Giovanni Cantoni, Cristianità n. 93 (1983)
Per la proprietà, senza proprietà
Uno dei temi più provocanti dell’apostolato contro-rivoluzionario – cioè dell’apostolato svolto da Alleanza Cattolica, e di cui Cristianità è strumento non secondario – è certamente costituito dalla difesa del diritto di proprietà; e tale difesa suscita perplessità in chi ci ascolta e spesso anche in noi stessi, più o meno consapevolmente. Né, si deve confessarlo, potrebbe essere diversamente, tenendo conto del grado di penetrazione della mentalità rivoluzionaria in tutti gli ambienti, e di conseguenza in ciascuno dei nostri contemporanei, purtroppo non esclusi neppure noi, anche se siamo animati dalle migliori intenzioni, almeno fino a quando rimangono allo stadio di semplici intenzioni. Non è quindi inutile, stando così le cose, esaminare alcuni aspetti di questa provocazione e delle conseguenti perplessità.
Mi capita con una certa frequenza, quando espongo i beneficî del diritto di proprietà, e quindi della proprietà, di leggere chiaramente sul volto dei miei ascoltatori un interrogativo, che talora, privatamente, arriva a promuovere piccole inchieste, più o meno riservate e discrete. L’interrogativo cui faccio riferimento si può così sintetizzare: «Chi sta parlando, ha interessi da difendere e riveste di belle frasi una realtà crudamente egoistica?».
Prima di rispondere al quesito – anzi, senza rispondere al quesito, dal momento che la risposta è già esplicita nel titolo di questa nota -, mi pare importante ricostruire il significato, indicare la «verità» del quesito stesso, nonché il suo valore di indizio di una mentalità.
Da un primo punto di vista esso denuncia, in chi lo formula più o meno apertamente, e quindi anche in noi stessi, un atteggiamento bassamente utilitaristico, opposto a quello che potremmo chiamare – assolutamente senza implicazioni filosofiche – idealistico, o, ancora meglio, «di principio». Secondo questa mentalità, è pressoché impossibile sostenere e difendere il diritto di proprietà, senza possedere una proprietà da difendere o senza aspirare occultamente a possederla. Riconosco di buon grado che la materialità dell’oggetto – e la proprietà è anzitutto sentita come proprietà di qualcosa di materiale – può favorire in qualche modo questa degenerazione del giudizio, anche in chi sia eventualmente disposto a essere partigiano di una non meglio definita «idea», o, comunque, perseguitore di ideali. Ma, di grazia, perché pensare che il difensore del diritto di proprietà debba essere «interessato», inevitabilmente e sostanzialmente «interessato», mentre si è disposti a immaginare, almeno da parte dei più, un difensore della autorità, che non la identifichi con una sua ipotetica autorità? Oppure un sostenitore della monarchia, che non sia pretendente a un trono vacante? O un paladino della fede, che non aspiri al soglio pontificio o, più modestamente, a una cattedra episcopale?
Quando le piccole indagini, cui facevo prima riferimento, acclarano il distacco da una «concreta» proprietà, prima che si prenda finalmente in considerazione il diritto in sé stesso e come principio, subentrano altri giudizi, da un lato a sottolineare il carattere disincarnato, angelistico e donchisciottesco del suo difensore, dall’altro ad affermare che solo lui può parlare così, mentre chi possiede deve pudicamente astenersi, anzitutto dalla difesa del suo diritto particolare, e, quindi, del diritto in generale, per evitare che si ingenerino pericolosi equivoci. Ma, di nuovo, perché dovrebbe essere disincarnato, angelistico e donchisciottesco chi sostiene la opportunità dell’ordine, pur senza essere magistrato o militare nella «fedelissima»? chi della monarchia pur senza essere aspirante a un trono o almeno nobile? chi della fede, pur senza essere membro della gerarchia ecclesiastica? E ancora: perché il re dovrebbe tacere i vantaggi dell’istituto monarchico? perché il magistrato o il carabiniere quelli dell’ordine e della giustizia? perché il genitore quelli della patria potestas? E, infine, perché il proprietario non dovrebbe illustrare e apertamente indicare i benefici soggettivi e oggettivi della proprietà? Se il motivo sta nel fatto che chi possiede non è, forse, un proprietario perfetto, chi, per venire immediatamente al paradosso, potrebbe predicare il Vangelo, senza essere, se non Nostro Signore Gesù Cristo, almeno san Francesco di Assisi, riconosciuto dalla tradizione come alter Christus? Non è forse meglio che un imperfetto predichi la perfezione, piuttosto che, oggettivamente e concretamente, si perda la fede perché vengono meno coloro che, sia pure indegnamente, la trasmettono? E, soggettivamente, non è più giovevole al predicatore stesso parlare al suo prossimo della perfezione da cui è purtroppo lontano, ma che conosce, piuttosto che caricarsi anche di questo peccato di omissione? Oppure, al limite, si auspica che, per eccesso di «disinteresse» e per non «compromettere» la causa, il re si dichiari repubblicano, il magistrato anarchico, il padre favorevole alla famiglia «aperta», il sacerdote dubbioso se non «infedele», il proprietario socialista e collettivista?
Chi, fra i minores, sarà indotto ad amare le realtà e i valori corrispondenti, se non li amano e, quindi, se non li difendono apertamente coloro che li hanno avuti in sorte dalla Provvidenza, e che, quindi, li devono custodire?
La mentalità denunciata dagli atteggiamenti e dalle prese di posizione evidenziate e ipotizzate è quella che, in un linguaggio almeno parzialmente gergale, si può indicare come «borghese», mercantile, oppure, come già dicevo, utilitaristica: si tratta di una mentalità caratterizzata dalla pratica univoca e materiale del do ut des. Da un altro punto di vista, però, tale giro mentale contiene anche un residuo, un resto di spirito di autoconservazione, e in quanto tale va positivamente utilizzato e orientato, e su di esso bisogna tentare di fare leva.
Come? Sottolineando, tra l’altro, nella difesa dei principi, anche il momento dell’interesse, della individuale utilità, diretta o indiretta che sia. Perciò, come si mostra che l’unico re è per il bene di tutti i sudditi, e questo basta a spiegare come possa non essere il solo monarchico; che il padre è per i figli, che quindi possono anche, in quanto tali, lottare per la famiglia e per la sua gerarchica costituzione, che garantisce il migliore perseguimento dei fini che a essa sono propri; il Vicario di Cristo per i fedeli, e così via, allo stesso modo bisogna mostrare che la proprietà è benefica sia per chi immediatamente ne gode, sia per chi vive in una società che per principio la ammette, anche se, eventualmente, egli non ne fruisca in modo diretto. Infatti, il diritto di proprietà – e il principio della proprietà privata – è un tale presidio della libertà e dell’equilibrato sviluppo della personalità umana, che, di fatto, ne gode anche chi non possiede concretamente qualcosa: è, in quanto tale, un beneficio sociale quant’altri mai. Quindi, il fruirne o meno individualmente non può essere considerato movente valido per difenderlo o meno: del diritto in quanto tale si può, infatti, sostenere che fruiscono tutti indistintamente.
Quindi, superato il rossore prodotto da un ipotetico egoismo di chi possiede, e quello derivante da una ipotetica «ingenuità» di chi non possiede, credo si debba difendere serenamente il principio e la sua realtà, ricordando, tra l’altro, a sé stessi e agli altri, che il fatto di positivamente amare questo cardine della società umana, e quindi della civiltà cristiana, ci autorizza a denunciare e a combattere non soltanto i tentativi palesi oppure occulti di negarlo o di distruggerlo, ma anche quelli di squalificarlo e di corromperlo. Chi può sinceramente aspirare a essere custode della ortodossia, se non crede la fede che la fonda? Quale sincerità si può concedere a chi grida contro gli abusi del diritto di proprietà, se non lo ama, e quindi non lo difende? Come non sospettare che la denuncia dell’abuso – purtroppo possibile in ogni atto umano post peccatum – nasconda non un movente morale, ma una intentio di annientamento del diritto stesso? Né ci si deve sentire in qualche modo «ingenui» oppure offesi dalla qualifica polemica di «guardie bianche» del padronato, dal momento che non si può passare ad amare la ingiustizia perché non è fatta giustizia perfetta; si può soltanto – questa volta sì – dimenticare che l’ottimo è nemico del bene e diventare «utili idioti» per ulteriori tappe del processo rivoluzionario.
Chi non intende dimenticare la tesi «autentica» secondo cui «i comunisti possono riassumere la loro dottrina in quest’unica espressione: abolizione della proprietà privata» (1), non può che pregare la Vergine santissima di aiutarlo a conservare il rossore per la confessione dei peccati, e di dargli la forza di vincere il rispetto umano nella confessione integrale della verità, anche sociale.
Giovanni Cantoni
Note:
(1) KARL MARX e FRIEDRICH ENGELS, Manifesto del Partito comunista, trad. it., Editori Riuniti, 14ª ed., Roma 1971, p. 78.