don Dario Composta S.D.B., Cristianità n. 13 (1975)
Conferenza del professor don Dario Composta S.D.B. – ordinario di storia della filosofia antica e docente di filosofia del diritto presso la Pontificia Università Urbaniana, docente di filosofia presso la Pontificia Università Salesiana -, tenuta a Roma il 20 giugno 1975, presso la parrocchia di San Lorenzo in Lucina, nel corso di una manifestazione organizzata da Alleanza Cattolica.
INTRODUZIONE
Dell’aborto oggi si scrive e si parla assai. Non così un tempo, anche non remoto, quando tale tema veniva confinato ai margini delle discussioni dei moralisti e dei medici.
Per un aspetto ciò è bene: si tratta infatti di esplorare con saggezza le radici della nostra esistenza e le responsabilità umane di fronte a un evento mirabile quale è la vita, che supera ogni superficiale valutazione. Tutti noi che viviamo, ci riconosciamo coinvolti in tale dibattito.
È invece male che spesso non la fede e non la ragione, ma solo il sentimento o una visione errata della esistenza umana, si impossessino del problema e ne diano, conseguentemente, una soluzione erronea; e che spesso gli strumenti di comunicazione sociale si rendano complici veicoli di errori e di oscuramenti della morale cristiana e naturale.
La conferenza di questa sera intende fare appello alla fede e alla ragione. Ricordo agli uditori (che suppongo tutti cattolici, coerenti e obbedienti alla Chiesa) che anche recentemente il Magistero ha emanato alcuni, documenti sul tema: tale, ad esempio, la Dichiarazione della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede in data 18 novembre 1974, seguita da una precisazione di mons. Jéróme Hamer in data 7 dicembre 1974. Vi sono poi i documenti della Conferenza Episcopale Italiana emanati l’11 gennaio 1972, il 10 febbraio 1973, il 6 febbraio 1975. I vescovi di numerose nazioni, inoltre, sono intervenuti in questi ultimi mesi sul tema, condannando l’aborto procurato, riproponendo la tradizionale dottrina morale, insistendo sulla necessità che i cattolici non solo si attengano alle norme della Chiesa, ma si impegnino anche a farsi portatori dell’etica naturale e cristiana fronteggiando le erronee teorie che oggi si diffondono nel mondo.
Ovviamente, noi ci troviamo qui questa sera per prendere in esame tale dottrina e per acquistarne, se occorresse, una conoscenza più approfondita. Debbo però osservare che il tempo a nostra disposizione non ce ne consente una disamina esauriente. Mi limiterò pertanto a un aspetto particolare, ossia al nesso che vincola il diritto naturale alla difesa della vita e dunque alla lotta contro l’aborto. Due sono le ragioni che inducono a tale limitazione:
1) Nei documenti del magistero ecclesiastico si fa sempre e costantemente appello al diritto naturale; la nostra discussione, dunque, non si colloca fuori della materia insegnata dalla Chiesa.
2) Circola oggi l’opinione che i cattolici non possano imporre le loro convinzioni religiose a chi non crede e che pertanto – si dice – essi non possano partecipare alle discussioni sull’aborto in termini propriamente e universalmente umani o razionali, ma solo desumendo norme dalla Rivelazione. La risposta a questa falsa opinione è pronta: il diritto naturale si appella anzitutto alla ragione umana. Quando la Chiesa insegna la morale naturale non impone dogmi da credere, ma propone verità razionalmente accessibili a tutti gli uomini, compresi dunque i cattolici, i quali pertanto sono invitati a esercitare la loro ragione non soltanto per accoglierle passivamente, ma per comprenderne l’intrinseco valore (1).
NOZIONI PRELIMINARI
Prima di entrare nel vivo della questione, penso opportuno richiamare all’attenzione alcune nozioni fondamentali, allo scopo di discutere il problema con la massima esattezza possibile.
Anzitutto la parola aborto. È voce che deriva dal latino ab-orior e più precisamente dal participio ab-ortus. Significa: venire al mondo prima del giusto tempo. Voci ed espressioni equivalenti sono: interruzione della gravidanza o interruzione della maternità; talvolta viene chiamato anche infanticidio, che però è usato propriamente a significare l’uccisione di chi può già nascere normalmente o è già nato.
L’aborto si suole definire come espulsione dell’embrione, o feto, nel periodo di gestazione che va da 0 giorni a 6 mesi. Almeno dopo i 6 mesi il bambino può nascere e sopravvivere: se lo si uccidesse allora, si avrebbe dunque già, nel senso più proprio, un infanticidio. Nel linguaggio nordamericano si chiama abortion l’espulsione del feto che avvenisse tra il concepimento e il terzo mese; miscarriage quando ciò accadesse tra il terzo e il sesto mese; premature delivery tra il sesto e il nono mese.
L’aborto si può dividere a seconda che avvenga o per difetto di natura o per volontà umana.
Il primo si chiama aborto naturale o spontaneo. Esso non ci riguarda direttamente; al più deve richiamare l’attenzione dei medici per rimediare all’imperfezione o alla malattia che lo causano.
Il secondo, che avviene per volontà umana, è chiamato aborto procurato (come si dice con termine tecnico desunto dal Codice di diritto canonico), ossia provocato con mezzi, in modi, per motivi e pretesti diversi: con mezzi meccanici o chirurgici o con medicamenti; in modo clandestino (aborti clandestini) o pubblico (aborti legali); per motivi e pretesti svariati (detti tecnicamente indicazioni): per salvare la vita della madre (aborto terapeutico), per impedire la nascita di un bambino che la tecnica diagnostica presume anormale (aborto eugenetico), per rimediare a problemi economici, demografici, sociali, psicologici (pretesti che vanno dalla sovrappopolazione all’incesto, dalla vedovanza alla violenza carnale, dalle esigenze professionali al disagio psicologico).
Sotto il profilo della legittimità, l’aborto procurato è peccaminoso in quanto viola la legge divina, è criminale o delittuoso in quanto viola anche una norma positiva. Norma positiva canonica, che condanna gli interessati – madre, medici, infermieri – alla scomunica riservata al vescovo (2); oppure norma positiva civile: nel nostro paese, la legge – e propriamente il codice penale (3), con disposizioni che risalgono al 1880 – punisce con detenzione carceraria i responsabili del delitto. L’aborto criminale si chiama anche illegale in quanto indica una azione contraria alla legge.
Gli ordinamenti civili in tema di aborto possono essere divisi in: ordinamenti permissivi (Giappone, URSS, Ungheria, alcuni Stati degli USA, ecc.); ordinamenti condizionanti (numerosi Stati dell’Europa e dell’America settentrionale); ordinamenti repressivi (Italia, America Latina, Belgio, Germania, Grecia, Portogallo, Spagna).
Oggi però si suole proporre, sotto il profilo giuridico, un altro schema, più tecnico: da un lato gli Stati contrari all’aborto, che cioè lo puniscono ossia lo penalizzano; dall’altro gli Stati permissivi. Gli Stati permissivi si dividono a loro volta in quelli che legalizzano a liberalizzano l’aborto e in quelli che lo depenalizzano.
Gli Stati che legalizzano o liberalizzano l’aborto sono quelli che, mediante una regolamentazione più a meno permissiva, ossia mediante regolamentazione “restrittiva” di maggiore o minore labilità, lo permettono. Si afferma che la liberalizzazione dell’aborto pubblico cancellerà la piaga degli aborti clandestini, non dilaterà l’entità del fenomeno stesso, farà cessare vergognose speculazioni, farà diminuire il numero delle nascite di figli illegittimi. La documentazione più recente prova invece irrefutabilmente che, dovunque si è legalizzato l’aborto, le nascite di illegittimi sono in aumento; dilaga la più vergognosa speculazione pubblica e legale e la più abietta e aperta propaganda da parte di “cliniche” e ospedali concorrenti che si contendono i clienti o i contributi dello Stato per lo sfruttamento organizzato dell’assassinio; gli aborti clandestini non diminuiscono; l’entità del fenomeno si dilata incessantemente: gli aborti si moltiplicano paurosamente di anno in anno. La “medicina” della legalizzazione è inefficace. Ma non tanto e non solo perché fallisce il bene indiretto che si propone, essa è inammissibile, quanto piuttosto perché in vista di tale bene indiretto – per conseguire il quale occorrono la prevenzione sociale e soprattutto rimedi morali – essa permette il male diretto: nel nostro caso, legittima e regolamenta l’assassinio. Vale invece per ogni uomo il principio: Non sunt facienda mala ut eveniant bona (4).
Gli Stati che depenalizzano l’aborto sono quelli che, abrogando ogni regolamentazione restrittiva o repressiva in materia, pongono in condizione di assoluta e permanente impunità le persone che comunque concorrono a procurare l’aborto. La depenalizzazione, per sé, non significherebbe una esplicita approvazione del reato né l’esplicita eliminazione della conseguente condanna morale. Ma neppure si configurerebbe come condono giudiziario, ossia come remissione della pena, o come una sua mitigazione che peraltro non deroghi alla norma penale. Abrogando la norma stessa, infatti, la depenalizzazione crea il vuoto legislativo e pone come giuridicamente irrilevante la soppressione della vita umana nei primi mesi della sua esistenza. Per l’illecito dell’aborto procurato, cioè, la norma positiva si comporta allora in modo radicalmente tollerante: non lo qualifica, non ne dissuade e non commina pene; lo ignora. Inevitabilmente, il vuoto legislativo indurrà molti a credere che l’aborto sia azione moralmente indifferente. Il permanere della sanzione coercitiva – di minore o maggiore severità – è infatti necessario proprio perché la legge possa svolgere adeguatamente la sua funzione pedagogica e formativa della coscienza morale. È da notare che i medesimi deleteri e tragici effetti pratici della depenalizzazione sarebbero prodotti anche da una mitigazione delle sanzioni che giungesse fino in prossimità e alle soglie della concessione di una pratica impunità.
Ci si è chiesti se la Conferenza Episcopale Italiana non sembri accedere a una qualche mitigazione delle pene previste dal nostro codice. È comunque da escludere che sia lecito accedere a una qualche depenalizzazione.
- L’ABORTO E I SUOI PROBLEMI ETICO-GIURIDICI
Affronteremo la questione dei rapporti tra aborto e diritto naturale secondo l’articolarsi della seguente affermazione sillogistica:
A) La creatura umana possiede un diritto oggettivo, primario, inalienabile all’esistenza.
B) Ma il feto, fino dalla fecondazione naturale, ossia fino dalla costituzione dello zigote o diploide, è inizio di autonomo soggetto umano, nuovo essere umano distinto dalla madre.
C) Dunque il feto, fino dalla fecondazione naturale, ossia fino dalla costituzione dello zigote o diploide, possiede un diritto oggettivo, primario, inalienabile all’esistenza.
Illustriamo brevemente la dimostrazione anzitutto nelle sue linee generali.
Quanto al metodo dell’argomentazione: è ovvio che noi non intendiamo qui fondarci su considerazioni strettamente teologiche o religiose ma su considerazioni razionali. L’argomentazione razionale non esclude peraltro quella teologica e religiosa, come diremo più avanti. Quanto al procedimento dimostrativo, va notato che esso non può essere accusato di astrattezza: se da un lato, nella premessa maggiore del sillogismo, si parte da una proposizione universale, dall’altro, nella premessa minore, si tiene conto delle situazioni esistenziali, delle scoperte scientifiche ecc.; con un metodo che è dunque insieme induttivo e deduttivo.
Quanto all’oggetto dell’argomentazione: procederemo non tanto colpendo direttamente l’aborto, quanto invece ponendo in rilievo il carattere sacro della vita umana. Ne conseguirà indirettamente che ogni attentato a essa è contrario all’onestà e alla giustizia; la condanna dell’aborto, cioè, scaturisce dal precetto che ingiunge di rispettare la vita umana, applicato alla particolare esistenza umana propria del feto. Vi è chi solleva l’ipotesi del caso in cui la gravidanza ponesse in pericolo la vita della madre: perché – si obbietta – occuparsi del diritto all’esistenza da parte del feto, la cui perfezione umana è ancora largamente potenziale, quando fosse in pericolo la vita della madre, la cui perfezione umana è invece tanto largamente attuale? Con tali ragionamenti si può arrivare fino a proporre una casistica tragica che dapprima si enuncia dialetticamente nella formula: “o la madre o il figlio”, ma che da ultimo giunge a decretare un minore diritto alla vita da parte di chiunque non fosse giudicato sufficientemente “degno” di vivere, non essendo sufficientemente attuale la sua perfezione umana. In realtà tale opposizione (“o la madre o il figlio”) è inammissibile: non solo e non tanto perché il progresso della medicina e della chirurgia l’hanno resa ormai statisticamente irrilevante (i casi di alternativa sono stati ormai ridotti intorno al 2 per 1000, e l’ulteriore progresso scientifico li va cancellando totalmente), quanto piuttosto perché il diritto alla vita di un essere umano innocente non è misurato dall’entità delle sue perfezioni umane in atto, ma sussiste sempre intero quando è in atto la sua vita umana, e pur essendo in essa solo potenziali le perfezioni possibili.
Con queste premesse possiamo ora illustrare in forma più specifica l’argomentazione proposta.
- IL VALORE DELL’ESISTENZA DI FRONTE ALLA RAGIONE UMANA
Nella argomentazione proposta si dice anzitutto: La creatura umana possiede un diritto oggettivo, primario, inalienabile all’esistenza.
Si tratta di una affermazione universale, accessibile a tutti gli uomini ed evidente.
Per la filosofia questo diritto è fondato sulla natura e dignità dell’uomo stesso (5).
Alla filosofia fa seguito la scienza del diritto, ossia quella alta disciplina che studia i rapporti doverosi tra uomo e uomo. In relazione all’essere e alla vita umana, tale scienza afferma l’oggettività di un sistema normativo che si chiama diritto naturale. Con l’espressione diritto naturale sono significate tre realtà: un ordine o valore oggettivo; la norma regolatrice dell’ordine; la capacità nell’uomo di esercitare la sua libertà entro la tessitura di tale ordine e sulla traccia delle norme.
Esiste perciò un diritto naturale inteso come ordine e valore oggettivo, prima ancora che come norma, che inerisce alla vita umana in sé stessa e vige di fronte a tutta l’umanità. Esiste poi la norma che tutela questo valore e che si chiama legge naturale.
Esiste infine la capacità fondamentale o facoltà giuridica alla vita e ad agire conformemente a quelli che sono noti come diritti della persona. Il diritto naturale, dunque, consta anzitutto del valore e della dignità oggettivi dell’esistenza umana; consta poi della formula normativa che enuncia tale valore e dignità; consta infine della facoltà giuridica o capacità ad agire o libertà di operare di conseguenza, che i singoli uomini posseggono. La permanenza nella vita è dunque per la creatura umana: diritto (soggettivo), norma e diritto di natura. Ossia, come si è detto nell’enunciato, a permanere nella vita la creatura umana ha un diritto oggettivo, primario, inalienabile. Oggettivo, perché non fondato sulla conoscenza che altri ne hanno e non sul suo riconoscimento privato da parte di uomini o pubblico da parte di ordinamenti giuridici; ma fondato invece sull’essere stesso del vivente umano, per cui la vita umana è per sé stessa sacra. Primario, poiché ogni altra facoltà, norma, diritto (relativi, ad esempio, alla salute, all’onore e a ogni altro bene) possono stare solo se sta questo primo che concerne la vita. Inalienabile, poiché neppure il suo stesso titolare può disporne e trasferire ad altri, a suo arbitrio, il proprio diritto alla vita, essendo, tale diritto, patrimonio inerente alla sua natura di uomo, dalla quale egli non può separarsi,
Al diritto naturale è resa testimonianza infine dal consenso universale degli uomini: in ogni tempo, per le leggi e i costumi di tutti i popoli, nell’ambito di ogni tradizione religiosa, la vita umana innocente è un bene sacro: l’inviolabilità della vita umana innocente (le sole esigue eccezioni sono limitate a periodi di estrema degradazione morale e oscuramento religioso) è legge conosciuta dalla retta ragione presso ogni civiltà. Il comandamento biblico non uccidere non ne è che la formulazione negativa, e per ciò stesso universale e universalmente cogente.
- L’ESISTENZA PRENATALE DELL’UOMO DI FRONTE ALLA SCIENZA E AL DIRITTO
Abbiamo finora illustrato la premessa maggiore del sillogismo. È da notare che anche i più ottusi e settari apologeti e propagandisti dell’aborto (quello terapeutico come quello eugenetico o quello che si vorrebbe giustificare in nome di una “libertà” della madre, ecc.) sono generalmente costretti a riconoscere la verità e la fondatezza almeno delle considerazioni fin qui esposte: almeno la fondatezza, cioè, dell’inviolabilità della vita umana innocente (6); ciò di cui essi rifiutano di prendere atto, invece, è che quella del feto sia vita umana, vita di nuovo e distinto essere umano.
Occorre dunque ora esaminare la premessa minore, nella sua correttezza logica e nella sua fondatezza scientifica, e affrontare il tema dell’esistenza prenatale dell’uomo.
L’enunciato della premessa minore, proposto sopra, dice: Ma il feto, fino dalla fecondazione naturale, ossia fino dalla costituzione dello zigote o diploide, è inizio di autonomo soggetto umano, nuovo essere umano distinto dalla madre.
Come si può facilmente intendere, affermiamo che poche ore dopo l’unione tra uomo e donna – forse 20 o 24 ore – una nuova vita umana si accende e la donna diviene madre.
Ma faremo, prima, rapidi cenni alla storia di talune opinioni sulla vita intrauterina, anche allo scopo di renderci ragione di qualche varietà di opinione presso taluni moralisti cattolici del passato.
È noto che nel secolo V a. C. Ippocrate, medico e scienziato greco, imponeva ai medici il giuramento di non ledere la vita umana, a cominciare da quella prenatale; lo stesso facevano i Pitagorici. Il rispetto della vita umana anche prenatale, del resto, era già da sempre riconosciuto come dovere conforme alle leggi di natura, alla retta ragione, alle tradizioni di ogni civiltà. Ippocrate peraltro insegnava – seguito, anche secoli dopo, da lontani discepoli – che il germe vitale che dal primo giorno si annida nel seno della madre aveva inizialmente vita e proprietà vegetali e animali, ma non ancora umane: solo oltre i primi 30 giorni (7) si sarebbe verificato il passaggio dalla vita – o anima – vegetale e animale a quella umana o razionale, sarebbe cioè avvenuta la “animazione”, ma intesa come attuazione e realizzazione delle precedenti proprietà virtuali. L’opinione di Ippocrate fu condivisa da molti scienziati dell’antichità. Gli stoici invece, e con essi il grande medico Sorano del secolo II d. C., insegnavano che l’anima razionale o umana era presente fin dall’inizio, e si trasmetteva direttamente per generazione. Tali opinioni furono corrette nel Medioevo dai maestri della Chiesa, i quali insegnarono che l’anima umana viene, sì, introdotta a reggere il germe dopo che esso abbia iniziato a essere retto da vita animale, ma che l’anima umana o razionale non è né l’attuazione di virtualità della vita animale né è propriamente generata dall’uomo e dalla donna, essendo invece infusa nel germe vitale in virtù dell’opera creatrice di Dio. Collateralmente, fu discusso il problema della qualità di peccato dell’aborto; la soluzione fu generalmente questa: da un lato – conformemente al costante insegnamento cristiano – ogni aborto è peccato grave; dall’altro almeno dopo il quarantesimo giorno, o poco dopo, l’aborto si poteva considerare propriamente come infanticidio. Discussioni collaterali sorsero nel secolo XVI per valutare la fondatezza dei motivi che, in tale periodo di accresciuta corruzione morale, venivano avanzati come attenuanti del peccato e delitto di aborto. Si giunge infine ai problemi suscitati nei secoli XIX e XX dall’intervento sempre più generalizzato della chirurgia, Sono note, a questo riguardo, le ripetute conferme venute dal magistero pontificio – anche mediante gli atti delle Congregazioni Romane – circa l’inviolabilità della vita umana prenatale e l’inammissibilità di attentarvi direttamente.
Ma oggi è la stessa scienza a dover prendere atto della perfetta fondatezza delle norme disposte dalla Chiesa a tutela della vita umana prenatale.
Oggi infatti la scienza è in grado di stabilire con esattezza che appena l’ovulo viene fecondato dallo sperma – e si instaura così lo zigote o diploide – una autonoma nuova vita umana nasce nel seno della madre: poche ore dopo l’unione tra l’uomo e la donna, nello zigote o diploide tutte le virtualità che si esplicheranno nell’adulto di domani sono integralmente e autonomamente presenti. La genetica, dopo gli studi e le scoperte degli anni recenti, è oggi in grado di provare che fin da quel primo momento, in quel primo germe, tutto l’uomo o la donna futuri sono precontenuti e preordinati: colore della pelle, degli occhi, dei capelli, statura, qualità biologiche ereditarie, ecc. Una autonoma vita umana ha da allora iniziato a svolgersi secondo una legge propria che le è insita, distinta e irriducibile a quelle che reggono e ordinano la vita del padre e della madre. In questa sede non ci è purtroppo consentito dilungarci a illustrare minutamente tali acquisizioni; chi intendesse prenderne conoscenza approfondita ha peraltro la possibilità di ricorrere agevolmente alle opere degli scienziati, biologi e genetisti, che le espongono. Quanto è stato detto, comunque, è sufficiente per affermare che la stessa scienza è oggi nella necessità di prendere atto che un autonomo principio vitale umano, ossia una autonoma vita o anima umana, è fin dall’inizio presente come un artefice che costruisce il nuovo palazzo dalle fondamenta (8).
È quanto enuncia la premessa minore.
Per questo possiamo affermare che ogni interruzione volontaria della maternità è volontaria uccisione di una creatura umana.
La soppressione di una creatura umana concepita anche solo da poche ore non può affatto essere paragonata all’assunzione di un lassativo per stipsi, allo spurgare il naso dal catarro, all’asportazione di un tessuto o di un organo della madre: chi viene espulso e ucciso con l’aborto non è una cosa che appartenga alla madre né un suo tessuto né un suo organo, ma è un vero e autonomo essere umano.
È appena il caso di accennare all’estrema stoltezza di un’ultima “argomentazione” a cui talvolta si aggrappano i fautori dell’aborto quando si vedono privati di ogni altro appiglio: l’”argomentazione” secondo cui essi desumerebbero la liceità dell’aborto volontario dall’esiguità delle dimensioni del feto o dalla limitatezza del tempo da cui ha cominciato a vivere (“è piccolissimo; pesa pochissimo; è concepito da pochissimi giorni!“); quasi che in un uomo lo stato di umanità fosse misurato dalla sua statura o dal suo peso o dal numero dei suoi anni! Nessuno degli uditori, certo, ha bisogno che si risponda a una simile “argomentazione”.
CONCLUSIONI
La conclusione di tutto ciò che si è detto è cogente: la creatura umana fin dal primo momento del suo stabilirsi nell’essere verifica in sé il diritto naturale secondo i tre livelli di cui si è fatta parola sopra:
1) Sotto il profilo del valore o ordine giuridico naturale, il feto umano possiede autonomia di vita. Non si può affermare che egli sia ordinato a un fine diverso da quello fondamentale a cui la natura lo ordina: permanere nel suo essere, nel bene della vita. Né si può affermare che egli sia un ingiusto aggressore, da cui sarebbe dunque lecito difendersi.
2) Sotto il profilo delle norme di diritto naturale, la vita del feto è protetta dal principio etico-giuridico che prescrive il rispetto della vita e fa divieto di ucciderla. Tale principio, appunto perché naturale e universale, non può essere ignorato dagli ordinamenti civili. Una legge positiva che sottraesse tutela giuridica al feto o persino concedesse azioni lesive della sua esistenza, sarebbe ingiusta e immorale.
3) Sotto il profilo dei diritti soggettivi o facoltà originarie, il feto possiede il diritto a essere alimentato, assistito, protetto, portato alla maturazione e alla nascita. Come quella di ogni essere umano, la sua vita è inviolabile. Sopprimerla, è omicidio.
“Conceptum in utero qui per abortum deleverit, homicida est” (9).
DARIO COMPOSTA S.D.B.
NOTE
(1) Cfr. Papa PAOLO VI, Humanae vitae, 4.
(2) Cfr. Codex iuris canonici, can. 2350, par. 1.
(3) Artt. 546-549.
(4) Cfr. Rom 3, 8.
(5) Ciò che specifica l’uomo è la sua natura di essere intelligente e libero, ossia la sua essenza e vita spirituale, ordinata a permanere nel proprio essere in immortalità personale. In tale sostanza spirituale, ossia nella sua natura specifica, è il valore o dignità dell’uomo. Tutte le cose sono ordinate a permanere nel proprio essere, che è dunque ciò a cui tutte le cose tendono, ossia il massimo bene. L’ordine delle cose alla permanenza nel proprio essere si manifesta e si esprime negli enti inferiori, a cominciare da quelli anorganici (si pensi anche solo all’edifico strutturato e unitario delle particelle fisiche elementari), come stabilità, coesione e necessità fisiche. Nei viventi, nel mondo vegetale e animale, tale ordine all’essere si manifesta e si esprime come dinamismo autonomo che integra a sé gli elementi che consentano la permanenza della vita nell’essere e la sua propagazione oltre la morte degli individui della specie; in particolare, negli animali tale dinamismo si esprime nella necessità fisiologica dell’istituto di conservazione. Nell’uomo, l’ordine alla permanenza nel proprio essere include ma trascende l’istituto di conservazione della propria vita biologica e si nobilita fino a manifestarsi e a esprimersi nella consapevole volontà di esistenza personale oltremondana, nel desiderio spirituale di immortalità, ossia nella volontà di permanenza oltremondana della propria vita spirituale nell’essere. Volontà che nell’uomo trascende il suo essere corporeo e si trova come già da sempre insediata in lui: può, con l’educazione e la cultura, affinarsi; ma non attende l’educazione né la cultura per nascere. E se in ogni regno dell’universo vediamo enti di ogni stato distruggere enti di stato inferiore, ossia ordinare alla propria permanenza nell’essere la dissoluzione di enti subordinati, sappiamo pure che non vi sono, in tutto l’universo, enti di stato superiore a quello umano alla permanenza dei quali nell’essere la natura subordini la permanenza nell’essere della vita umana, ossia enti alla cui permanenza nella vita sia naturalmente ordinata la morte dell’uomo. Affermiamo dunque che l’identica natura umana ordina incondizionatamente, in uguale misura e a pari titoli, ogni uomo alla permanenza del proprio essere. La natura umana, abbiamo detto; non, cioè, l’esercizio attuale delle facoltà che in essa hanno principio e radice: il permanere nello stato di umanità non è misurato dall’esercizio o dal non esercizio attuali dell’una o dell’altra facoltà specificamente umana, così che il valore e la dignità dell’uomo non solo permangono interi pur in presenza di eclissi temporanee delle facoltà stesse (intelligenza, memoria, volontà possono talvolta non essere esercitate in atto, a causa, ad esempio, di una imperfezione fisiologica o di una malattia o di farmaci o dell’ebbrezza o del sonno), ma permarrebbero interi anche nell’ipotesi in cui la genetica e l’antropotecnica, per calcolo criminale, riuscissero a menomare durevolmente una parte dell’umanità – per asservirla, come mandria di automi, a una mostruosa tirannia – dell’una o dell’altra facoltà umana. Solo una proporzionata causa, solo un proporzionato male, consapevole e volontario, ossia colpevole, può ledere in un uomo il suo ordine e il suo titolo naturale a permanere nel proprio essere temporale e spirituale: a permanere nel bene della vita.
(6) Persino Marco Pannella, ad esempio, la sera del 27 dicembre 1974, presso Piazza san Pietro, nel corso di una delle solite deplorevoli manifestazioni per la promozione dell’aborto legale, mentre da un lato accusava la Chiesa cattolica di “barbarie”, rivendicava invece per sé, per il Partito Radicale e per il CISA (Centro Informazioni Sterilizzazione Aborto), una nobile missione di “liberazione” sociale e politica nel rispetto della vita!
(7) Fra il trentesimo e il quarantesimo giorno o fra il trentacinquesimo e il cinquantesimo, a seconda che si trattasse di un maschio o di una femmina.
(8) Eppure anche solo pochi mesi fa, il 18 febbraio 1975, la Corte Costituzionale italiana, pur dichiarando doveroso il rispetto della vita, pronunciava tuttavia una strana e incredibile sentenza secondo cui il feto umano non sarebbe una persona umana!
(9) Papa STEFANO VI (885-891), Consuluisti de infantibus, D.-S.