendere la fine della sequenza per capire perché il tragitto è stato così lungo e a chi appartengano le spoglie del “soldato” che il sovrano, rivelandosi un vero principe cristiano, ha portato in spalla…
In conclusione, le raccomandazioni che san Bernardo rivolgeva ai Templari, a secoli di distanza sembrano utilissime anche per «noi, felici pochi» – così conforta i suoi l’Enrico V shakespeariano prima della battaglia decisiva –, per «noi, manipolo di fratelli» che, nell’apostolato socio-culturale aspiriamo a incarnare «minoranze creative» destinate a determinare il futuro: dinanzi al successo di qualsivoglia iniziativa, sarà bene recitare cavallerescamente il Non nobis Domine perché ogni nostra intenzione rimanga saldamente orientata alla maggior gloria di Dio.
Sabato, 27 ottobre 2018