Di Mariolina Ceriotti Migliarese da Avvenire del 10/04/2022
Il lavoro di neuropsichiatra infantile mi ha insegnato questo: davanti a una famiglia che chiede aiuto per la sofferenza psichica di un minore (bambino o adolescente che sia), essere un buon medico non è sufficiente. La sofferenza di un figlio, soprattutto quando si manifesta come un sabotaggio alla vita (depressione, atti autolesivi, anoressie, somatizzazioni importanti), è un messaggio violento che non si vorrebbe ascoltare; il genitore cerca perciò risposta in una spiegazione medica che, per quanto dolorosa, lo esoneri da un coinvolgimento di responsabilità o peggio ancora di colpa.
Ma davanti alla crescente difficoltà che i nostri figli incontrano nell’affrontare la vita, la risposta medica da sola non basta: i Servizi si vanno riempiendo di storie sempre più numerose e drammatiche, che una lettura solo psichiatrica non può giustificare. Davanti al moltiplicarsi di questo dolore, fare diagnosi, prescrivere un farmaco o indirizzare a una psicoterapia sono azioni spesso necessarie, ma insufficienti; la sfida è quella di dare un nome a quello che accade.
Il sintomo ha sempre il valore di un messaggio e ogni messaggio cerca qualcuno che lo raccolga: qualcosa blocca nei nostri figli il fluire della vita e fa collassare in loro le energie vitali della crescita. Attivare o riattivare in loro le risorse più sane è il nostro compito più importante, ed è un compito sempre necessario, anche di fronte al manifestarsi della patologia. Dobbiamo riuscire a intercettare ogni ragazzo sofferente nel punto esatto in cui si trova; dobbiamo cercare pensieri, parole e gesti che favoriscano in lui la ripresa del cammino. I ragazzi feriti non hanno bisogno di venire estraniati dalla fisiologia della vita, ma di incontrare adulti che si facciano coraggio, che non scappino dal proprio ruolo, ma provino piuttosto ad esercitarlo in modo più efficace. Hanno bisogno di genitori, di insegnanti, di educatori, di sacerdoti, di maestri: adulti che non fuggono e non delegano, ma che si interrogano su cosa ciascuno, al proprio posto, può fare. Tutti sono necessari, anche se nessuno, da solo, è sufficiente.
Proprio per questo, c’è bisogno di creare reti: davanti al disagio dei ragazzi si può e si deve collaborare, con il senso del proprio limite davanti alla complessità talvolta scoraggiante del compito, ma anche con il senso del valore di ciò che ognuno di noi, in collaborazione con gli altri, può riuscire a fare. Tutti gli adulti sono importanti, se comprendono il valore di farsi carico della nuova generazione; ciascuno, se rimane al suo posto, può essere una risorsa significativa. Ciascuno però deve farsi protagonista, deve dire ‘tocca a me’, non posso delegare a nessuno la mia parte.
Se questo appare più evidente per chi è direttamente interessato nei processi psico-educativi (genitori, insegnanti, psicologi e medici, che devono collaborare tra loro), forse è il momento di capire che nessuno, in quanto adulto, può considerarsi escluso da questa responsabilità: non chi si occupa di comunicazione, di intrattenimento, di sport, ma nemmeno chi si occupa di politica, di economia, o di moda. C’è lavoro per tutti.
Riparare le relazioni assomiglia al lavoro di rammendo: bisogna osservare con pazienza i punti dove il tessuto si è lacerato, trovare il filo giusto, tornare poco alla volta a legare un punto con l’altro.
Tanti piccoli punti, tanti piccoli gesti, tutti ugualmente necessari. Per questo tocca a tutti e a ciascuno di noi, prima che sia troppo tardi.