di Marco Invernizzi
100 anni fa nasceva il Partito Popolare Italiano, fondato a Roma con l’“Appello ai liberi e forti” dal sacerdote siciliano don Luigi Sturzo (1871-1959). Era una svolta importante nella storia del Movimento cattolico giacché poneva fine alla tradizione unitaria e non partitica della presenza pubblica dei cattolici dopo l’occupazione militare di Roma nel 1870 da parte dello Stato italiano, che aveva soppresso lo Stato della Chiesa. Quindi non più Unione elettorale, non più Patto Gentiloni (al quale Sturzo era stato particolarmente avverso) e invece un programma politico democratico, che escludeva i cattolici conservatori.
Il partito nasceva aconfessionale con il tacito placet della Santa Sede, ma durò veramente lo spazio di un mattino. Solo tre anni dopo, nel 1922, la Marcia su Roma segnò l’inizio dell’iter che portò nel 1925 allo Stato autoritario voluto dal fascismo, il quale prevedeva l’uscita di scena di tutti i partiti che non fossero quello fascista. La Santa Sede, con il Segretario di Stato, il card. Pietro Gasparri (1852-1934), e con l’approvazione di Papa Pio XI (1857-1939), optò per un compromesso con il regime fascista nascente in vista dei Patti Lateranensi che, dieci anni dopo, nel 1929, avrebbero posto fine alla ferita aperta dal Risorgimento nei rapporti fra Stato e Chiesa. Don Sturzo venne così sacrificato e costretto all’esilio. Quando ritornò dopo la fine del fascismo e della Seconda guerra mondiale (1939-1945), don Sturzo scelse di non entrare nella Democrazia Cristiana, fondata nel 1943, e combatté una battaglia solitaria come senatore a vita contro la degenerazione statalista del partito di ispirazione cristiana. Il suo nome tornò sulle prime pagine quando, nel 1952, diede vita alla famosa “operazione Sturzo” voluta dal Venerabile Papa Pio XII (1876-1958) per dare alla città di Roma una presenza politica dei cattolici sicuramente anticomunista e non più legata alla DC. Ma quest’ultima, come si sa, riuscì a impedirla e a “sconfiggere” gli stessi desideri di Papa Pacelli.
La parabola politica del sacerdote di Caltagirone ha una certa importanza. Don Sturzo non aveva colto, a mio avviso, la portata rivoluzionaria della Grande Guerra del 1914-1918 (alla cui partecipazione da parte italiana era stato favorevole in una prospettiva moderatamente nazionalista) e non riteneva importante il carattere di processo della Rivoluzione cominciata nel 1789, per cui volle il PPI più vicino ai socialisti che ai moderati e conservatori liberali. Tuttavia la storia (ai cui segnali era attentissimo) lo costrinse nel secondo dopoguerra a un ripensamento, che lo portò a identificare nello Stato, che cresceva e che occupava la società ponendo sempre più limiti alla sussidiarietà, la principale causa del malessere che avrebbe portato l’Italia (e l’Occidente) a derive sempre peggiori. Così è forse nei suoi studi di sociologia e di dottrina sociale che andrebbero ricercati i contributi più preziosi della sua vita pubblica, piuttosto che nella fondazione del PPI per la quale invece viene sempre ricordato.
Parlare oggi di don Sturzo, cento anni dopo la nascita del PPI, è spesso l’occasione per chiedersi quale contributo debbano dare i cattolici alla vita pubblica del Paese. E in molti rispunta sempre il desiderio di un altro “partito cattolico”.
Posto che il desiderio ha un significato positivo perché testimonia la volontà che la fede diventi cultura e dia visibilità a una presenza politica (pur con i limiti dottrinali della proposta democratico cristiana), tuttavia mi sembra non tenere conto di quanto il laicismo sia penetrato nel corpo sociale nel corso di questi cento anni. Se nel 1919 i cattolici erano ancora la maggioranza di una società governata prima da liberali e poi, dopo il 1922, dai fascisti, oggi i cattolici praticanti rappresentano, secondo gli studiosi, circa il 15% della popolazione e oltretutto sono fra loro divisi. Si aggiungano pure quelli che comunque, anche se non praticanti, si riconoscono nella visione del mondo che propone la Chiesa, ma resta sempre una minoranza. Una minoranza importante, certo, ma che rimane tale.
Questo non significa essere favorevoli a una “scelta religiosa” che porti i cattolici a disimpegnarsi dalla vita politica, come fu teorizzato negli anni 1960 e 1970 per nascondere in realtà una scelta a favore di quelle forze politiche che allora sembravano vincenti. Al contrario, bisogna spingere i cattolici a impegnarsi in politica, come sostiene Papa Francesco, ricordando loro che “fare politica” non coincide con il “fare un partito”. Fare politica oggi significa mobilitare i cattolici sulle grandi questioni antropologiche in discussione, sia andando in piazza come con i Family Day, sia operando nelle scuole, nelle amministrazioni comunali, nella cultura e in generale nella società per trasformare quest’ultima in un “mondo migliore”.
Significa però, ancora prima, assumere la mentalità missionaria delle minoranze, che si rendano finalmente conto di vivere in un mondo che muore, nel quale la dottrina sociale della Chiesa è la novità per un futuro migliore, non l’espressione di un passato che non c’è più.
Venerdì, 18 gennaio 2019