Victorino Rodríguez y Rodríguez O.P., Cristianità n. 118 (1985)
Una problematica sollevata dalla «teologia della liberazione», affrontata dal VI Sinodo dei Vescovi e risolta nella esortazione apostolica Post-sinodale Reconciliatio et paenitentia del regnante Pontefice.
Una magistrale messa a punto
Peccato individuale e peccato collettivo
Nel corso del VI Sinodo dei Vescovi, che si è tenuto a Roma nell’ottobre del 1983, si è manifestata preoccupazione per il peccato collettivo e sociale e per il peccato strutturale. Giovanni Paolo II, nel discorso di chiusura, ha compendiato questa problematica. «Se si può e si deve parlare in senso analogico di peccato sociale, ed anche di “peccato strutturale” – giacché il peccato è propriamente un atto della persona – per noi, in quanto pastori e teologi nasce il problema seguente: quale penitenza e quale riconciliazione sociale debbono corrispondere a questo peccato “analogico”» (1).
Il peccato morale individuale e la coscienza di esso – come «atto umano cattivo», «un fatto, una parola, un desiderio contrari alla legge divina», «una offesa a Dio» – sono vecchi quanto l’umanità, come Adamo, Eva e Caino. Non mi accingo ad affrontare in questa occasione l’autenticità e la profondità e la diversa responsabilità personale del peccato individuale: peccato del bambino, peccato dell’adulto; peccato del credente, peccato dell’agnostico; sentimento normale di colpa, sentimento deformato di colpevolezza, ecc. Fisserò l’attenzione sul peccato sociale o collettivo e sul peccato strutturale in rapporto con il peccato individuale.
Con peccato sociale o collettivo intenderemo non tanto il peccato con cui l’individuo aggredisce la società – rubando, danneggiando, scandalizzando oppure ingannando il pubblico – quanto il peccato di solidarietà attiva o di collaborazione al male. Come esiste la solidarietà nell’operare il bene – si pensi alla interazione dei membri del Corpo Mistico -, esiste la solidarietà tenebrosa nel peccato, sotto la istigazione dello spirito del male.
Anche questo peccato ha una lunga storia. La Bibbia ci racconta il peccato collettivo di Sodoma e di Gomorra e il suo tremendo castigo divino. Il Vangelo registra la condanna collettiva, democratica, di Gesù: «E tutto il popolo rispose dicendo: il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli» (2). San Paolo, nel primo capitolo della lettera ai romani, fa un racconto raccapricciante del peccato collettivo della gentilità e delle sue conseguenze disumanizzanti.
Nel mondo moderno hanno fatto la loro comparsa società e istituzioni programmaticamente immorali, «intrinsecamente perverse», opposte alla legge naturale e alla Chiesa di Cristo. Basti pensare alla massoneria e al comunismo, a fronte delle ultime dichiarazioni della Chiesa. Negli Stati democratici dei nostri giorni non è raro che il parlamento emani leggi settarie, contrarie alla morale naturale e alla dottrina cattolica: statalizzazione dei beni di produzione e dell’insegnamento, proibizione del culto pubblico, divorzio, aborto, eutanasia, contraccezione: sono peccati strutturali.
Ebbene, l’atto collegiale dei parlamentari che legiferano contro la legge divina, la cospirazione contro la Chiesa dei membri di società segrete, il permissivismo intollerabile di pubblica immoralità tanto da parte di chi gestisce la cosa pubblica come da parte del pubblico compiacente oppure inibito, venire a compromessi con la frode, con la menzogna e con il crimine, favorire e collaborare alla instaurazione di un sistema di vita incompatibile con la dignità dell’uomo e con la professione della fede cristiana: tutto questo e altre piaghe sociali similari chiamiamo peccato collettivo.
Esso include, inoltre, il peccato di ingiustizia sociale in senso stretto – accaparramento ingiusto di beni da parte di alcuni pochi, trascuratezza sociale dei bisognosi di beni e di occupazione, scioperi «selvaggi» e fannullaggine -, ma comprende molti altri disordini sociali e teologici come quelli che ho appena enumerato. Il peccato strutturale fa piuttosto riferimento alle istituzioni – leggi, statuti, costumi – nei quali sono soliti cristallizzarsi i peccati collettivi.
Da quanto ho esposto risulta assolutamente chiaro che il peccato collettivo è più di una generalizzazione logica del peccato individuale, ed è qualcosa di molto diverso dalla semplice somma dei peccati individuali. Si tratta di un peccato qualitativamente diverso dal peccato individuale e, in genere, più grave di esso, a causa della sua efficacia corruttrice, della sua permanenza storica e della attenuazione del senso morale della vita che porta con sé. I legislatori decadono oppure muoiono, ma le leggi inique rimangono; cessa il crimine politico, ma rimane il deterioramento del bene comune; si snerva la coscienza morale della società e si perde il senso del peccato insieme al senso di Dio, ragione ultima dell’ordine morale.
Il liberalismo, cioè il libertinismo, ha sempre avuto la propensione a privatizzare la responsabilità morale, lasciando la politica ai margini della morale. Quando Giovanni Paolo II parlava ai presidenti dei parlamenti europei di una «etica parlamentare» aveva le sue buone ragioni (3).
Peccano, o possono peccare anche molto gravemente, il parlamento, lo Stato, la città – come Corozain e Betsaida, Cafarnao e Babilonia – e la società; cioè, peccano i parlamentari, gli uomini di Stato, i cittadini, i membri della società, formalmente in quanto tali, cioè non soltanto come persone private, ma anche come persone pubbliche, cooperatori e corresponsabili del bene comune e del male comune.
Le azioni e le omissioni, anche quelle comuni, sono certamente da attribuire alle persone o individui – actiones sunt suppositorum -, ma la persona è agente responsabile non solamente delle azioni individuali, ma anche delle azioni compiute solidalmente con altri, che, per il fatto di essere di tutti in comune, non cessano di essere di ciascuno. Pensare che l’azione politica oppure l’azione sociale sia eticamente neutra o non regolabile, significherebbe disumanizzare la politica e la vita sociale, significherebbe cadere in una antropologia solipsistica, che misconosce la dimensione sociale della persona. Per la stessa ragione per cui la giustizia sociale è specificamente diversa dalla giustizia individuale e più urgente di questa, in virtù del primato del bene comune sul bene individuale, la ingiustizia sociale – una delle realizzazioni del peccato collettivo -, nei suoi due versanti, quello oggettivo e quello soggettivo, è specificamente diversa dalla ingiustizia individuale e più grave di essa.
Ma non si deve neppure ridurre il peccato personale a quello collettivo, come se esistesse soltanto il peccato collettivo nella sua concretizzazione di peccato di ingiustizia sociale, intesa unicamente come oppressione di quanti sono economicamente potenti sui poveri proletari ed emarginati. La sostituzione della persona da parte della società nel sistema marxistico si è fatta sentire ultimamente nella impropriamente definita «teologia della liberazione» latinoamericana – ma di origine europea! -, che ci offre una concezione esclusivamente sociologica del peccato.
«A questo punto si impone – dice Hugo Assmann – il passaggio da una concezione individualistica del peccato a un’altra, sociale e strutturale» (4).
«Che cosa è il peccato? – si chiede Juan Luis Segundo, e risponde: – Il contrario della grazia […]: grazia è unità popolare; peccato, non collaborare con essa» (5).
La dottrina cristiana non è compatibile con questo riduzionismo. Ogni peccato è, anzitutto, personale e teologico; e in molti casi è, inoltre, collettivo. Dico in molti casi, e non in tutti, perché esistono azioni buone oppure cattive totalmente intime e personali, il cui valore Dio solo misura, perché, come dice san Tommaso in un testo meraviglioso, «l’uomo non è ordinato alla società civile in forza di tutto il proprio essere, e di tutti i suoi beni: e quindi non è necessario che ogni suo atto sia meritorio o demeritorio in ordine alla società civile. Invece l’uomo, in tutto quello che forma il suo essere, il suo potere e il suo avere, dice ordine a Dio: e quindi ogni atto umano, buono o cattivo, ha un merito o un demerito presso Dio, per quanto esso vale come atto» (6). Si tratta del teocentrismo della morale cristiana, nel quale non entrano né il marxismo ateo né l’antropocentrismo chiuso e opaco della «teologia della liberazione».
Giovanni Paolo II sta attirando l’attenzione su questo movimento pendolare dalla riduzione privatistica del peccato per opera del liberalismo, alla riduzione collettivistica per opera del socialismo. Nella omelia tenuta nella basilica di San Pietro il 15 dicembre 1983, avvertiva che «è una cosa giusta che oggi si faccia più attenzione alla dimensione sociale del peccato. Ma sarebbe pericoloso se il concetto del «peccato collettivo» dovesse offuscare la responsabilità morale propria e personale di ciascuno di noi» (7).
Come evitare la responsabilità personale del peccato collettivo?
Si deve evitare di partecipare al peccato collettivo. «È inevitabile che avvengano scandali, ma guai all’uomo per colpa del quale avviene lo scandalo!» (8). Non puoi evitare che vi siano spettacoli immorali? Ebbene, rifiuta di frequentarli. Non puoi prendere parte democraticamente a elezioni non fondate? Ebbene, opponiti con il voto oppure astieniti dal votare. Il parlamentare si rende conto che un progetto di legge è contrario alla sua coscienza? Ebbene, faccia valere il dettame della sua coscienza oppure, se è necessario, rinunci all’incarico. Nella tua clinica si pratica l’aborto? Ebbene, astieniti dal cooperare, anche se perdi clientela oppure ti giochi il posto, perché «è meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, che avere due mani o due piedi ed essere nel fuoco eterno» (9). L’affare che ti propongono è indecente? Ebbene, non prendere parte a esso e non favorire il suo successo.
È difficile riparare il peccato collettivo. Proprio questo aspetto costituisce una delle sue aggravanti. È più facile mettersi insieme per realizzare il peccato collettivo che mettersi d’accordo nella conversione o nella ritrattazione e riparare il male fatto. È più facile disfare che rifare. Alla fine dei tempi, nel giudizio di Dio, si coglieranno le ripercussioni storiche dei grandi peccati collettivi. Frattanto «convertitevi e desistete da tutte le vostre iniquità, e l’iniquità non sarà più causa della vostra rovina. Liberatevi da tutte le iniquità commesse e formatevi un cuore nuovo e uno spirito nuovo. Perché volete morire, o Israeliti?» (10).
In ordine a una assoluzione sacramentale più coscientemente vissuta, nella intimità della persona, è auspicabile la celebrazione comunitaria della penitenza – esame speciale dei peccati collettivi di omissione oppure di commissione, suppliche di perdono, penitenza comune – con la assoluzione personale incorporata al rito.
All’inizio ho fatto riferimento al discorso pronunciato da Giovanni Paolo II in chiusura del VI Sinodo dei Vescovi. Prima di pubblicare questo breve commento sulla rivista Cristianità ho potuto leggere la interessantissima esortazione apostolica del Papa intitolata Reconciliatio et paenitentia e pubblicata a Roma il 2 dicembre 1984, alla quale rimando il lettore per una maggiore chiarificazione, specialmente a proposito di quei punti di dottrina cattolica sul peccato che vengono correntemente intesi male oppure travisati da parte di scrittori ecclesiastici. Sottolineo i seguenti:
a. Senso teologico di ogni peccato, come disubbidienza e offesa a Dio, contro la teoria, già condannata dalla Chiesa nel 1690, del «peccato filosofico», il quale, benché grave, non sarebbe mai mortale e non offenderebbe Dio. Pio XII dovette respingere nuovamente, nella enciclica Humani generis, del 1950, l’idea di un peccato non teologico; e ora Giovanni Paolo II insiste su questa nota essenziale di ogni peccato (11). Già nella bolla Aperite portas Redemptori, del 6 gennaio 1983, aveva scritto: «Occorre riscoprire il senso del peccato e per giungere a ciò occorre riscoprire il senso di Dio! Il peccato è, infatti, un’offesa recata a Dio giusto e misericordioso, che richiede di essere convenientemente espiata in questa o nell’altra vita» (12).
b. Senso personale del peccato: «ogni peccato è personale sotto un aspetto; sotto un altro aspetto, ogni peccato è sociale, in quanto e perché ha anche conseguenze sociali» (13). In senso proprio chi pecca è la persona, non il gruppo e neppure la struttura sociale, benché anche la persona pecchi socialmente in un triplice senso: in quanto pecca solidalmente in comunione di peccato con gli altri; in quanto pecca contro la società ledendo i diritti altrui; oppure in quanto si scontrano diverse comunità umane. Non si deve intendere il peccato sociale in senso spersonalizzato, attribuendolo alla società, non alla persona (14).
c. Non si può sostituire la classica suddivisione del peccato in mortale-veniale oppure in grave-lieve, con la classificazione tripartita in mortale-grave-lieve, e neppure ridurre il peccato mortale alla opzione fondamentale, come se non si potesse commettere un peccato mortale con un solo atto (15).
d. Il grande peccato moderno della perdita del senso di Dio e del peccato viene attribuito principalmente a questi cinque fattori: al «secolarismo», all’ansia di caricare sulla società le colpe della persona, al relativismo storicistico, alla pretesa di ridurre il peccato a un sentimento morboso oppure alla semplice trasgressione di precetti legali, a un certo lassismo dottrinale di alcuni teologi e operatori pastorali, che trascurano di formare le coscienze nella verità (16).
A proposito della doppia denominazione di peccato sociale e di peccato collettivo, penso che la seconda esprima meglio la solidarietà attiva nel male, mentre la prima evoca più efficacemente il termine passivo della ingiustizia: peccato della società e peccato contro la società.
Victorino Rodríguez y Rodríguez O.P.
Note:
(1) GIOVANNI PAOLO II, Discorso di chiusura della VI assemblea generale del Sinodo dei Vescovi, del 27-10-1983, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. VI, 2, pp. 906-907.
(2) Mt. 27, 25.
(3) Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai Presidenti dei Parlamenti europei, del 26-11-1983, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, cit., p. 1189.
(4) HUGO ASSMANN, Conciencia cristiana y situaciones extremas en el cambio social, in AA.VV., Fe cristiana y cambio social en América Latina, Sigueme, Salamanca 1973, p. 343.
(5) JUAN LUIS SEGUNDO S.J., Las élites latinoamericanas, ibid., p. 209.
(6) SAN TOMMASO DI AQUINO, Summa theologiae, Ia-IIae, 21, 4 ad 3.
(7) Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Omelia alla messa per gli universitari e gli uomini di cultura nella Basilica Vaticana, del 15-12-1983, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, cit., p. 1367.
(8) Mt. 18, 7.
(9) Ibid., 18, 8.
(10) Ez. 18, 30-31.
(11) GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica post-sinodale Reconciliatio et paenitentia, del 2-12-1984, nn. 14 e 18.
(12) IDEM, Bolla Aperite portas Redemptori, del 6-1-1983, n. 8.
(13) IDEM, Esortazione apostolica Post-sinodale Reconciliatio et paenitentia, cit., n. 15.
(14) Cfr. ibid., n. 16.
(15) Cfr. ibid., n. 17.
(16) Cfr. ibid., n. 18.