Leonardo Gallotta, Cristianità n. 407 (2021)
2021. Settecento sono gli anni trascorsi dalla morte di Dante Alighieri (1265-1321), avvenuta in Ravenna il 14 settembre 1321. Anno dantesco, dunque, con tante iniziative in diverse città, innanzitutto a Firenze, dove nacque, poi a Verona, dove fu ospite degli Scaligeri, signori della città, e a Ravenna dove, accolto dai signori del luogo, i Da Polenta, finì i suoi giorni e dove riposano attualmente le sue spoglie mortali, ma anche Roma, Arezzo, Pisa, Bologna, Forlì e altre ancora. Nel 2019, il 25 marzo è poi diventato ufficialmente il «Dantedì» — e così sarà quest’anno — perché proprio il 25 marzo del 1300, «nel mezzo del cammin di nostra vita» (Inferno I,1), Dante fissò l’inizio della sua discesa agli Inferi. Anche Cristianità, nel primo numero del 2021, vuole dunque rendere omaggio al Sommo Poeta.
I due più importanti documenti pontifici del secolo XX su Dante sono l’enciclica In praeclara summorum di Benedetto XV (1914-1922) per il sesto centenario della morte (1) e la lettera apostolica Altissimi cantus di san Paolo VI (1963-1978), scritta in occasione del settimo centenario della nascita, avvenuta a Firenze nel 1265 (2). Tale documento fu pubblicato su Cristianità nel 1999 (3).
Paolo VI — come scrive la filologa Valentina Merla (4) — mostra in diversi momenti del suo pontificato e attraverso vari modi un amore particolare per l’Alighieri. Un amore soprattutto per la Commedia, che lascia una scia profonda non solo nei documenti del suo magistero, ma anche nelle numerose attività e iniziative atte a tributare al poeta i dovuti onori, approfittando dell’anno centenario della nascita. Il Pontefice, per esempio, fece dono di una Croce d’oro per la tomba di Dante a Ravenna «[…] quale segno di omaggio all’artista che vide risplendere, nel fulgore del suo Paradiso, la Croce di Cristo con i Martiri della Fede cristiana» (5). Ma forse ancor più significativo fu il dono della corona di alloro dorata, con incastonato il monogramma di Cristo, che il Pontefice offrì al battistero di San Giovanni Battista della cattedrale fiorentina di Santa Maria del Fiore, il «bel San Giovanni» (Inferno XIX, 17) citato da Dante, alla presenza dei Padri conciliari e del Segretario di Stato cardinale Amleto Giovanni Cicognani (1883-1973), il 14 novembre 1965. Si tenga presente che il battistero fiorentino era luogo d’investitura di cavalieri e di poeti, come ricorda Dante nel Paradiso (XXV, 7-8): «con altra voce omai, con altro vello / ritornerò poeta e in sul fonte / del mio battesmo prenderò il cappello». Il Pontefice volle in quel modo offrire a Dante quella laurea poetica che egli mai ebbe dai suoi concittadini e con il monogramma di Cristo significare la piena e sicura appartenenza cattolica di Dante che proprio in quel battistero divenne cristiano. Ma nell’Altissimi cantus l’omaggio a Dante si amplia in modo mirabile. Si noti che il giorno prima della chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) il Pontefice donò a tutti i Padri conciliari una pregevole copia della Divina Commedia accompagnata da un volumetto illustrato con miniature del ’400 e con dedica in latino: «Divini poematis vatis summi vereque ecumenici / Quod veritatem nos tam extollentem / mirus mire concinit» (6).
Orbene, nell’Altissimi cantus dice all’inizio Paolo VI che «Dante Alighieri è nostro per un diritto speciale: nostro, cioè della religione cattolica, perché tutto spira amore a Cristo; nostro, perché amò molto la Chiesa, di cui cantò gli onori; nostro, perché riconobbe e venerò nel Romano Pontefice il Vicario di Cristo in terra» (n. 9). Come mai, ci si potrebbe chiedere, questa rivendicazione di appartenenza così forte? Lo stesso Pontefice ricorda i canti e le terzine in cui la voce del poeta risuonò contro alcuni Papi romani e altri personaggi dell’alto clero accusati di vizi deplorevoli, Bonifacio VIII (1294-1303) in primis, e tuttavia Dante condannò l’episodio di Anagni — il famoso «schiaffo» — ordito proprio a danno di quel Pontefice e mai il suo animoso temperamento scosse la sua ferma fede cattolica e la sua filiale affezione verso la Santa Madre Chiesa. Non si può tuttavia sottacere che Dante, non tanto per la Divina Commedia, quanto per il De monarchia, non fu mai molto amato dai vertici della Chiesa, anzi osteggiato per aver formulato la teoria «dei due soli» (7), vale a dire che Papato e Impero derivavano entrambi direttamente da Dio, mentre in ambito ecclesiastico, al contrario, vigeva la teoria di «sol et luna» (8) — secondo la decretale Per venerabilem del marzo del 1202 di Papa Innocenzo III (1198-1216) — per cui il Papato era il sole, che brilla di luce propria, mentre l’Impero era la luna, che brilla di luce riflessa.
È vero, tuttavia, che Dante non parlò mai di separazione fra le due istituzioni, ma di distinzione delle finalità, spirituali per il Papato e attinenti alla vita sociale per l’Impero, fatta sempre salva la riverenza dovuta al Papa per la sua indiscussa autorità come Vicario di Cristo. L’ostilità durò comunque per un bel periodo, se si tien conto che il trattato fu inserito nell’Indice dei libri proibiti nel 1564 e vi rimase fino al 1881, quando per volere e merito di Leone XIII (1878-1903) il titolo dantesco fu escluso dall’Indice (9).
Sta di fatto che nel secolo XIX la classe dirigente politica e intellettuale vide in Dante un profeta dell’Unità d’Italia e addirittura un fautore dello Stato unitario e un padre della nazione, considerandolo un laicista anti-papale e anti-cattolico, rivendicato come tale da coloro che avevano promosso e fatto il Risorgimento, cosa che contribuì ad alimentare il clima feroce di opposizione culturale che contrassegnava l’Italia unita (10).
Ancora nel 1921, sesto centenario della morte di Dante, a Ravenna si costituirono due comitati, uno cattolico e uno «laico». La Civiltà Cattolica, in un articolo apparso anonimo, riportò le parole di un laicista anticlericale: «Laici contro chierici: ecco il vero significato della festa dantesca. Voi chierici suonerete le vostre campane; noi laici canteremo le terzine di Dante; voi chierici sarete gli arcivescovi Ruggieri, noi laici i conti Ugolini della Gherardesca» (11). Il brano rende bene il clima di chiusura e di acerbo contrasto che caratterizzava le due anime interpretative di quegli anni (12). E così risulta ben comprensibile la rivendicazione di appartenenza cattolica di Dante da parte di Benedetto XV nell’enciclica In praeclara summorum. Se alle rivendicazioni politico-culturali del laicismo italiano si aggiungono poi le interpretazioni esoteriche di Dante — tanto per ricordare alcuni nomi: Giosuè Carducci (1835-1907), Giovanni Pascoli (1855-1912), Luigi Valli (1878-1931), Gabriele Rossetti (1783-1854) e René Guénon (1886-1951) —, ben si comprendono le parole di rivendicazione cattolica anche da parte di Paolo VI.
Stabilita la sua sicura appartenenza cattolica, il Pontefice sostiene che nel contempo il poema è un’opera di poesia e di religione, opponendosi così a quanti hanno sostenuto che la Divina Commedia non fosse poetica quando e dove è teologica (13), e polemizzando, anche se non esplicitamente, con Benedetto Croce (1866-1952), che aveva sostenuto che le terzine teologiche non erano poesia. L’intento di Papa Montini è dunque quello di recuperare l’intero poema nella sua inscindibilità di teologia e di poesia.
L’epiteto di «segnor de l’altissimo canto» (Inferno, IV, 95), che troviamo nella Commedia,è attribuito da tutti i dantisti ad Omero. Secondo Valentina Merla, attribuendo lo stesso appellativo a Dante, Paolo VI vuol sottolineare che il poeta fiorentino rappresenta per la modernità quello che per l’antichità era il poeta greco, non solo in questo caso per lo stile, ma anche e soprattutto per la concezione della storia, e per il ruolo che l’elemento divino e religioso occupa nello svolgimento della narrazione (14).
«Certamente — scrive il Pontefice — il poema di Dante è universale: nella sua immensa larghezza abbraccia cielo e terra, eternità e tempo, i misteri di Dio e le vicende degli uomini, la dottrina sacra e le discipline profane, la scienza attinta alla divina Rivelazione e quella attinta dal lume della ragione, quanto egli aveva conosciuto per esperienza diretta e le memorie della storia, l’età in cui visse e le antichità greche e romane; insomma costituisce evidentemente il monumento più rappresentativo del Medioevo. E se si osserverà la sua forma e il suo contenuto, ci si vedranno certamente i frutti della sapienza degli orientali, del lògos dei Greci, della civiltà dei romani e vi si vedranno raccolte in sintesi le ricchezze del dogma della religione cristiana e dei precetti della legge, soprattutto così come furono elaborati dai dottori. Dante Alighieri segue Aristotele in filosofia, Platone nella tensione dell’intelletto a contemplare i modelli esemplari delle cose, Sant’Agostino nel modo di concepire la storia e nell’importanza che vi attribuisce, è alunno fermo e fedele di san Tommaso d’Aquino in teologia, così che la sua opera — fra l’altro — è quasi uno specchio costituito di frammenti della Somma teologica del Dottore Angelico. E questo è certamente vero in generale, ma tuttavia è anche vero che Dante è mosso non poco dall’autorità di sant’Agostino, di san Bernardo, dei Vittorini, di san Bonaventura, né è estraneo a qualche influsso apocalittico dell’abate Gioacchino da Fiore; è solito infatti protendersi verso cose che albeggiano o che, non ancora nate, sono contenute nel grembo del futuro» (15).
Il poema ha un fine? Secondo Paolo VI esso è innanzitutto rivolto a insegnare e a convertire e richiama ciò che dice Dante stesso nella lettera a Cangrande della Scala (1291-1329), signore di Verona: «[…] allontanare i viventi in questa vita dallo stato di miseria e condurli allo stato di felicità» (16). «Stando così le cose, la Divina Commedia può essere chiamata un itinerarium mentis in Deum, dalle tenebre della dannazione eterna alle lacrime della penitenza purificatrice e, di grado in grado, da una luminosa chiarezza a una ancor più lucente, da un amore fiammante a uno ancor più fiammante, su fino alla Fonte della luce, dell’amore e della dolcezza eterna: “Luce intellettual, piena d’amore: / amor di vero ben, pien di letizia: / letizia che trascende ogni dolzore” (Paradiso, XXX, 40-42)» (17).
In conclusione, vediamo perché Valentina Merla, per sintetizzare il giudizio di Papa Montini su Dante, usa l’espressione «poeta dei teologi, teologo dei poeti». Scrive Paolo VI: «Giovanni di Virgilio preparò per il sepolcro di Dante un epitaffio in cui così lo lodava: “Danteteologo, di nessuna dottrina ignaro, / che filosofia scaldi nel suo nobile seno”.
«Da questi egli è stato onorato soprattutto con il titolo di teologo. È prevalso, tuttavia — per consenso che non tardò a farsi unanime — l’appellativo di sommo poeta, con cui lo acclamarono i secoli; e divina è stata chiamata la sua Commedia.
«L’onore di entrambi i titoli gli si addice giustamente. E tuttavia non va considerato poeta, bensì teologo, ma ancor meglio va proclamato signore dell’altissimo canto, perché si rivelò teologo dalla mente sublime» (18).
E Dante oggi? Se il poema è universale, lo è anche la sua diffusione? Innanzitutto, per gli italiani Dante è padre, padre della lingua italiana, se è vero che il quindici per cento del lessico italiano odierno è stato utilizzato per la prima volta da Dante e oltre la metà del nostro lessico complessivo si trova anche in lui. E poi, ancora: con la Vita Nuova scrive il primo romanzo (autobiografico) della nostra letteratura, con le Rime amorose (ma anche filosofiche e politiche) eleva la lirica italiana a un livello mai raggiunto prima e con il Convivio fornisce il primo grande modello di prosa filosofico-scientifica in lingua volgare. Con il De vulgari eloquentia,inoltre, propone e difende l’uso della lingua nuova e stabilisce solidissimi canoni storico-letterari. Con la Commedia infine raggiunge l’apice di una gloria imperitura.
La sua fama, tuttavia, non è solo italica. Fino a qualche anno fa si annoveravano traduzioni integrali della Divina Commedia in cinquantotto lingue. Tanto per citarne alcune, oltre a quelle occidentali: il cinese, il turco, l’arabo, il persiano, il vietnamita, il nepalese, il giapponese, lo slovacco, l’armeno, il macedone e il kazako. Addirittura, si ebbe una traduzione in esperanto nel 1963 e nel 1997 quella in gaelico irlandese. Che dire infine del rapporto che nel Novecento ebbero con Dante numerosi e importanti letterati del mondo occidentale e non solo? Basti pensare soprattutto a due «giganti», Thomas Stearn Eliot (1888-1965) ed Ezra Pound (1885-1972), che nei confronti di Dante ebbero non solo stima, ma addirittura riverenza e amore smisurato (19).
Dante è il più grande poeta cristiano, non vi è dubbio. In tempo di «de-cristianizzazione», però, è sempre meno amato e studiato, anzi osteggiato proprio in quanto poeta cristiano e accusato di antisemitismo, «islamofobia» e «omofobia». Non si deve comunque disperare, ma Dante deve essere fatto conoscere di più, nel mondo cattolico soprattutto. Secondo Jean Guitton «la terra italiana, la terra di Virgilio, che ha germinato tanti geni nelle arti plastiche e figurative, non ha un artista comparabile a Dante. E Dante, inoltre, è l’unico poeta che forse meriti il nome di cattolico nella sua accezione più larga» (20).
Note:
(1) Cfr. Benedetto XV, Lettera enciclica «In praeclara summorum» ai diletti figli professori ed alunni degli istituti letterari e di alta cultura del mondo cattolico in occasione del VI centenario della morte di Dante Alighieri, del 30-4-1921.
(2) Cfr. Paolo VI, Lettera apostolica «motu proprio» «Altissimi cantus» in occasione del settecentesimo anno dalla nascita di Dante Alighieri, del 7-12-1965, trad. it., in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 31-12-1965.
(3) Cfr. Idem, «Il signore dell’altissimo canto»: Dante Alighieri, in Cristianità, anno XXVII, n. 294, ottobre 1999, pp. 23-29 e p. 32, alla cui traduzione redazionale ci atteniamo.
(4) Cfr. Valentina Merla, Papi che leggono Dante. La ricezione dantesca nel magistero pontificio da Leone XIII a Benedetto XVI, Stilo Editrice, Bari 2018, pp. 215-216.
(5) La Croce d’oro di Paolo VI sulla tomba di Dante, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 11-9-1965.
(6) Cit. in Jean Guitton (1901-1999), Dialoghi con Paolo VI,trad. it., Rusconi, Milano 1986, p. 141. «[Eccovi il testo] del divino poema di un vate sommo e veramente ecumenico, poiché, mirabile [poeta], mirabilmente cantò [quella] verità che tanto ci esalta».
(7) Cfr. Dante Alighieri, De monarchia, III, 16.
(8) Cit. in Friedrich Kempf S.J. (1908-2002), Regestum Innocentii III papae super negotio Romani imperii, Pontificia Università Gregoriana, Roma 1947, pp. 166-175 (p. 386, n. 179).
(9) Cfr. il mio Dante e la Monarchia universale, nel sito web <https://alleanzacattolica.org/dante-e-la-monarchia-universale> (gl’indirizzi Internet dell’intero articolo sono stati consultati il 27-2-2021).
(10) A proposito di ricorrenze, poco dopo l’Unità d’Italia vi furono festeggiamenti per il sesto centenario della nascita di Dante. Nel 1865 la ricorrenza fu solennemente celebrata a Firenze, appena diventata capitale del Regno d’Italia. Nulla di simile a quella celebrazione, ricorda Carlo Dionisotti (1908-1998) — cfr. Idem, Geografia e storia della letteratura italiana, Einaudi, Torino 1967) —, si era mai visto prima in Italia, né si vide poi. La miscellanea di studi di Gaetano Ghivizzani (1843-1903) sul tema Dante e il suo secolo (Cellini, Firenze 1865) occupava due volumi in folio di poco meno di mille pagine. Si stenta a credere che un’Italia appena costituita potesse produrre un tal monumento a stampa. Dionisotti — cfr. ibid., p. 280 — ci dice che i politici e gli intellettuali del tempo videro allora in Dante il «cemento» che doveva tenere unito un Paese con tradizioni estremamente diverse. Certo è che tutto quel fervore dantesco servì per dare inizio a quella campagna culturale che voleva fare di Dante il precursore e il padre dell’Italia risorgimentale. D’altronde, di lì a poco, nel 1870, vi sarebbe stata la «breccia di Porta Pia».
(11) Il sesto centenario della Divina Comedia di Dante, in La Civiltà Cattolica, anno LI, serie 17, vol. 9, fasc. 1191, 27-1-1900, pp. 359-360 (p. 360).
(12) Cfr. V. Merla, op. cit.,p. 72. Dante fu ghibellino? Tale fama deriva da un famoso epiteto per lui usato da Ugo Foscolo (1878-1927): «ghibellin fuggiasco» (cfr. il carme Dei sepolcri, 1807, v. 174). Ora Dante, finché rimase a Firenze, fu «guelfo bianco» — cioè i partigiani del Papa meno oltranzisti — e, tuttavia, dopo i tragici tentativi armati degli esiliati «bianchi» di rientrare in Firenze nei primissimi anni del 1300, si separò da loro così che nel Paradiso — cfr. XVII, vv. 68-69 —il suo trisavolo Cacciaguida degli Elisei (1091 ca.-1148 ca.) gli dirà: «[…] a te fia bello / averti fatto parte per te stesso». Da allora Dante non aderì a nessuna fazione. L’Impero, secondo lui, avrebbe dovuto essere una istituzione super partes volta a garantire una pace che ormai non si trovava più all’interno delle stesse città dilaniate dalle fazioni. Certo è che l’epiteto foscoliano fu indossato con convinzione nell’Ottocento dai laicisti italici in funzione anti-papale.
(13) Cfr. Paolo VI, «Il signore dell’altissimo canto»: Dante Alighieri, cit., nn. 53 e 54.
(14) Cfr. V. Merla, op. cit.,p. 228.
(15) Paolo VI, «Il signore dell’altissimo canto»: Dante Alighieri, cit., n. 17. Con il termine «Vittorini» il Pontefice si riferisce alla scuola filosofica, teologica e di diritto fondata nel 1108 da Guglielmo di Champeaux (1070-1121) nell’abbazia di san Vittore, presso Parigi.
(16) D. Alighieri, Epistola XIII, v. 15.
(17) Paolo VI, «Il signore dell’altissimo canto»: Dante Alighieri, cit., n. 19.
(18) Ibid., nn. 38-41.
(19) Cfr. il mio Dante il più grande, nel sito web <https://alleanzacattolica.org/dante-il-piu-grande>.
(20) J. Guitton, op. cit., p. 136.