Francesco Pappalardo, Cristianità n. 218-219 (1993)
«¡Nuevo Mundo! 1492-1992»
Tra le iniziative promosse dalla Santa Sede in occasione delle celebrazioni per il quinto centenario della scoperta e dell’evangelizzazione dell’America merita di essere segnalata la mostra ¡Nuevo Mundo! 1492-1992. Nuovi popoli, nuove culture, nuove espressioni artistiche, allestita in Vaticano, nel Braccio di Carlo Magno della basilica di San Pietro, dal 12 dicembre 1992, festa della Madonna di Guadalupe, al 23 maggio 1993.
L’esposizione costituiva il secondo appuntamento del progetto ARATOR — Artem Religio Auget Terram Omniaque Redimit, «la religione incrementa l’arte e redime la terra e tutte le cose» —, elaborato dalla Biblioteca Apostolica Vaticana in collaborazione con la società Muse per organizzare mostre d’arte su temi salienti del Magistero della Chiesa.
Componevano il Comitato scientifico della mostra, fra gli altri, padre Leonard E. Boyle O.P., prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana, il professor Rocco Buttiglione, prorettore dell’Internationale Akademie für Philosophie nel principato di Liechtenstein e presidente della Commissione tecnico-scientifica del progetto ARATOR, il professor Guzmán Carriquiry Lecour, sotto-segretario del Pontificio Consiglio per i Laici, padre Fidel González Fernández M.C.C.I., docente di Storia della Chiesa alla Pontificia Università Urbaniana e responsabile della ricerca storica e degli apparati didattici della mostra stessa (1).
L’esposizione era articolata in otto sezioni o «scene» che, grazie anche a un allestimento originale e altamente spettacolare, guidavano il visitatore sulla scia dei grandi navigatori, conquistatori ed evangelizzatori dell’America.
Nella prima sezione, Vigilia del 1492: l’alba della modernità, erano esposti i mappamondi, i planisferi e le carte geografiche di cui disponevano i navigatori dei secoli XIV e XV, che con entusiasmo solcarono mari sconosciuti e affrontarono i pericoli dei viaggi verso l’ignoto, animati innanzitutto dal desiderio di allargare le frontiere della Cristianità.
Per costoro — come ha autorevolmente scritto Jacques Heers — « […] il viaggio, la peregrinazione, rimaneva, come ai tempi eroici dell’evangelizzazione dell’Europa, la virtù dei campioni di Dio, di coloro che abbandonano tutto per il suo servizio. Nuovi propagatori della fede, nuovi Crociati, questi capitani di mare e cavalieri di Cristo issano sempre il segno della croce sugli alberi delle loro caravelle» (2).
Questa mentalità, che aveva profonde radici medievali e cristiane, caratterizzò anche Cristoforo Colombo, la cui spedizione costituiva il tema della seconda sezione della mostra, Il viaggio (3).
L’impresa fu sostenuta e finanziata dalla regina Isabella di Castiglia e dal consorte, Ferdinando d’Aragona, entrambi consapevoli della grande missione di difendere e di diffondere il messaggio di Cristo in Europa e nel mondo, affidata dalla Provvidenza alla Spagna dopo la conclusione della Reconquista, cioè della riconquista della penisola iberica occupata dai musulmani nel secolo VIII.
Il card. Nicolás de Jesús López Rodríguez, arcivescovo di Santo Domingo e presidente del CELAM, il Consiglio Episcopale Latino-Americano, nell’indirizzo di omaggio al Santo Padre Giovanni Paolo II all’inizio della Messa per la Commemorazione del V Centenario, celebrata dal Sommo Pontefice appunto a Santo Domingo l’11 ottobre 1992, ha ribadito «[…] che il proposito evangelizzatore fu uno dei più chiaramente definiti dai sovrani cattolici, soprattutto dalla grande regina Isabella che, donna eccezionale e di fede molto profonda, sentiva l’obbligo di far giungere il messaggio del Vangelo agli abitanti di queste terre, da essa considerati come figli e non soltanto come vassalli» (4).
Il testamento della regina, che proclamava i diritti degli indios e dava disposizioni per la loro evangelizzazione, entrò a far parte — caso unico nella storia costituzionale di un paese — della legislazione spagnola sulle Indie fino all’indipendenza degli Stati iberoamericani.
Le statue dei Re Cattolici, rivestite con abiti d’epoca, erano collocate all’ingresso della seconda «scena», raffigurante il molo del porto di Palos, in Spagna — da dove salpò la piccola flotta di Cristoforo Colombo, all’alba del 3 agosto 1492 — presso cui era ormeggiata una caravella, la Santa Maria, ricostruita per l’occasione nei particolari più minuti.
Dalla caravella si sbarcava sul suolo americano: era la terza sezione della mostra, Il Nuovo Mondo, dove erano esposti numerosi reperti, per lo più di origine azteca, che offrivano una testimonianza dello sviluppo culturale raggiunto da alcuni popoli dell’America precolombiana.
Nei conquistatori e nei missionari l’ammirazione per i risultati conseguiti da queste etnie nel campo dell’arte e dell’organizzazione politico-militare fu offuscata subito dallo stupore per le assenze inspiegabili sul piano economico e tecnologico — per esempio, gli animali domestici, la ruota, la lavorazione del ferro, l’arco e la volta nelle costruzioni — e, soprattutto, dall’orrore per usi e costumi che ripugnavano alla coscienza cristiana, come i sacrifici umani, l’antropofagia e l’idolatria.
La presenza di un coltello sacrificale e la ricostruzione in miniatura dell’area cerimoniale della capitale azteca Tenochtitlán, l’odierna Città del Messico, richiamavano alla mente dei visitatori gli orrori dei sacrifici rituali, che non furono ai margini bensì al centro dell’organizzazione sociale degli aztechi.
Tuttavia, la comprensibile intransigenza iniziale dei conquistadores e degli stessi missionari di fronte a questa mostruosa idolatria cedette presto il campo alla carità evangelizzatrice.
Nella quarta sezione della mostra, Conquista ed evangelizzazione, era ricostruito questo incontro-scontro fra due culture differenti, che produsse nel tempo frutti prodigiosi.
«Fu questo un incontro tra razze e culture che diede forma al vostro Paese — ha osservato Papa Giovanni Paolo II in occasione del suo secondo pellegrinaggio apostolico in Messico —, dove la scoperta, la conquista e l’evangelizzazione occupano un posto decisivo, luminoso nel suo insieme, benché non scevro da ombre. Ma il profondo sguardo cristiano ci permette di scoprire nella storia l’amoroso intervento di Dio, nonostante i limiti propri di ogni opera umana. Infatti, nel fiume della storia avviene una misteriosa confluenza di peccato e di grazia ma, nel corso della storia stessa, la grazia trionfa sul potere del peccato: “laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia” (Rm. 5,20) ci dice l’Apostolo san Paolo» (5).
Il peccato fu presente in quella storia, come in tutte le vicende umane, ma ciò che deve stupire non sono gli abusi iniziali, semmai la grande capacità di autocritica che veniva, a tutti i livelli, da una profonda coscienza cristiana.
Di fronte alle deviazioni la voce della Chiesa si è levata dal primo momento attraverso la denuncia da parte dei missionari, le elaborazioni dottrinali dei teologi e dei giuristi nelle università e la sollecitudine dei sovrani spagnoli, che promulgarono molteplici leggi in difesa degli indios.
In particolare, «la testimonianza della Scuola di Salamanca rappresenta un encomiabile sforzo di orientare l’opera di colonizzazione secondo princìpi ispirati da un’etica cristiana. Fra’ Francisco de Vitoria, nelle sue celebri relazioni sugli indios pose i fondamenti filosofico-teologici di una colonizzazione cristiana» (6), che «[…] non può essere svuotata del contenuto religioso che la permeò o accompagnò, perché la Croce di Cristo, piantata sin dal primo momento nelle terre del Nuovo Mondo, illuminò il cammino degli scopritori o colonizzatori, come è provato dalla religiosità che ha segnato tutto il loro itinerario e i numerosi scritti dell’epoca, così come i nomi stessi di tante città e santuari sparsi in America» (7).
L’opera principale di padre Francisco de Vitoria O.P., De indis et iure belli relectiones. Relectiones Theologicae, era esposta nella mostra insieme con alcuni documenti pontifici significativi, fra cui la bolla Sublimis Deus, del 1537, con la quale Papa Paolo III riaffermò la dignità degli indios e vietò ogni forma di schiavitù.
L’integrazione fra vincitori e vinti fu annunciata dall’apparizione della Vergine Maria all’indio Juan Diego nel dicembre 1531, appena dieci anni dopo la conquista del Messico.
La «dolce Signora del Tepeyac, […] la prima evangelizzatrice dell’America Latina» (8), chiese di essere invocata con il titolo di «Perfetta Vergine Santa Maria di Guadalupe». Secondo uno dei pannelli della mostra, «si può affermare che in questo nome vi sia un delicato dettaglio della tradizione spirituale di Maria, la quale ha voluto significare con ciò che lei è la Madre comune di tutti i fedeli cristiani — indigeni, spagnoli, o di qualunque altra razza — e che nel suo grembo materno si affratellano tutti i popoli del Nuovo e del Vecchio Mondo per formare un nuovo popolo chiamato a nascere nella fede in Cristo».
Il volto meticcio della Vergine prefigura la nascita di una nuova e originale civiltà, esito non di una violenta sovrapposizione ma di una felice sintesi e di una integrazione razziale autentica, realizzata sotto il segno del cattolicesimo.
Per questo motivo la cappella contenente alcune delle più antiche riproduzioni della Vergine di Guadalupe stava al centro della mostra, nella quinta sezione intitolata appunto L’avvenimento di Guadalupe.
La «scena» successiva, Una compagnia in opera, era dedicata all’attività missionaria in America, che «[…] costituisce una delle pagine più belle di tutta la storia dell’evangelizzazione portata a compimento dalla Chiesa» (9).
Protagonisti di questa epopea furono innanzitutto i missionari — altamente selezionati e dotati di grande libertà d’iniziativa di fronte alle autorità civili —, quindi la Corona spagnola, cioè i sovrani e gli organi di governo, fra cui il Consiglio delle Indie, infine tutti gli spagnoli giunti nel continente — conquistadores e coloni — i quali, nonostante i limiti del loro operato, erano consapevoli di aprire la strada alla diffusione del messaggio di Cristo.
Inoltre, tutti costoro «[…] trovarono negli indigeni i migliori collaboratori per la missione, come mediatori nella catechesi, come interpreti e amici per avvicinarsi ai nativi e facilitare una migliore comprensione del messaggio di Gesù» (10).
Un ruolo preminente nell’opera missionaria fu assunto, sia nell’America spagnola sia in quella portoghese, da cinque ordini religiosi: i francescani, sbarcati nel Nuovo Mondo fin dal 1493, i domenicani dal 1510, i mercedari dal 1519, gli agostiniani dal 1533, e i gesuiti dal 1566.
L’azione evangelizzatrice operò in tre direzioni convergenti: l’irradiazione della fede e della cultura cristiana, il salvataggio delle lingue e delle tradizioni del continente americano, la civilizzazione delle popolazioni locali.
Sotto il primo aspetto i missionari fecero fruttificare i «semi» di religiosità presenti nelle credenze dei popoli indigeni, attraverso l’elaborazione di nuovi metodi di catechesi; la creazione delle «dottrine», parrocchie di indios, dove costoro venivano istruiti nelle verità della fede cristiana e ricevevano i sacramenti; la preparazione di catechismi illustrati.
Di fronte al lento progresso dell’evangelizzazione nei primi anni, i missionari compresero che era necessario conoscere a fondo la mentalità e la cultura indigena per presentare il Vangelo nel modo più adeguato. Pertanto, essi studiarono le istituzioni, gli usi e i costumi degli indios e ne appresero le lingue.
Alcuni strumenti di questo gigantesco lavoro di inculturazione — le grammatiche, i vocabolari, i frasari di conversazione, i catechismi, bilingui o pittografici, preparati con la stessa tecnica di scrittura utilizzata dagli indigeni nei loro codici di carta vegetale — erano esposti nella mostra, insieme con i Coloquios y doctrina cristiana del francescano Bernardino de Sahagún — contenenti i dialoghi dei primi missionari arrivati in Messico con alcuni saggi e capi religiosi e civili mexicas, tradotti in náhuatl, la lingua degli aztechi — e con il cosiddetto Codice Riós, cioè la descrizione dei culti e dei costumi dell’antico Messico da parte del domenicano Pedro de los Riós.
Infine, i missionari realizzarono una fondamentale opera di civilizzazione — analoga a quella compiuta dalla Chiesa in Europa durante il Medioevo cristiano —, costruendo case e chiese, promuovendo l’agricoltura e l’allevamento degli animali, creando scuole di arti e mestieri, aprendo ospedali — il primo dei quali, fondato in Messico da Hernán Cortés, nel 1521, è attivo ancora oggi — e numerosissimi centri di beneficenza e di carità.
Anche l’attività culturale assunse un carattere di sistematicità grazie alla fondazione di collegi e di università: queste ultime erano già venticinque a metà del secolo XVIII, la prima essendo stata fondata a Santo Domingo, nel 1538, a meno di cinquant’anni dalla scoperta.
«La preoccupazione educativa generò così una rete di scuole di ogni ordine e grado in tutto il territorio ispano-americano, da quelle elementari alle primarie e alle secondarie, alle università, i cui titoli erano riconosciuti nell’Europa cattolica. Nel Brasile portoghese la sistematicità dell’educazione scolastica fu realizzata soprattutto dai gesuiti, a partire dalla seconda metà del Cinquecento».
Infine, i missionari provvidero anche a radunare gli indios sparsi nelle valli e a educarli a vivere in comunità. Nacquero così i villaggi-ospedale del vescovo Vasco de Quiroga, le colonie missionarie dei francescani e le reducciones, di cui le più note sono quelle fondate dai gesuiti nel Paraguay.
Nelle «riduzioni» si radunavano, o «riducevano» gli indios «in popolazioni stabili per facilitare la loro evangelizzazione e la loro promozione umana. Non si trattava di un progetto esclusivamente religioso, ma di un’iniziativa globale che rispondeva ai bisogni concreti della persona umana, avendo come modello la comunità cristiana primitiva. L’idea nacque nel 1501 per iniziativa della Corona spagnola […].
«A partire dal 1750 il sistema delle reducciones venne eliminato sotto l’influsso dell’ideologia illuminista […], mettendo così fine a una delle esperienze più riuscite della storia missionaria in difesa dei popoli deboli. Al tempo della soppressione della Compagnia di Gesù, con la conseguente espulsione dei gesuiti (1768), le 31 reducciones esistenti contavano oltre 91.000 indios».
Una testimonianza della fede e della capacità di espressione artistica degli indios guaraní, che popolavano le reducciones gesuitiche, era offerta dalle statue di legno policromo provenienti dal Paraguay ed esposte in uno scenario tropicale, raffigurante una vegetazione lussureggiante, che ricordava l’arduo confronto dei missionari con la natura sconosciuta.
L’opera di evangelizzazione e di civilizzazione degli indigeni favorì anche la creazione di un patrimonio artistico formidabile.
«Nel campo delle arti plastiche e dell’architettura tre saranno le esperienze e le realizzazioni attorno alle quali graviterà il cammino culturale dell’America Latina: il monastero medievale del secolo XVI, la cattedrale rinascimentale del XVII secolo e la chiesa — parrocchiale o conventuale, urbana o rurale — del barocco del XVIII secolo». Queste tre tappe delineano dunque un percorso: «la preoccupazione evangelizzatrice del monastero, il consolidamento della vita ecclesiale e il meticciato culturale ed etnico raggiunto grazie al cattolicesimo».
La settima «scena» della mostra, Il barocco latino-americano, offriva la ricostruzione di una cattedrale del Nuovo Mondo, in cui risplendeva l’arte suggestiva del barocco, che «[…] raffigura quasi visivamente l’incontro della cultura cattolica con l’animo delle popolazioni indigene. Un’arte profondamente religiosa, che ha saputo ben coniugare le forme dell’iconografia cristiana con le tradizioni di quei popoli» (11).
Nelle cappelle laterali della cattedrale erano esposti alcuni capolavori artistici, soprattutto quadri raffiguranti soggetti originali, come la Vergine mulatta e gli arcangeli archibugieri, oppure immagini dei santi che diedero un apporto fondamentale alla religiosità americana, come san Toribio di Mogrovejo, santa Rosa da Lima e san Martín di Porres.
Dalla cattedrale si gettava uno sguardo sul continente americano, che dovrà essere oggetto nei prossimi anni di una nuova strategia evangelizzatrice, i cui elementi portanti saranno «la dottrina sociale della Chiesa», «la promozione umana» e «l’inculturazione del Vangelo» (12).
Con l’ultima «scena», Una luce che continua: la nuova evangelizzazione, terminava l’esposizione, realizzata con lo scopo di trasmettere la memoria viva del ruolo che la fede cristiana ebbe nella storia e nella cultura dell’Iberoamerica e dunque di rappresentare «un’occasione di riflessione» (13) in vista della «nuova evangelizzazione», il cui fine è quello di rinvigorire le forze spirituali e morali dei popoli del continente per restaurare, in tutta la sua pienezza, la civiltà cristiana.
Francesco Pappalardo
Note:
(1) Cfr. il catalogo «¡Nuevo Mundo!» 1492-1992. Nuovi popoli, nuove culture, nuove espressioni artistiche. Braccio di Carlo Magno. Piazza San Pietro, Città del Vaticano, 13 dicembre 1992-23 maggio 1993. I testi dei pannelli, dovuti al padre comboniano Fidel González Fernández, non sono riportati né nell’edizione completa né in quella ridotta del catalogo stesso; tutte le citazioni senza rimando sono tratte da tali pannelli.
(2) Jacques Heers, Cristoforo Colombo, trad. it., Rusconi, Milano 1983, p. 669.
(3) Sulla figura del grande navigatore, cfr. Marco Tangheroni e Maurizio Parenti, Cristoforo Colombo, ammiraglio genovese e «defensor fidei», in Cristianità, anno XX, n. 203, marzo 1992.
(4) Card. Nicolás de Jesús López Rodríguez, Indirizzo di omaggio al Santo Padre Giovanni Paolo II all’inizio della Messa per la Commemorazione del V Centenario, a Santo Domingo, dell’11-10-1992, in L’Osservatore Romano, 12/13-10-1992; cfr. anche padre Anastasio Gutiérrez Poza C.M.F., La serva di Dio Isabella la Cattolica, modello per la nuova evangelizzazione, intervista da me raccolta nel marzo del 1992, in Cristianità, anno XX, n. 204, aprile 1992.
(5) Giovanni Paolo II, Omelia nella Messa a Veracruz, in Messico, del 7-5-1990, n. 1, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. XIII, 1, p. 1144.
(6) Idem, Discorso ai partecipanti al Seminario Internazionale sulla storia dell’evangelizzazione dell’America organizzato dalla Pontificia Commissione per l’America Latina, del 14-5-1992, n. 5, in L’Osservatore Romano, 15-5-1992.
(7) Ibid., n. 6.
(8) Idem, Discorso all’arrivo a Città del Messico, del 6-5-1990, n. 4, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. XIII, 1, p. 1123. Sull’apparizione, cfr. Giulio Dante Guerra, La Madonna di Guadalupe. Un caso di «inculturazione» miracolosa. In appendice «Preghiera per la Vergine di Guadalupe» di Papa Giovanni Paolo II, Cristianità, Piacenza 1992.
(9) Giovanni Paolo II, Omelia nella Messa a Saragozza, in Spagna, del 10-10-1984, n. 1, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. VII, 2, p. 866. Il Sommo Pontefice si è espresso sul carattere provvidenziale della scoperta e della conseguente opera di evangelizzazione in questi termini: lo «spiegamento missionario senza precedenti» diede «[…] presto una nuova configurazione alla mappa ecclesiale […] in un momento in cui le convulsioni religiose in Europa provocavano lotte e visioni parziali, che ebbero bisogno di nuove terre per far riemergere in esse la creatività della fede.
«Era il prorompere vigoroso dell’universalità voluta da Cristo […] per il suo messaggio. Questo, dopo il Concilio di Gerusalemme, penetra nell’ecumene ellenistica dell’Impero romano, si conferma nell’evangelizzazione dei popoli germanici e slavi […] e trova la sua nuova pienezza nella nascita della cristianità del Nuovo Mondo» (omelia nella Messa a Santo Domingo, del 12-10-1984, n. 2, ibid., pp. 888-889).
(10) Idem, Omelia nella Messa a Città del Messico, del 6-5-1990, n. 4, ibid., vol. XIII, 1, pp. 1127-1128. La prima evangelizzazione segnò in modo decisivo l’identità storico-culturale dell’Iberoamerica: «Prova di ciò è che la fede cattolica non fu sradicata dal cuore dei suoi popoli, nonostante il vuoto pastorale creato nel periodo dell’indipendenza o dell’ostilità e delle persecuzioni successive» (Idem, Omelia nella Messa a Santo Domingo, cit., n. 5, p. 892).
(11) Idem, Discorso in occasione della visita alla Mostra ¡Nuevo Mundo!, del 6-4-1993, in L’Osservatore Romano, 7-4-1993.
(12) Cfr. Idem, Discorso ai partecipanti alla seconda Assemblea Plenaria della Pontificia Commissione per l’America Latina, del 14-6-1991, n. 4, in L’Osservatore Romano, 15-6-1991.
(13) Idem, Discorso in occasione della visita alla Mostra ¡Nuevo Mundo!, cit.