Mauro Ronco, Cristianità n. 347-348 (2008)
1. Steven G. Calabresi, curatore dell’opera Originalism: A Quarter-Century of Debate (1), è co-fondatore della Federalist Society for Law and Public Policy Studies, presidente del Consiglio Direttivo della predetta società, nonché professore di Diritto alla Northwestern University School of Law di Chicago, nell’Illinois. Dal 1985 al 1990 ha lavorato nelle Amministrazioni rette dai presidenti Ronald Wilson Reagan (1911-2004) e George Herbert Walker Bush prima come consigliere di Edwin “Ed” Meese III — ministro della Giustizia dal 1985 al 1988 —, quindi come consigliere dell’incaricato del presidente Reagan per la politica interna T. Kenneth “Ken” Cribb jr. — oggi presidente della fondazione educativa conservatrice Intercollegiate Studies Institute di Wilmington, nel Delaware —, poi come speech-writer dell’ex vicepresidente James Danforth “Dan” Quayle. La Federalist Society, come di solito è denominata in modo abbreviato, è un’organizzazione di studiosi conservatori e “liberali”, nel senso americano di libertarian, che cercano di riformare l’ordinamento giuridico statunitense vigente. Fondata nel 1982 da un gruppo di studenti presso le Facoltà giuridiche delle università Yale, Harvard e di Chicago, nel suo statuto si legge che promuove i seguenti princìpi: lo Stato esiste per preservare la libertà degl’individui, la separazione dei poteri di governo è centrale nella Costituzione federale statunitense e il potere giudiziario deve pronunciarsi su quanto la legge è e non su quanto dovrebbe essere. La sua sede centrale è a Washington, la capitale federale.
L’opera curata da Calabresi riferisce gli aspetti essenziali di un dibattito venticinquennale in ordine ai criteri interpretativi della Costituzione degli Stati Uniti d’America e al conseguente significato che deve attribuirsi alle proposizioni e alle parole usate nel testo dalla Convenzione costituzionale di Filadelfia che l’approvò nel 1787. Si tratta di un’opera di estremo rilievo — pubblicata nel 2007, in occasione del venticinquesimo anniversario della fondazione della Federalist Society — perché offre la possibilità di conoscere a fondo le coordinate della dottrina giuridica comunemente nota con il nome di “originalismo” come dottrina intesa a interpretare correttamente il testo costituzionale che regge la vita della grande potenza nordamericana.
Il volume, introdotto da un ampio scritto di Calabresi — A Critical Introduction to the Originalism Debate (pp. 1-40) —, illustrativo degl’importanti interventi e degli approfonditi dibattiti che lo compongono, si divide in due parti. La prima contiene sei presentazioni, di cui una radicalmente contraria, della dottrina “originalista”, ed è preceduta da una prefazione del giudice della Corte Suprema statunitense Antonin Gregory Scalia (pp. 43-45), forse il più significativo rappresentante attuale della corrente “originalista”, soprattutto nella versione “testualista”. Scalia, invero, ha corretto alcuni aspetti troppo soggettivistici della primitiva dottrina “originalista”, che attribuivano all’interprete il compito di accertare l’intento soggettivo del legislatore originario. In realtà, come chiaramente Scalia ha scritto, quanto l’interprete deve focalizzare con precisione è l’intento obiettivato nella legge, cioè l’intento che una persona ragionevole ricaverebbe dal testo scritto della legge alla luce dell’insieme complessivo del sistema normativo (2).
La seconda parte è divisa in sei sezioni, in ciascuna delle quali sono affrontati, nell’ambito di discussioni a più voci, i temi salienti dell’”originalismo”, che mettono in luce le ragguardevoli novità di tale dottrina rispetto al modo in cui la Costituzione degli Stati Uniti d’America è stata interpretata per un lungo periodo, soprattutto nei decenni 1960, 1970 e 1980.
L’opera è conclusa da un intervento di Theodore B. Olson (pp. 333-336), procuratore generale erariale degli Stati Uniti d’America e — non è una curiosità — vedovo della giornalista giudiziaria, cattolica, Barbara Kay Bracher Olson (1955-2001), morta nello schianto del volo American Airlines 77 abbattutosi l’11 settembre 2001 sul Pentagono — uno di quelli che, stando a certo complottismo, “non sarebbe mai caduto” —, a cui la Federalist Society ha poi intitolato, a partire dal novembre 2001, le Barbara K. Olson Memorial Lectures, un ciclo annuale di conferenze dedicate ai temi del governo temperato e dello spirito della libertà che, inaugurate dal marito, hanno avuto fra gli oratori anche il giudice Scalia, il vicepresidente Richard “Dick” Cheney e il presidente della Corte Suprema John Glover Roberts jr. In questi Pensieri conclusivi Olsen fa il bilancio di venticinque anni di battaglia della Federalist Society per ravvivare e per intensificare il dibattito relativo alla dottrina “originalista” e alla corretta interpretazione del testo scritto della Costituzione statunitense.
2. Nel perimetro ristretto di una recensione mi riprometto di mettere in luce soprattutto i problemi gravissimi di ordine costituzionale, nonché gli abusi interpretativi, ascrivibili al potere giudiziario americano, cui la dottrina dell’”originalismo” intende rispondere. Desidero altresì evidenziare alcune soluzioni che la dottrina offre a tali problemi, non senza avvertire che i problemi dibattuti e risolti dall’”originalismo” non sono specifici degli Stati Uniti d’America, ma riguardano tutti i paesi dell’Occidente, siano essi di cultura latina e germanica e di civil law, oppure di cultura anglosassone e di common law.
Il tema specifico dell’”originalismo” è posto in evidenza in tutta la sua gravità da Meese nel Discorso all’Associazione degli Avvocati Americani, del 9 luglio 1985, che costituisce il primo capitolo del volume (pp. 47-54). Meese esprime l’esigenza che l’interpretazione del testo costituzionale sia rispettosa del ruolo della legge, della regola che nel governo del Paese ciascun potere è soggetto a limitazioni e del principio della separazione dei poteri. Secondo Meese, una ragione non trascurabile della grandezza degli Stati Uniti d’America sta nel fatto che il governo della nazione non è cosa che appartenga alla volontà arbitraria degli uomini, ma soltanto al dettato irrefragabile della legge. La Costituzione scritta ha per scopo fondamentale di obbligare tutti i poteri dello Stato federale, limitandoli entro i confini della legge. Onde, allo stesso modo del potere legislativo e di quello esecutivo, anche il potere giudiziario deve restare nei limiti della legge.
Esaminando tre aree particolarmente sensibili della giurisprudenza, quella concernente i rapporti fra il potere degli Stati e il governo centrale, quella concernente il significato e la portata della libertà religiosa e quella concernente la legge penale, Meese stigmatizza il troppo frequente debordare delle decisioni della giurisprudenza al di là dei confini della legge. La tracimazione, oltre o addirittura contro la legge, caratterizza, secondo Meese, anche l’operato della Corte Suprema a riguardo del testo costituzionale. Vari indizi, come il formarsi di blocchi di voto nelle decisioni importanti e come l’utilizzo di argomenti politico-morali nella motivazione, estranei al testo normativo, rivelano una propensione dei giudici a ubbidire maggiormente a quanto ciascuno di essi ritiene una giusta politica pubblica, piuttosto che vero “rispetto per quanto la Costituzione, nel testo e nell’intenzione, postula” (p. 52).
Contro la deriva della Corte Suprema, intesa a espandere un ugualitarismo radicale e un libertinismo civile, nocivi entrambi per il bene comune, Meese suggerisce il ritorno a “una giurisprudenza dell’intento originale” (ibidem). Una giurisprudenza di questo genere sarebbe consona, secondo Meese, all’idea di democrazia, profondamente radicata nelle origini, nella storia e nel sentimento del popolo degli Stati Uniti d’America, secondo cui il potere spetta al popolo e non ai governanti. Invero, la Costituzione, come legge fondamentale che regola la vita del popolo, rappresenta il consenso dei governati alle strutture e al potere del governo. Permettere alle Corti di Giustizia di governare attraverso giudizi che possono, di volta in volta, esprimere desideri che i giudici, individualmente considerati, o gruppi minoritari nel Paese ritengono opportuni o soddisfacenti, è idea contraria alle istanze fondamentali di un governo popolare, da cui non può non scaturire una sofferenza per la democrazia. Secondo l’icastica espressione di Meese, “una costituzione vista soltanto come il prodotto di ciò che i giudici dicono del suo contenuto non è più una costituzione nel vero senso della parola” (p. 53).
3. Il secondo capitolo, Speech to the Text and Teaching Symposium, “Discorso ai partecipanti al “Text and Teaching Symposium””, un convegno sull’insegnamento dei testi classici (pp. 55-70), costituito dalla violenta risposta a Meese di William Joseph Brennan Jr. (1906-1997) — giudice della Corte Suprema dal 1956 al 1990, considerato uno fra i suoi più influenti membri, noto per le sue posizioni liberal, incluso il sostegno al “diritto” di aborto —, consente di cogliere le ragioni profonde dell’invasione di campo della giurisprudenza nelle scelte politiche. Brennan è esponente di punta della prevalenza del diritto “vivente” sul diritto scritto e della natura creativa della giurisprudenza costituzionale. Il tentativo di leggere la Costituzione secondo il suo significato originario sarebbe, secondo Brennan, “poco meno che arroganza mascherata da umiltà” (p. 58). Per Brennan la “[…] Costituzione non è stata concepita per salvaguardare una società già esistente ma per crearne una nuova, per lanciare princìpi nuovi che la società politica preesistente non aveva sufficientemente riconosciuto” (p. 62). Anche se è vero che la Costituzione è strutturata in un testo che designa un progetto di governo e che non ha come oggetto primario la determinazione dei diritti dell’uomo, bensì i poteri e i limiti del governo, tuttavia, come testo che pone limiti ai poteri dell’autorità pubblica e che mette in luce l’autonomia individuale, esso “[…] è una sfavillante visione della supremazia della dignità umana di ogni individuo” (p. 63). Sarebbe così giustificata, secondo Brennan, l’interpretazione del testo costituzionale secondo un obiettivo di trasformazione sociale che i giudici devono assumere in piena coscienza nello sforzo d’identificare il significato del testo alla luce dell’interpretazione che ne darebbe la comunità vivente dei cittadini (3).
Su questo punto Brennan affronta il problema della fonte di legittimazione delle pronunce giudiziarie che vanno contro le leggi democraticamente approvate secondo il principio di maggioranza, evocando la “counter–majoritarian difficulty”, la “difficoltà antimaggioritaria” (p. 58): da un canto, invero, sta il potere della maggioranza di approvare le leggi; da un altro canto, però, sarebbe giusto che sussista il potere dei giudici della Corte Suprema d’invalidarle. Tale potere riposa sull’autorità d’interpretare la Costituzione. Diventa così decisivo il modo in cui il testo dev’essere letto. La proposta di fondare la legittimità giuridica nella fedeltà alle “intenzioni dei Fondatori” (ibidem) è “arrogante” (ibidem) e inconsistente. La proposta alternativa di riservare le materie di politica sostanziale al processo maggioritario è pure rifiutata da Brennan, in quanto una maggioranza chiusa in sé stessa potrebbe creare un sistema castale tanto a lungo quanto gli sarebbe permesso dal mantenimento maggioritario del potere legislativo. La Costituzione, invece, dichiara certi valori come dotati di un carattere trascendente, al di là delle temporanee maggioranze politiche. Il processo maggioritario non dev’essere utilizzato per contenere le rivendicazioni dei diritti delle minoranze, che scaturiscono come risposta giusta ai risultati del processo maggioritario. Secondo Brennan, “la fede nella democrazia è una cosa, la fede cieca in essa è tutt’altra cosa” (p. 60).
Ai giudici, soprattutto a quelli della Corte Suprema, spetterebbe così il compito d’interpretare la Costituzione come “statunitensi del secolo XX” (p. 61), uomini contemporanei, adattando i grandi princìpi costituzionali alla realtà presente, affinché gli stessi princìpi siano capaci di far fronte ai problemi e ai bisogni della società di oggi. Ciò che fondamentalmente la Costituzione significava per la sapienza di altri tempi non potrebbe essere la misura della visione del nostro tempo.
4. La risposta che Meese dette nel Discorso alla Sezione D.C. [del Distretto di Columbia] della Divisione degli Avvocati della Federalist Society, del 15 novembre 1985, che costituisce il terzo capitolo (pp. 71-79), si articola in quattro punti. Nel primo egli difende l’accessibilità, attraverso i materiali storici, al significato originario della Costituzione. Come dice Meese, “la Costituzione non è sepolta nella notte dei tempi. Noi conosciamo un’enorme quantità di dati storici sulle sue origini” (p. 72). Nel secondo punto egli richiama l’attenzione sulla chiarezza e sulla univocità del testo costituzionale nella gran parte delle sue prescrizioni, tali da escludere la necessità del ricorso all’interpretazione evolutiva. Questo rilievo sposta il fuoco della dottrina “originalista” dalla giurisprudenza orientata all’intenzione originale alla giurisprudenza del significato originale (4). Nel terzo punto Meese sottolinea che il principio fondamentale della Costituzione statunitense è l’autogoverno del popolo, cui la Costituzione impone ben pochi limiti. Pretendere un’unica regola per tutti gli Stati dell’Unione federale nordamericana, senza quelle sfumature e quei compromessi che possono essere introdotti attraverso le leggi, conduce a conseguenze rovinose. L’esempio più nefasto di questo centralismo totalitario è, secondo Meese, la codificazione, per tutti gli Stati dell’Unione, grazie alla sentenza Roe v. Wade del 1973, di un “diritto” nazionale all’aborto: errore amaro e portatore di frutti avvelenati. Nel quarto punto Meese mette in luce l’errore di fondo della giurisprudenza basata su un concetto astratto di diritto e di dignità umana. Che la Corte Suprema sia stata in grado di promuovere la “dignità umana” — come ritenuto da Brennan — è affermazione che si dimostra falsa in base alla carneficina di più di trenta milioni di vite innocenti, provocata dalla proclamazione generale del diritto individuale alla privacy con la sentenza nel caso Roe v. Wade, che ha introdotto il codice nazionale del “diritto” all’aborto. Una giurisprudenza attivistica, che àncora la Costituzione soltanto alla coscienza dei giuristi, rischia di essere una giurisprudenza camaleontica, che cambia colore e forma in ogni epoca.
5. Il quarto capitolo contiene il Discorso alla Scuola di Diritto dell’Università di San Diego (pp. 83-94), in California, del 18 novembre 1985, pronunciato da Robert Heron Bork, giurista, professore di Diritto e saggista. Noto per essere fra i fondatori dell’”originalismo”, ha esercitato molta influenza sui giudici conservatori, in particolare su William Hubbs Rehnquist (1924-2005) e Antonin G. Scalia. La sua critica contro l’attivismo della Corte Suprema sottolinea il rischio per la democrazia americana di essere governata da una classe di giuristi non eletta e non rappresentativa, che non applicano altra legge se non la loro. Bork, di cui è stato pubblicato in Italia Il giudice sovrano (5), ha ottenuto un grande successo nello studio delle leggi anti-trust, dimostrando che esse agiscono contro l’interesse dei consumatori, incoraggiando una costosa forma di protezione per inefficienti e non competitive piccole attività d’imprese (6). Egli, nominato da Reagan giudice della Corte Suprema, sostenne coraggiosamente la causa dell’”originalismo” nelle audizioni per la conferma a giudice supremo e fu bocciato ingiustamente dal Senato a cagione della sua posizione scientifica (7). Bork difese, poi, la causa dell’”originalismo” nella sua fondamentale opera The Tempting of America: The political Seduction of the Law, “La tentazione degli Stati Uniti d’America. La seduzione politica della legge” (8).
I punti essenziali del discorso di Bork sono i seguenti. Il dilemma della democrazia sta nel rapporto fra il potere della maggioranza e la libertà della minoranza. In questo quadro è compito della classe dei giudici proteggere energicamente i diritti degl’individui, ma al contempo essere scrupolosi nel non negare il legittimo diritto di governare alla maggioranza. A questo scopo la via migliore consiste nella presa d’atto che la Costituzione è una legge, composta di parole che astringono i giudici allo stesso modo in cui astringono i legislatori, i governanti e i cittadini. Le previsioni costituzionali non soltanto proteggono diritti individuali, ma contengono anche limiti imprescindibili per il buon governo della società. La presenza di tali limiti implica che pure l’autorità del giudice dev’essere limitata. Se così non fosse e il potere dei giudici si estendesse al di là delle aree loro assegnate da specifiche clausole della Costituzione, allora non vi sarebbe legge diversa dalla volontà del giudice e la legge sarebbe la volontà del giudice. Una situazione del genere non sarebbe legittima in democrazia. Se si dicesse che la Costituzione non è una legge, ma un compito che spetta alla filosofia morale completare, si consegnerebbe il potere di governare alle particolari predilezioni morali dei giudici della Corte Suprema.
6. Il quinto capitolo contiene il discorso pronunciato dal presidente Reagan il 26 settembre 1986, in occasione de L’investitura alla Casa Bianca di William H. Rehnquist come presidente della Corte Suprema e la nomina a giudice della stessa di Antonin Scalia (pp. 95-97).
L’importante discorso si può compendiare in tre punti. Reagan anzitutto esalta gli Stati Uniti d’America come il luogo della libertà, paese speciale, popolato da un popolo speciale, con una speciale missione nel mondo. Alla base della nazione e della sua vita politica sta la Costituzione, con il particolare ruolo assegnato alla Corte Suprema dai Fondatori. In secondo luogo, però, Reagan sottolinea che anche il potere della Corte Suprema, pur forte e indipendente, dev’essere confinato rigorosamente nei limiti della Costituzione scritta e delle leggi. La Costituzione, infatti, è forte in virtù dell’azione corale di un popolo che si rende attivo politicamente attraverso un sistema di controlli e di bilanciamenti fra i poteri dello Stato e non attraverso azioni unilaterali della Corte Suprema.
Infine Reagan, lodando espressamente Rehnquist e Scalia per il loro orientamento giudiziario di self-restraint, di “autolimitazione”, dichiara di averli nominati perché essi avevano dimostrato con il loro operato piena fedeltà all’idea fondamentale dei Padri Fondatori, che gli Stati Uniti d’America fossero guidati da un governo in cui i vari poteri si bilanciassero fra loro, poiché le libertà americane si sarebbero preservate soltanto grazie alla cooperazione reciproca dei vari poteri. La preservazione delle libertà è inscritta nell’insieme del sistema costituzionale, che postula che nessuna componente del governo si erga sopra l’altra. “E per questo motivo il potere giudiziario dev’essere indipendente. Ma per lo stesso motivo deve esercitare il suo potere in modo restrittivo” (p. 97).
7. L’intervento di Meese alla Tulane University di New Orleans, in Louisiana, il 21 ottobre 1986, The Law of the Constitution, “Il diritto della Costituzione federale” — il sesto capitolo del volume (pp. 99-109) — completa il quadro degl’interventi di principio sull’”originalismo”. Anzitutto il ministro della Giustizia fa eco al discorso del presidente Reagan predisponendo la base per un vigoroso attacco al diritto creato dalla Corte Suprema in base alle decisioni sul singolo caso. Il popolo degli Stati Uniti d’America ha dato il suo consenso soltanto al testo della Costituzione scritta e non alla giurisprudenza della Corte Suprema. Per Meese occorre distinguere fra la Costituzione e il diritto costituzionale. La Costituzione è lo strumento grazie al quale il consenso del governato, come requisito fondamentale di ogni governo legittimo, è trasformato in un governo strutturato per agire in vista del bene di tutti in modo saggio e responsabile. Fanno parte della Costituzione il principio federalistico, la separazione dei poteri, il bicameralismo, la rappresentanza, un esteso spazio di libertà commerciale, un esecutivo energico e un potere giudiziario indipendente. Tutti questi strumenti nel loro insieme formano la struttura della forma popolare di governo e garantiscono i diritti del popolo. La Costituzione, intesa in questo modo, è, secondo le sue parole, “la legge suprema del Paese” (p. 102).
Il diritto costituzionale, invece, è quella parte del diritto che scaturisce dalle decisioni della Corte Suprema intese a risolvere i casi e le controversie che, di volta in volta, si presentano davanti a essa. Se è vero che, da un punto di vista quantitativo, le decisioni della Corte costituiscono un tessuto normativo molto più esteso della Costituzione, da un punto di vista sostanziale questo tessuto non deve sommergere la Costituzione da cui è derivato. Le decisioni della Corte Suprema non possono essere considerate come l’ultima parola nella costruzione dell’impianto costituzionale e, pertanto, non devono necessariamente determinare il futuro della politica pubblica. Peraltro, l’interpretazione costituzionale non è compito soltanto della Corte, ma altresì di tutte le varie articolazioni in cui si manifesta il governo degli Stati Uniti d’America. Tanto l’esecutivo quanto il legislatore, non meno che il giudiziario, hanno il dovere d’interpretare la Costituzione nell’eseguire le loro funzioni ufficiali, come è contemplato nel giuramento pronunciato all’atto di preposizione all’ufficio per ciascun soggetto che assume compiti pubblici.
8. Il settimo capitolo, Pubblico dibattito di esperti sull’originalismo e gl’innumerevoli diritti costituzionali (pp. 113-150), inaugura la seconda parte del volume. Esso è dedicato al rapporto fra la dottrina dell’”originalismo” e i diritti di tipo costituzionale non specificamente enumerati nel testo costituzionale.
Alla discussione, moderata da Diane P. Wood, giudice della Corte di Appello degli Stati Uniti d’America per il Settimo Circuito, hanno preso parte Suzanna Sherry, Herman O. Loewenstein Professor of Law alla Vanderbilt University di Nashville, nel Tennessee, l’avvocato Walter E. Dellinger, il ricercatore John C. Harrison della University of Virginia School of Law, di Charlottesville, Lino A. Graglia, A. Dalton Cross Professor alla University of Texas School of Law, di Austin, e il giudice Michael W. McConnell.
Il tema è d’importanza centrale. Basti pensare che le peggiori aberrazioni della Corte Suprema stanno nelle decisioni che hanno “scoperto” diritti non previsti specificamente dalla Costituzione. Così, per limitarci a due esempi, evocati nel corso della discussione, la Corte Suprema “scoprì” nel caso Dred Scott v. Sandford del 1857 che il diritto d’importare schiavi era protetto dalla clausola del giusto processo di cui al V Emendamento alla Costituzione federale; e nel caso Roe v. Wade la Corte ha “scoperto” il “diritto” all’aborto nella clausola del giusto processo di cui al XIV Emendamento alla stessa Costituzione.
La posizione “originalista” è nel volume ben rappresentata dal professor McConnell. Contro la voracità dei diritti insaziabili, tale posizione è restrittiva. Possono annoverarsi fra i diritti costituzionali soltanto quei pochi diritti non espressamente menzionati, che sono così profondamente radicati nella storia e nella tradizione da essere stati ininterrottamente oggetto di riconoscimento giudiziale fin dal 1868. Ovviamente non appartiene a questa categoria di diritti il cosiddetto “diritto” alla privacy e, conseguentemente, non sussiste alcun “diritto” all’aborto, scoperto come sottospecie del “diritto” alla privacy sulla propria vita individuale. Il punto è fondamentale e mette in luce il carattere storico e concreto dei diritti, cui fecero riferimento i Padri Fondatori, del tutto opposto al carattere astratto dei diritti promulgati nelle Costituzioni approvate in Francia durante il periodo della Rivoluzione del 1789. McConnell definisce bene le due posizioni contrapposte. Da un canto la posizione di coloro per i quali, in assenza di una norma costituzionale derivata dal testo della Costituzione, oppure dall’esperienza e dalla tradizione per un lungo periodo di tempo, non vi sono “diritti” degl’individui contrari alle leggi. Né la Corte Suprema né le Corti minori hanno l’autorità di soppiantare le decisioni assunte democraticamente dai rappresentanti del popolo. Da un altro lato, la posizione di coloro per i quali il linguaggio aperto della Costituzione dà ai giudici lo spazio di libertà per decidere, in base alle loro opinioni circa la “moralità politica” (p. 132), di quali diritti gli americani dovrebbero godere. Ciò secondo un approccio che McConnell definisce di “filosofia morale” (p. 132). Soltanto la prima posizione offre la garanzia che non siano abbattute le leggi secondo il desiderio dei giudici di promuovere il cambiamento sociale.
9. L’ottavo capitolo, Pubblico dibattito di esperti sull’originalismo e il pragmatismo (pp. 151-197), costituisce il frutto di una discussione, moderata da Douglas H. Ginsburg, giudice della Corte di Appello degli Stati Uniti d’America per il Circuito del Distretto di Columbia, sul rapporto fra la dottrina “originalista” e il pragmatismo. Con quest’ultimo termine è denominata la posizione di quanti seguono l’interpretazione del testo costituzionale in modo consequenzialista, in funzione, cioè, del risultato pratico derivante dall’applicazione della legge. Come bene osserva Calabresi nell’introduzione al volume, una Corte Suprema i cui giudici decidono i casi in funzione del risultato non assomiglia ad altro che a un Comitato di Salute Pubblica della Francia rivoluzionaria costituito da nove membri. Peraltro, come ancora sostiene Calabresi, consentire ai giudici di comportarsi come uomini politici significa sostenere una posizione contraria al vero concetto di pragmatismo, poiché i giudici non hanno la competenza di fare politica o di giudicare le conseguenze delle leggi sulla base di un’interpretazione condotta necessariamente in funzione della soluzione relativa a un singolo caso. Essi, infatti, hanno un numero d’informazioni ben minore di quello a disposizione dei parlamentari, poiché non partecipano ad audizioni, non visitano i distretti territoriali e non intrattengono rapporti con gli esperti. Essi vivono un’“esistenza isolata” (p. 26) e traggono le loro informazioni in forma stilizzata da pareri legali ovvero “dalla lettura degli editoriali del New York Times” (ibidem).
Nel capitolo ottavo la difesa — pragmatica — dell’”originalismo” contro il pragmatismo inteso come consequenzialismo è svolta approfonditamente da John Oldham McGinnis, professore alla Northwestern University School of Law di Chicago, e da Michael B. Rappaport, professore all’University of San Diego Law School. Gli autori abbandonano, come non decisivi, gli argomenti abitualmente usati dagli “originalisti” per combattere il consequenzialismo. Così è per l’argomento che vuole il perseguimento dell’obiettivo voluto dai Fondatori, perché tale obiettivo potrebbe non essere più desiderabile. Così è per l’argomento che l’”originalismo” è capace di meglio preservare la struttura democratica dello Stato, perché è lo stesso “originalismo” a pretendere talora che i giudici abbattano talune norme. Così è per l’argomento che l’”originalismo” costringe il giudice al rispetto di regole più chiare rispetto ad altri approcci interpretativi, giacché dottrine non “originaliste” sono in grado talora di dettare regole più stringenti che non la dottrina dell’originale significato.
McGinnis e Rappaport traggono l’argomento, a loro avviso decisivo, a difesa dell’”originalismo” dalla natura delle norme costituzionali, che posseggono un grado superiore rispetto alle leggi ordinarie. La Costituzione è formata da un complesso di norme rigide, siccome emanate in forza di “adeguate regole supermaggioritarie” (p. 166). In particolare, il meccanismo delle norme “blindate”, tipico delle norme costituzionali, è desiderabile perché garantisce una struttura di governo rispettosa del processo di decisione politica, dei diritti individuali e di altri obiettivi benefici, con ciò garantendo il valore della stabilità politica. Inoltre, la Costituzione e i suoi Emendamenti sono stati approvati con regole appropriatamente “supermaggioritarie” e, per questo motivo, le norme “blindate” tendono a essere desiderabili.
Quest’ultimo argomento — la desiderabilità e la vantaggiosità di una Costituzione stabile — impone che i giudici interpretino il documento scritto secondo il suo significato originale perché i costituenti usarono soltanto quel significato nell’adottare previsioni di tipo costituzionale. In sostanza, l’argomento “originalista” si basa sul rilevante vantaggio offerto dalla presenza al centro dell’ordinamento di una Costituzione rigida e stabile. Onde le regole strettamente “supermaggioritarie”, che governano l’approvazione della Costituzione, la rendono “socialmente desiderabile” (p. 167). Peraltro, se è vero che la dottrina del significato originario mantiene fermo il dato normativo approvato dai Fondatori, essa ben riconosce che ogni generazione, e quindi anche la generazione attuale, possa modificare il testo costituzionale, ampliando la sfera dei diritti soggettivi o cambiando il rapporto fra i poteri dello Stato. Senonché, come la Costituzione originaria venne a esistenza attraverso stringenti regole “supermaggioritarie”, allo stesso modo ogni nuova generazione può emendare la Costituzione attraverso un tipo di regole simili a quelle originariamente adottate, che rispettino il principio “supermaggioritario” (p. 174). L’anticipazione per via giudiziaria di questo processo emendativo è piena di pericoli. Anzitutto la Corte è incapace d’individuare proprio la legge che sarebbe emersa dal processo emendativo, perché è difficile comprendere quale tipo di consenso avrebbe accompagnato il processo “supermaggioritario”. In secondo luogo, la Corte non è in grado di limitare la portata delle sue decisioni a quella che sarebbe capace di ottenere un probabile consenso politico. Infine, la prospettiva che i giudici della Corte Suprema possano loro stessi modificare evolutivamente il tessuto normativo rende più difficile ottenere il consenso su un emendamento, giacché i legislatori hanno il timore che una successiva Corte, improntata a un atteggiamento di attivismo giudiziario, potrà destrutturare l’accordo raggiunto in sede parlamentare con la formulazione di un nuovo testo costituzionale.
10. Il nono capitolo concerne un Pubblico dibattito di esperti sull’”originalismo” e il precedente giudiziario (pp. 199-252). La discussione, moderata dallo stesso curatore dell’opera, Calabresi, è incentrata sul problema circa il ruolo che dovrebbe giocare il precedente nella dottrina “originalista”. Ci s’interroga, in altri termini, in ordine al fatto se il precedente ponga all’”originalismo” una difficoltà maggiore rispetto a quella che insorge nei confronti delle altre teorie dell’interpretazione. La posizione “originalista”, sostenuta da Calabresi in un importante intervento nel corso del dibattito, è fortemente contraria alla regola dello stare decisis, cioè del rispetto dei precedenti, nei casi giudiziari. Il testo della Costituzione, il suo significato originario, la pratica immediata dei Fondatori, la consuetudine formatasi a partire dalla rivoluzione del sistema giudiziario federale promossa nel 1937 dal presidente degli Stati Unbiti df’Aamerica Franklin Delano Roosevelt (1882-1945) al 2005, nonché ulteriori argomenti di carattere politico raccomandano fortemente di attenersi alla Costituzione scritta e non alle decisioni di cinque giuristi, probabilmente ormai collocati a riposo per l’età o addirittura defunti. Come ben ricorda Calabresi, gli argomenti a favore del rispetto della stretta regola dello stare decisis sono i seguenti: 1. valorizza il ruolo della legge; 2. preserva la continuità con il passato; 3. riflette un appropriato scetticismo circa i poteri della ragione umana; 4. accresce l’attitudine a legiferare in modo democratico; 5. promuove l’autocontrollo giudiziario. Calabresi, esaminando i cinque argomenti sul filo della sentenza Roe v. Wade, dimostra che, al fine di ottenere i cinque vantaggi enumerati, è meglio non attenersi alla regola dello stare decisis. La promozione di tale regola di diritto implicherebbe, infatti, di cassare, e non di mantenere, il precedente di Roe v. Wade. Poiché lo sguardo di una legge costituzionale dev’essere rivolto agli assetti di lungo periodo, sembra preferibile per la stabilità del diritto tener conto della tradizione centenaria che bandisce l’aborto piuttosto che mantenere stabilità e consistenza a un precedente datato pochi decenni, oggetto di serie e gravi controversie fin dal giorno della sua introduzione. Quanto al valore espresso dalla continuità del presente con il passato, esso è maggiormente rispettato con la cancellazione della sentenza Roe v. Wade. Sullo scetticismo circa i poteri della ragione umana, anche a questo riguardo si deve sostenere che un ragionevole scetticismo induce a cancellare Roe v. Wade, poiché è più ragionevole affidarsi alla tradizione dei popoli, che ha sempre vietato l’aborto fin dal primo momento in cui si è venuti a conoscenza dell’esistenza di una nuova vita umana, piuttosto che all’opinione espressa nel 1973 da Harry Blackmun (1908-1999), giudice della Corte Suprema dal 1970 al 1994, autore dell’opinione di maggioranza nella sentenza del 1973 Roe v. Wade, che rovesciò le leggi restrittive dell’aborto negli Stati Uniti d’America e dichiarò l’aborto protetto sotto il “diritto” costituzionale alla privacy.
Quanto al significato di un modo di legiferare responsabilmente democratico, cancellare Roe v. Wade significherebbe null’altro che ridare ai Parlamenti di cinquanta Stati la libertà di dichiarare legale o illegale l’aborto, con tutte le regole intermedie di divieto limitato che possono essere contemplate grazie all’esperienza e alla prudenza dei legislatori. Dunque, è conforme a un esercizio responsabilmente democratico del legiferare cancellare Roe v. Wade e non mantenerla in vigore. Infine, anche il principio dell’autocontrollo dei giudici raccomanderebbe di cancellare Roe v. Wade. Invero, cancellarla implica un minor numero d’invalidazioni di leggi statali e federali che regolamentano l’aborto, quando è evidente che l’attivismo giudiziario sta proprio nell’abbattere leggi democraticamente approvate e costituzionalmente ammissibili.
11. Il decimo capitolo è dedicato al Dibattito sul significato originario della Commerce Clause, della Spending Clause e della Necessary and Proper Clauses (pp. 253-285). Queste clausole attengono al ruolo che il governo federale può giocare nei vari campi del diritto e dell’economia, erodendo il potere di legiferare e di governare dei singoli Stati. A partire dal periodo del New Deal (1933-1937) — osserva nel suo intervento Randy E. Barnett, Carmack Waterhouse Professor of Legal Theory al Georgetown University Law Center, di Washington — la Commerce Clause, la Necessary and Proper Clause e la Taxation Clause sono state utilizzate per espandere il potere federale. L’aspirazione degli “originalisti” sarebbe di ritornare al significato originario della Costituzione, allo scopo di limitare il potere federale. Tuttavia è discutibile, almeno stando all’opinione di Michael S. Paulsen, Briggs and Morgan Professor alla University of Minnesota Law School, di Minneapolis, che pure si proclama un sostenitore del significato “originario” e del “testualismo”, che la Costituzione limiti veramente i poteri conferiti al governo federale. Invero, per quanto tali poteri siano individuati in modo specifico nel testo costituzionale, essi sarebbero vastissimi, quasi illimitati, se sono interpretati fino alle loro logiche conseguenze. L’enumerazione, infatti, consente al governo federale di operare come se fosse nella realtà proprio il governo di un potere legislativo di ordine generale. I poteri d’imporre tasse, di spesa, di regolare il commercio, di muovere guerre, di vietare agli Stati azioni che limitano le libertà individuali, soprattutto se combinati con il potere illimitato di approvare leggi “necessarie e proporzionate” (p. 29), a dare esecuzione agli altri poteri, tutte queste competenze danno vita a un governo federale dotato di prerogative costituzionali veramente enormi.
Sul punto, di estrema importanza per la Federalist Society, che vorrebbe ridare spazio alle competenze dei singoli Stati contro l’espansione del governo e della legislazione federale, la stessa dottrina “originalista” sembra ancora non aver raggiunto un consenso condiviso. Se è vero, infatti, che l’espansione dei poteri federali è de facto sopravvenuta in epoca relativamente recente, soprattutto a partire dal periodo del New Deal, e che lo spirito originario della Costituzione intendeva lasciare ampio spazio all’autonomia dei singoli Stati, è anche vero che appare difficile ricavare dal testo una limitazione precisa dei poteri federali. Come sottolinea Calabresi nell’introduzione al volume, è comunque importante che sia messo in luce come l’interpretazione delle parole “necessarie e proporzionate” non è lasciata dalla Costituzione al Congresso isolatamente considerato e, tanto meno, alla maggioranza di cinque giudici della Corte Suprema, che finirebbero per applicare la loro personale idea circa ciò che è “necessario e proporzionato”. Il significato di tali parole deve dipendere, in ultima analisi, da quanto il popolo americano pensa debba essere il significato dell’opera del governo federale, impedendo che lo stesso, in aperta violazione del principio di sussidiarietà, legiferi sugli stessi terreni su cui già i singoli Stati legiferano e su temi in cui già sono in grado di agire in modo adeguato.
12. L’undicesimo capitolo (pp. 287-315), significativamente intitolato Radicals in Robes, “Radicali in toga”, è dedicato a esaminare la fondatezza dell’accusa, mossa agli “originalisti”, in generale dagli ambienti liberal e, specificamente, da Cass R. Sunstein, professore all’University of Chicago Law School, che interviene nel dibattito con l’avvocato Charles J. Cooper, sotto la guida del medesimo Calabresi.
Secondo i liberal la dottrina “originalista” condurrebbe a risultati catastrofici, soprattutto in tema di diritti civili e di diritti delle donne. Le ragionate risposte a Sunstein di Cooper nel corso del dibattito e di Calabresi nell’introduzione fanno emergere chiaramente le ragioni profonde della lotta acerrima che la giurisprudenza liberal muove contro l’”originalismo”.
Questa dottrina, invero, ha inteso costruire, con il richiamo al significato originario della Costituzione, un muro protettivo a favore della libertà americana, intesa come libertà positiva, fondata sull’autoresponsabilità della persona umana, sulla sua autonomia e sulla sua capacità di porre in essere le condizioni per il benessere e per la libertà di tutti. L’autonomia del cittadino americano non sta nella libertà di creare regole nuove contrarie ai Comandamenti di Dio e alla legge naturale eterna inscritta nel cuore dell’uomo, bensì nella consapevole accettazione di queste regole perché intimamente capaci di promuovere la libertà e il bene della persona.
Illuminanti sono al riguardo le osservazioni di Calabresi nella parte conclusiva della sua introduzione, che trascrivo integralmente: “L’elenco che Sunstein espone circa le cose orribili cui a suo avviso dovrebbe condurre l’originalismo può rifiutarsi per ogni aspetto, eccetto che per la sua dichiarazione che l’”originalismo” significherebbe la fine del cosiddetto diritto alla privacy. Prima di concludere, però, lasciatemi menzionare alcune buone conseguenze che scaturirebbero dall’adozione dell’”originalismo”. Questo Paese starebbe meglio con più federalismo e con più decentralizzazione […]. Staremmo meglio con un Presidente che avesse più potere nel gestire la burocrazia. Noi abbiamo bisogno di un esecutivo unitario che i Fondatori ci raccomandarono di avere e non di un regime di burocrati federali a vita. Noi staremmo meglio se non avessimo abortito un milione di bambini all’anno come abbiamo fatto dal 1973 in avanti. Ciò renderebbe anche la nostra società più giusta. Noi staremmo meglio se gli studenti potessero pregare e leggere la Bibbia nella scuola pubblica e se la tavola dei Dieci Comandamenti potesse essere affissa nei luoghi pubblici. La religione è necessaria nella vita pubblica e sociale. Noi staremmo meglio se i cittadini potessero impegnarsi nel dibattito pubblico contribuendo nella misura desiderata all’indicazione dei candidati per gli uffici pubblici. I limiti attuali alla contribuzione per i candidati ai pubblici uffici sono assurdamente troppo bassi. Noi staremmo meglio se potessimo far crescere il frumento nelle nostre fattorie senza intrusioni federali […]. Milioni di americani sono stati vittime di crimini grazie alle strambe idee della Corte presieduta da Warren [Earl (1891-1974)] (9) in ordine all’applicazione della legge penale. Noi staremmo meglio se le nostre case non potessero essere confiscate da estimatori che agiscono in combutta con il governo statale e locale. La proprietà privata è un diritto centrale del libero vivere individuale in una società libera. Noi staremmo meglio se i governi statali non approvassero leggi che indeboliscono la forza obbligatoria dei contratti. La libertà contrattuale è anche un diritto centrale degl’individui liberi” (pp. 39-40).
13. Occorre ancora ricordare che il volume contiene una prefazione del giudice della Corte Suprema Antonin G. Scalia (pp. 43-45), che è stato, insieme con il giudice della stessa Corte Clarence Thomas, un coraggioso difensore dei valori tradizionali nei lunghi anni del suo impegno giudiziario; un indirizzo di saluto di Meese rivolto nel 2005 ai giuristi della Federalist Society (pp. 317-331) e i Pensieri conclusivi di Olson, che mette in luce l’enorme cammino compiuto, dal 1982 al 2005, dalla Federalist Society nella promozione di un’interpretazione del diritto maggiormente rispettosa dei testi scritti e dei valori che la legislazione contiene, nonché meno soggetta alle seduzioni e alle pressioni dei contesti in cui ruotano le lobby votate alla disgregazione morale, amplificate da un’irresponsabile e inarrestabile propalazione mass-mediatica.
14. La recensione dell’opera Originalism: A Quarter Century of Debate vuole aprire anche in Italia un dibattito che ferve negli Stati Uniti d’America da almeno un quarto di secolo e che ha trovato in Bork, in Scalia e in Thomas i suoi protagonisti più autorevoli e conosciuti. Gli obiettivi essenziali per cui è sorta e si è strutturata la dottrina dell’”originalismo” sono integralmente condivisibili. Da un lato, la forte proclamazione che il consenso dei governati sta alla base del potere dei governi e che a tale fondamento non può sostituirsi il richiamo, da parte di una piccola élite di giudici, a valori morali vaghi e indefiniti, che pretendono di modellare la dignità umana secondo il cangiante desiderio di libertà individuali irresponsabili e illimitate. Da un altro lato, e in conseguenza della giusta messa a punto della sottoposizione anche dei giudici alla legge e alla Costituzione scritta, l’affermazione dell’essenzialità del bilanciamento dei poteri dello Stato e la rivalutazione del potere legislativo e, soprattutto, del potere di governo, che è direttamente e ineludibilmente chiamato alla sfida della promozione del bene comune dell’intera società. Da ultimo, come tema ancora più importante, la dottrina “originalista” è particolarmente apprezzabile perché ricerca una fondazione oggettiva della dignità umana e dei diritti individuali e dei gruppi sociali, tentando di superare l’individualismo anomico e l’utilitarismo sfrenato che caratterizzano la maggior parte delle dottrine contemporanee sui diritti individuali.
Vi sono certamente molti problemi aperti, che meriterebbero un’approfondita disamina. Ne cito soltanto due. Il primo riguarda il problema dell’interpretazione del diritto. Si tratta di un tema immenso, che non può essere risolto dal semplice richiamo “originalista” al testo e al suo significato originario. Il merito storico dell’”originalismo” è comunque grande, perché ha ribadito il principio fondamentale che il contesto non può sommergere e annullare il testo. Un secondo aspetto riguarda la fondazione della dignità umana e dei diritti individuali. Il richiamo alla Costituzione nel suo significato originario addita l’esigenza imprescindibile che il diritto trascenda il fatto, trovando la sua origine e piantando le proprie fondamenta nell’autorità degli Antichi. Il trascendimento del fatto episodico e il richiamo agli Antichi è cosa buona, ma non sufficiente a fornire al diritto la sua pienezza veritativa. Nel pensiero di Giambattista Vico (1668-1744) è centrale la dialettica fra il vero e il certo, fra la filosofia e la filologia, fra la ragione e l’autorità, e si tratta di una dialettica costruttiva, in cui i due termini non sono in contrasto fra loro, ma cooperano reciprocamente alla crescita intellettuale, morale e pratica dell’uomo, dal momento che il vero senza il certo rischia di smarrirsi rapidamente. Ebbene, nel suo linguaggio potrebbe dirsi che il certo — che è possibile ritrovare con maggior sicurezza nel testo degli Antichi che nella mente dei giudici illuminati — deve coniugarsi con il vero, che la metafisica e la legge morale sono definitivamente capaci di offrire alla contemplazione di coloro che cerchino realmente di diventare iurisprudentes (10).
Mauro Ronco
Note
(1) Cfr, Steven G. Calabresi (a cura di), Originalism: A Quarter-Century of Debate, con Foreword del giudice della Corte Suprema Antonin Scalia, Regnery Publishing, Inc., Washington D.C. 2007. Tutti i riferimenti fra parentesi nel testo rimandano a quest’opera.
(2) Cfr. A. Scalia, A Matter of Interpretation: Federal Courts and the Law, Princeton University Press, Princeton, New Jersey, 1997, pp. 1-47.
(3) Cfr. la critica all’idea della “Costituzione vivente”, “The living Constitution”, ibid., , pp. 37-47.
(4) Cfr. ibid., pp. 1-47.
(5) Cfr. Robert Heron Bork, Coercing Virtue: The worldwide rule of judge, Random House, Mississauga (Canada) 2002 (trad. it., Il giudice sovrano, a cura di Serena Sileoni, Liberilibri, Macerata 2006).
(6) Su questo tema cfr., fondamentale, Idem, The Antitrust Paradox. A Policy at war with itself, with a new introduction and epilogue, The Free Press, New York 1993.
(7) Sul “caso Bork”, cfr. Marco Respinti, Nei pensatoi d’America arriva la carica dei theocon(servative), in Il Foglio quotidiano, anno VIII, n. 258, Roma 19-9-2003.
(8) Cfr. R. H. Bork, The Tempting of America: The political Seduction of the Law, The Free Press, New York 1990.
(9) Earl Warren fu Presidente della Corte Suprema dal 1953 al 1969. È stato il promotore primario di un ruolo attivistico della Corte, usando il suo potere per raggiungere risultati asseritamente di progresso sociale.
(10) Cfr. la posizione di questa dialettica, in Giambattista Vico, De universi iuris uno principio et fine uno, De opera proloquium, Definitiones veri et certi, in Idem, Opere giuridiche. Il diritto universale, introduzione di Nicola Badaloni (1925-2005), a cura di Paolo Cristofolini, Sansoni Editore, Firenze 1974, pp. 17-343 (p. 34).