A proposito del viaggio apostolico in Lussemburgo e Belgio
di Marco Invernizzi
Nei giorni scorsi sono usciti diversi articoli di commento al viaggio del Papa in Lussemburgo e Belgio, che evidenziavano attraverso l’analisi dei discorsi un cambiamento di Papa Francesco, da “progressista” a “conservatore” per dirla un po’ sbrigativamente.
Che cosa ha detto il Pontefice durante questo viaggio apostolico? Partiamo dalla fine, cioè dalle sue parole molto ferme contro il preteso “diritto” di aborto, pronunciate in aereo durante la conferenza stampa di ritorno. Il governo belga ha convocato il nunzio apostolico, dichiarando «inaccettabili» le parole del Papa. Ma veramente poteva il vescovo di Roma dire qualcosa di diverso dal ricordare che l’aborto volontario è l’omicidio di una persona innocente e che i medici che si prestano ad esso agiscono come dei sicari? Che cosa dirà il primo ministro belga al nunzio per protestare? Certo, il Papa avrebbe potuto tacere e incarnare quella Chiesa che piace ai potenti, che si preoccupa soltanto di curare le sofferenze maturate in una società in sfacelo, occupandosi dei poveri più poveri, i drogati, le donne che hanno abortito, i figli dei divorziati, gli immigrati che non riescono a integrarsi, senza porre questioni di principio. Ma la Chiesa non è soltanto questo, e Papa Francesco lo ha ricordato. Il primo ministro si lamenterà forse perché il Papa ha detto di “fare figli” e di preoccuparsi più dei bambini che dei cagnolini?
Il Pontefice ha detto molto altro. Soprattutto ha centrato il problema fondamentale delle nazioni che ha visitato: la verità, o meglio l’assenza della ricerca della verità. Non dimentichiamo il contesto: il Papa visitava il cuore dell’Europa laicista, dominata dal relativismo, cioè dalla rinuncia della ricerca della verità. Ecco le sue parole, pronunciate all’Università di Lovanio: «Da una parte, siamo immersi in una cultura segnata dalla rinuncia alla ricerca della verità. Abbiamo perduto l’inquieta passione del cercare, per rifugiarci nella comodità di un pensiero debole – il dramma del pensiero debole! –, per rifugiarci nella convinzione che tutto sia uguale, che una cosa valga l’altra, che tutto sia relativo. Dall’altra parte, quando nei contesti universitari e anche in altri ambiti si parla della verità, si scade spesso in un atteggiamento razionalista, secondo cui può essere considerato vero soltanto ciò che possiamo misurare, sperimentare, toccare, come se la vita fosse ridotta unicamente alla materia e a ciò che è visibile. In tutti e due i casi i confini sono ristretti» (27 settembre).
Senza la verità non c’è scopo nella vita, e non c’è neppure gioia, altro tema ricorrente nei discorsi durante questo viaggio. Senza la Verità anche la Chiesa perderebbe il “sapore” e cesserebbe dall’essere “lievito” per il mondo: forse è proprio questo il punto su cui dovrebbero riflettere quei non pochi cattolici europei che hanno smesso di dire la Verità in un mondo che così li gratifica (e li usa) proprio perché innocui.
Allora sembra che Papa Francesco non piaccia più al pensiero unico e dominante, al politicamente corretto, alla grande stampa di sinistra e progressista. Questo fatto è stato sottolineato da diverse testate giornalistiche non allineate al pensiero unico dominante. Ma questo atteggiamento è completamente corretto? Potrei dire che, essendo anti-abortista, sono contento e fermarmi lì. O aggiungere che, essendo contro l’ideologia gender, sono rimasto più che contento quando il Papa ha ricordato che la donna non deve fare l’uomo, perché perderebbe la sua originalità femminile, ribadendo la condanna dell’ideologia gender, «uno sbaglio della mente umana», come la definì lui stesso.
Ma confesso che questo modo di affrontare il problema non mi convince. La Chiesa non è un partito e il Papa non è il suo segretario politico. Capisco che i giornalisti devono vendere i loro pezzi e quindi devono insistere su questa lettura “dialettica” del Magistero del Papa. E lo stesso vale per i politici, che cercano sempre di tirare acqua al loro mulino. E capisco anche che sarebbe sbagliato, non conforme alla realtà, negare che ogni Pontefice è diverso da un altro, per sensibilità culturale, per indirizzo pastorale, per lo stile con cui intende guidare la Chiesa. E’ sempre stato così e sarebbe sciocco non riconoscere come, nel corso della bimillenaria storia della Chiesa, i diversi pontificati abbiano influito sulla vita pubblica del mondo, soprattutto di quello cristiano ovviamente. Gli stessi Papi, san Paolo VI in primis, hanno parlato di una autodemolizione della Chiesa, cioè del fatto che il “fumo di Satana” è penetrato nel sacro recinto, cioè, direbbe Francesco oggi, che la «mondanizzazione» a volte penetra e confonde la vita della Chiesa.
Ma allora come si combattono la “mondanizzazione” o il “fumo di Satana” penetrati nel “sacro recinto”?
Ridurre la storia e l’attualità della Chiesa a uno scontro interno fra diverse anime, come se fossero le correnti di un partito, significa fare male alla Chiesa e, soprattutto, non averne compresa la natura.
Queste diverse anime ci sono sempre state, dirà qualcuno. E ci sono state anche le cosiddette “eresie” bianche, che non sono volute uscire dalla Chiesa, ma sono rimaste al suo interno per condizionarla, come il giansenismo e il modernismo. Verissimo, e allora guardiamo il comportamento dei santi in frangenti simili. Guardiamo e imitiamo il loro equilibrio, che li ha aiutati a diventare santi. San Pio X, san Giovanni XXIII, san Paolo VI, san Giovanni Paolo II sono stati molto diversi fra loro, anche nel modo di affrontare, per esempio, il diffondersi del modernismo. Sono tutti diventati santi, con i loro stili pastorali specifici.
Che cosa ci hanno insegnato, in fondo, se non che la Chiesa è il Mistero del corpo di Cristo, il «corpo mistico» come la chiamò Pio XII, che opera nella storia sotto la guida dei vescovi, successori degli Apostoli, e del vescovo di Roma, in particolare, come Capo universale? A quest’ultimo è stata garantita l’assistenza dello Spirito Santo, in modo infallibile nei pronunciamenti del Magistero straordinario, ma anche ordinariamente, in quel Magistero di tutti i giorni che obbliga in coscienza i fedeli a seguirlo con «docilità» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 87).
Anche se siamo giornalisti o intellettuali, soprattutto se desideriamo essere cattolici fedeli, impariamo questa difficile «docilità», una docilità a volte incomprensibile per chi fatica a uscire dall’approccio ideologico anche verso la fede, a volte eroica perché ci costringe a rivedere le nostre opinioni, ma una docilità espressione di quella virtù che proprio il mondo dominato dall’individualismo laicista non vuole nemmeno sentire pronunciare: la virtù dell’obbedienza.
Lunedì, 7 ottobre 2024