Un «cuore di padre» per un mondo che rifiuta la paternità. E’ iniziato l’Anno di San Giuseppe
di Michele Brambilla
L’8 dicembre 2020, a 150 anni esatti dal decreto Quemadmodum Deus, con il quale il beato Pio IX (1846-78) proclamava san Giuseppe, sposo della Beata Vergine Maria, patrono universale della Chiesa, Papa Francesco ha promulgato la lettera apostolica Patris corde.
La lettera inizia con una constatazione: «con cuore di padre: così Giuseppe ha amato Gesù, chiamato in tutti e quattro i Vangeli “il figlio di Giuseppe”». Erano soprattutto gli abitanti di Nazareth ad apostrofare il Messia in questo modo, ma nella realtà dei fatti san Giuseppe è sempre stato una persona schiva, che rifiutava gli onori mondani: «i due Evangelisti che hanno posto in rilievo la sua figura, Matteo e Luca, raccontano poco, ma a sufficienza per far capire che tipo di padre egli fosse e la missione affidatagli dalla Provvidenza. Sappiamo che egli era un umile falegname (cfr Mt 13,55), promesso sposo di Maria (cfr Mt 1,18; Lc 1,27); un “uomo giusto” (Mt 1,19), sempre pronto a eseguire la volontà di Dio manifestata nella sua Legge (cfr Lc 2,22.27.39)».
San Giuseppe è molto discreto: non dice una sola parola, ma è determinante soprattutto nei momenti più travagliati dell’infanzia di Gesù. Al termine dell’episodio di Lc 2,41-50 (il ritrovamento di Cristo dodicenne tra i dottori del Tempio) esce silenziosamente di scena. Come riconosce però il Pontefice, «dopo Maria, Madre di Dio, nessun Santo occupa tanto spazio nel Magistero pontificio quanto Giuseppe, suo sposo. I miei Predecessori hanno approfondito il messaggio racchiuso nei pochi dati tramandati dai Vangeli per evidenziare maggiormente il suo ruolo centrale nella storia della salvezza: il Beato Pio IX lo ha dichiarato “Patrono della Chiesa Cattolica”, il Venerabile Pio XII lo ha presentato quale “Patrono dei lavoratori” e San Giovanni Paolo II come “Custode del Redentore”. Il popolo lo invoca» anche «come “patrono della buona morte”» perché fu assistito, nel momento del trapasso, dai migliori intercessori in assoluto: il Figlio di Dio e l’Immacolata.
Ora, 150 anni dopo Papa Mastai Ferretti, tocca a Francesco, che sottolinea gli esempi di paternità che il nostro tempo pandemico consegna alla storia: «[…] medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo». Il Sessantotto ha dato all’uomo postmoderno l’illusione dell’autodeterminazione assoluta, ma il Covid-19 ha dimostrato concretamente che una monade capricciosa non è in grado di andare da nessuna parte.
Ecco allora la riproposizione del modello di san Giuseppe, di cui il Pontefice evidenzia gli elementi principali. Anzitutto è un «padre amato», che dà e riceve amore. Gesù rispettò sempre il padre adottivo e anche il popolo cristiano nutre da secoli una devozione particolare per san Giuseppe, che fu prefigurato in Giuseppe figlio di Giacobbe: «la fiducia del popolo in San Giuseppe è riassunta nell’espressione “Ite ad Ioseph”, che fa riferimento al tempo di carestia in Egitto quando la gente chiedeva il pane al faraone ed egli rispondeva: “Andate da Giuseppe; fate quello che vi dirà” (Gen 41,55). Si trattava di Giuseppe figlio di Giacobbe, che fu venduto per invidia dai fratelli (cfr Gen 37,11-28) e che – stando alla narrazione biblica – successivamente divenne vice-re dell’Egitto (cfr Gen 41,41-44). Come discendente di Davide (cfr Mt 1,16.20), dalla cui radice doveva germogliare Gesù secondo la promessa fatta a Davide dal profeta Natan (cfr 2 Sam 7), e come sposo di Maria di Nazareth, San Giuseppe è la cerniera che unisce l’Antico e il Nuovo Testamento».
San Giuseppe è anche «padre nella tenerezza». Oggi i maschi vengono associati solamente alla brutalità e alla prevaricazione (la cosiddetta “mascolinità tossica”), mentre «Giuseppe avrà sentito certamente riecheggiare nella sinagoga, durante la preghiera dei Salmi, che il Dio d’Israele è un Dio di tenerezza, che è buono verso tutti e “la sua tenerezza si espande su tutte le creature” (Sal 145,9)». Nell’educare Gesù bambino, san Giuseppe è l’emblema dell’autentica virilità e testimone dell’infinita misericordia di Dio Padre: infatti, «come il Signore fece con Israele, così egli “gli ha insegnato a camminare, tenendolo per mano: era per lui come il padre che solleva un bimbo alla sua guancia, si chinava su di lui per dargli da mangiare” (cfr Os 11,3-4)». Il Papa invita i padri terreni a non scoraggiarsi di fronte ai loro difetti, dato che «la storia della salvezza si compie “nella speranza contro ogni speranza” (Rm 4,18) attraverso le nostre debolezze. Troppe volte pensiamo che Dio faccia affidamento solo sulla parte buona e vincente di noi, mentre in realtà la maggior parte dei suoi disegni si realizza attraverso e nonostante la nostra debolezza», sulla quale fa leva il diavolo per tentarci. Mentre «il Maligno ci fa guardare con giudizio negativo la nostra fragilità, lo Spirito invece la porta alla luce con tenerezza».
Francesco osa citare un’altra parola che è invisa alla cultura dominante, l’obbedienza. «In ogni circostanza della sua vita, Giuseppe seppe pronunciare il suo “fiat”, come Maria nell’Annunciazione e Gesù nel Getsemani. Giuseppe, nel suo ruolo di capo famiglia, insegnò a Gesù ad essere sottomesso ai genitori (cfr Lc 2,51), secondo il comandamento di Dio (cfr Es 20,12)», e «nel nascondimento di Nazareth, alla scuola di Giuseppe, Gesù imparò a fare la volontà del Padre. Tale volontà divenne suo cibo quotidiano (cfr Gv 4,34)» anche nel momento della prova suprema, la Passione.
Del resto, lo stesso san Giuseppe fu chiamato ad accogliere positivamente gli imprevisti: «tante volte, nella nostra vita, accadono avvenimenti di cui non comprendiamo il significato. La nostra prima reazione è spesso di delusione e ribellione. Giuseppe lascia da parte i suoi ragionamenti per fare spazio a ciò che accade e, per quanto possa apparire ai suoi occhi misterioso, egli lo accoglie, se ne assume la responsabilità e si riconcilia con la propria storia» perché, come Giobbe, intuisce nelle sue vicende la mano della Provvidenza.
Occorre precisare che «Giuseppe non è un uomo rassegnato passivamente. Il suo è un coraggioso e forte protagonismo. L’accoglienza è un modo attraverso cui si manifesta nella nostra vita il dono della fortezza che ci viene dallo Spirito Santo. Solo il Signore può darci la forza di accogliere la vita così com’è, di fare spazio anche a quella parte contraddittoria, inaspettata, deludente dell’esistenza. La venuta di Gesù in mezzo a noi è un dono del Padre, affinché ciascuno si riconcili con la carne della propria storia anche quando non la comprende fino in fondo». «Torna ancora una volta», dice il Pontefice, «il realismo cristiano, che non butta via nulla di ciò che esiste», non si scoraggia eccessivamente e non insegue l’utopia: «lungi da noi allora il pensare che credere significhi trovare facili soluzioni consolatorie. La fede che ci ha insegnato Cristo è invece quella che vediamo in San Giuseppe, che non cerca scorciatoie, ma affronta “ad occhi aperti” quello che gli sta capitando» con un certo «coraggio creativo».
In proposito, il Papa invita a domandarsi «[…] se stiamo proteggendo con tutte le nostre forze Gesù e Maria, che misteriosamente sono affidati alla nostra responsabilità, alla nostra cura, alla nostra custodia. Il Figlio dell’Onnipotente viene nel mondo assumendo una condizione di grande debolezza. Si fa bisognoso di Giuseppe per essere difeso, protetto, accudito, cresciuto. Dio si fida di quest’uomo, così come fa Maria, che in Giuseppe trova colui che non solo vuole salvarle la vita, ma che provvederà sempre a lei e al Bambino. In questo senso San Giuseppe non può non essere il Custode della Chiesa, perché la Chiesa è il prolungamento del Corpo di Cristo nella storia, e nello stesso tempo nella maternità della Chiesa è adombrata la maternità di Maria. Giuseppe, continuando a proteggere la Chiesa, continua a proteggere il Bambino e sua madre, e anche noi amando la Chiesa continuiamo ad amare il Bambino e sua madre». Guardando san Giuseppe, «il lavoro» stesso «diventa partecipazione all’opera stessa della salvezza, occasione per affrettare l’avvento del Regno, sviluppare le proprie potenzialità e qualità, mettendole al servizio della società e della comunione; il lavoro diventa occasione di realizzazione non solo per sé stessi, ma soprattutto per quel nucleo originario della società che è la famiglia», di cui Francesco conferma la centralità.
Il Papa cita «lo scrittore polacco Jan Dobraczyński», che «nel suo libro L’ombra del Padre, ha narrato in forma di romanzo la vita di San Giuseppe. Con la suggestiva immagine dell’ombra definisce la figura di Giuseppe, che nei confronti di Gesù è l’ombra sulla terra del Padre Celeste: lo custodisce, lo protegge, non si stacca mai da Lui per seguire i suoi passi. Pensiamo a ciò che Mosè ricorda a Israele: “Nel deserto […] hai visto come il Signore, tuo Dio, ti ha portato, come un uomo porta il proprio figlio, per tutto il cammino” (Dt 1,31)».
L’ombra premurosa e protettiva del padre è quello che manca a troppi ragazzi contemporanei: «nella società del nostro tempo, spesso i figli sembrano essere orfani di padre. Anche la Chiesa di oggi ha bisogno di padri. È sempre attuale l’ammonizione rivolta da San Paolo ai Corinzi: “Potreste avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri” (1 Cor 4,15); e ogni sacerdote o vescovo dovrebbe poter aggiungere come l’Apostolo: “Sono io che vi ho generato in Cristo Gesù mediante il Vangelo” (ibid.). E ai Galati dice: “Figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché Cristo non sia formato in voi!” (Gal 4,19)». Il proliferare di tutor, educatori, sostegni psicologici e integratori alimentari è un palliativo, che rende ancora più evidente la mancanza della figura paterna. I padri di oggi tendono ad essere degli “amiconi” che sognano di specchiarsi nei figli, nel senso che li vorrebbero perfettamente conformi a sé stessi, mentre «essere padri significa introdurre il figlio all’esperienza della vita, alla realtà. Non trattenerlo, non imprigionarlo, non possederlo, ma renderlo capace di scelte, di libertà, di partenze. Forse per questo, accanto all’appellativo di padre, a Giuseppe la tradizione ha messo anche quello di “castissimo”. Non è un’indicazione meramente affettiva, ma la sintesi di un atteggiamento che esprime il contrario del possesso. La castità è la libertà dal possesso in tutti gli ambiti della vita. Solo quando un amore è casto, è veramente amore».
Appare allora assolutamente provvidenziale l’idea di dedicare a san Giuseppe un intero anno. Il Papa sigilla la lettera con un’invocazione al santo e consiglia a tutti i fedeli cattolici una preghiera che è solito inserire all’interno della liturgia delle Ore: «tutti i giorni, da più di quarant’anni, dopo le Lodi, recito una preghiera a San Giuseppe tratta da un libro francese di devozioni, dell’Ottocento, della Congregazione delle Religiose di Gesù e Maria, che esprime devozione, fiducia e una certa sfida a San Giuseppe: “Glorioso Patriarca San Giuseppe, il cui potere sa rendere possibili le cose impossibili, vieni in mio aiuto in questi momenti di angoscia e difficoltà. Prendi sotto la tua protezione le situazioni tanto gravi e difficili che ti affido, affinché abbiano una felice soluzione. Mio amato Padre, tutta la mia fiducia è riposta in te. Che non si dica che ti abbia invocato invano, e poiché tu puoi tutto presso Gesù e Maria, mostrami che la tua bontà è grande quanto il tuo potere. Amen”».
Mercoledì, 9 dicembre 2020