Giovanni Cantoni, Cristianità n. 273-274 (1998)
Articolo parzialmente anticipato in Percorsi di politica, cultura, economia, anno II, n. 2, gennaio 1998, pp. 11-12.
Per un conservatorismo tradizionalista
Se il termine destra indicava in origine il settore di un’assemblea rappresentativa posto alla destra del presidente, a partire dall’Assemblea Costituente francese del 1789 assume un senso traslato e designa i partiti, i movimenti e le prospettive politiche, che inscrivono nei loro programmi la difesa dell’ordine, dell’autorità e della tradizione (6). Andando oltre la definizione posizionale di destra, nella quale si verifica un’inqualificabile — nel senso che si sottrae a ogni qualificazione — e pericolosa miscela fra quanto è di destra e quanto si viene a trovare a destra, lo slogan della destra potrebbe essere: «nulla fuori e contro la tradizione, tutto nella e per la tradizione» (7). «In realtà, la difesa della tradizione — come retaggio di valori da sottrarre all’ impietosa corrosione del tempo — costituisce proprio quell’essenza della destra così spesso posta in dubbio» (8). Perciò, «[…] l’analisi deve essere riportata sulla strada maestra della tradizione, dei significati che essa può assumere — sempre nella fedeltà assoluta alle radici — dei modi in cui può venir vissuta.
«Storicamente e concettualmente è possibile indicare almeno sei accezioni significative di tradizione, che rinviano ad altrettante correnti culturali e politiche della destra» (9).
Su questa strada, accanto alla tradizione riferita a un’epoca assiale della vita di un popolo, o intesa come fedeltà alla nazione in tutte le sue componenti storiche, o come mito, come passato remoto da far riemergere da lontananze secolari, oppure, finalmente, come «comunità di destino», come espressione di un’ethos etnico che esige la dedizione totale e incondizionata al gruppo di appartenenza, si danno la tradizione «[…] come archetipo, come “legislazione primitiva” che Dio ha dato all’uomo e alla società-stella polare che, con la sua luce, guida i figli della terra nel faticoso cammino» (10), e la tradizione come «[…] consapevolezza della complessità stessa del reale, un abito prudenziale di chi sa quanto sia difficile il costruire e quanto facile il distruggere» (11).
Nell’ultimo caso «fedeltà alla tradizione significa tener conto dell’esistente per il semplice fatto che, buono o cattivo, è pur sempre qualcosa di reale, da cui sarebbe rischioso prescindere inseguendo progetti di astratta palingenesi. La difesa dei diritti dell’esistente, il terrore della violenza e la tabula rasa caratterizzano il conservatorismo, il quale non si lascia definire in base alla fede in dogmi di alcun genere, né per la difesa oltranzista di istituzioni storiche e culturali specifiche, né per la venerazione di qualche mitologia, ma in base alla forza con la quale ha costantemente ribadito il principio per cui val meglio modificare quel che già esiste piuttosto che ricostruire il mondo ab imis» (12).
Nel caso immediatamente precedente «la tradizione è l’insieme delle verità rivelate dal Creatore al primo uomo e trasmesse di generazione in generazione: verità che rimangono inalterate quanto al contenuto, ma che sono nei secoli arricchite e vivificate quanto all’interpretazione e all’adeguazione all’ambiente storico e sociale indefinitamente mutevole. In questa categoria rientrano i tradizionalisti del primo Ottocento, de Maistre, de Bonald, in parte Haller e Rosmini, nonché i giusnaturalisti metafisici del nostro secolo come Leo Strauss, Voegelin e, in Italia, M. F. Sciacca, Del Noce etc.» (13).
Fedele alla retorica oralistica — quella che suggerisce di «dire le stesse cose sugli stessi argomenti» (14), quando paiono enunciati in modo sostanzialmente felice e sintetico — ho «saccheggiato» un vecchio studio di Dino Cofrancesco, Destra e Sinistra, per un uso critico di due termini-chiave, del 1984, nell’occasione, a scopo argomentativo, senza distinguo e senza integrazioni di sorta.
Quindi — pagato il mio tributo al politologo — dico infine la mia. Da cattolico propongo di coniugare conservatorismo e tradizionalismo — «conservatorismo tradizionalista»? — trattandoli sia come affiancati e aggiogati a un unico carro, in staff, cioè coordinati, sia come in rapporto sequenziale, in line, cioè in una relazione di dipendenza, comunque sempre interagenti: il primo, il conservatorismo, attento al e rispettoso del reale anche storico, come premessa del secondo, il tradizionalismo, che, soprattutto attraverso il Magistero della Chiesa cattolica, offre «princìpi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione» (15) per l’indispensabile, inevitabile e costante riforma dell’esistente (16). Predisposti il tiro e la pariglia, i Percorsi felicemente non mancano.
Concluso il mio primo percorso — chiamo così la mia prima collaborazione alla nuova rivista diretta da Gennaro Malgieri —, sono immediatamente tentato di andare oltre lo spazio che mi è stato concesso, non tanto per dar subito corpo ai distinguo e alle integrazioni che ho evocato a proposito delle tesi di Cofrancesco e alla cui enunciazione ed esposizione ho dichiaratamente rinunciato, né per illustrare qualche concezione della tradizione come la Great Tradition dei conservatori americani (17) o la Cábala buena dell’argentino don Julio Meinvielle (18), ma per rispondere, almeno incoativamente, a un quesito fondamentale, che è quasi esplicitamente suggerito dalla formula «nulla fuori e contro la tradizione, tutto nella e per la tradizione»: «Rispetto all’ uomo, la tradizione è un optional oppure una condizione naturale?».
Dopo aver confessatamente saccheggiato Cofrancesco passo al «saccheggio» — di nuovo realizzato senza distinguo e senza integrazioni — di un altro politologo, Luciano Pellicani, del quale trascrivo qualche brano dallo studio La sociologia, coscienza critica della Modernità, pubblicato in appendice al suo Saggio sulla genesi del capitalismo. Alle origini della Modernità, del 1988, in cui il tema della tradizione viene toccato felicemente e sinteticamente in relazione al rapporto fra la sociologia e la storia (19).
«[…] la società, prima di essere una realtà politica o economica, è una realtà culturale» (20), «il sociale […] è quel complesso di credenze, di miti, di valori, di norme, di aspettative che operano nell’individuo, ma che non sono, propriamente parlando, dell’individuo, bensì della collettività anonima: sono di tutti e di nessuno e costituiscono il quadro istituzionale entro cui si svolgono le relazioni sociali» (21).
«Dalla scoperta della dimensione culturale della società […] deriva un arricchimento della definizione aristotelica di uomo: l’uomo, per la tradizione sociologica, è un essere sociale non solo e non tanto perché vive a nativitate in una società, ma anche e soprattutto perché la società vive in lui sotto forma di cultura interiorizzata. La cultura — vale dire tutto ciò che, pur essendo stato creato dagli uomini, attraverso il processo di istituzionalizzazione si è reso indipendente dalla loro volontà e ha acquistato il carattere di impersonale norma agendi — imbeve l’individuo come l’acqua la spugna. Essa, avvolgendo l’ uomo in una rete di simboli, di rappresentazioni, di ideali, di valori e di disvalori, socializza persino la parte più intima della sua personalità.
«È sufficiente esaminare il ruolo che la lingua svolge nella formazione della personalità morale degli uomini per toccare con mano l’enorme potenza plasmatrice della cultura. Nella socializzazione primaria la famiglia educa il bambino a maneggiare le parole e ad adoperarle secondo certe regole sintattiche. L’operazione sulle prime appare innocente. Dopo tutto, si dirà, la famiglia non fa che trasmettere al bambino una tecnica per comunicare con gli altri e nulla più. Senonché la lingua è un frammento della cultura che reca in sé una particolare interpretazione della realtà. Non è uno strumento neutro, bensì uno strumento che contiene una filosofia e persino una morale. Accade così che la socializzazione linguistica ingabbia l’individuo in una visione del mondo dalla quale egli non uscirà più completamente. Hanno quindi ragione i sociologi marxisti a dire che gli uomini nella società capitalistica sono soggetti a una continua manipolazione ideologica. Dove hanno torto è nel credere che sia possibile una società nella quale gli individui possano non essere manipolati. La manipolazione è un fenomeno universale e onnipervasivo e ad essa non possiamo sfuggire. D’altra parte, è proprio grazie alla manipolazione che l’uomo diventa uomo: se eliminassimo dalla sua personalità ciò che la società ha iniettato in lui ci troveremmo di fronte a un essere svuotato di tutto, più simile a un animale che a un uomo, dal momento che l’uomo è in gran parte ciò che la società lo ha fatto.
«Si può quindi affermare che l’ uomo è un animale culturale, plasmato, educato, orientato, disciplinato dalla società in cui è stato socializzato. E poiché la cultura ha una storia — anzi: è storia —, si può affermare parimenti che l’uomo è un animale storico che vive in e di una particolare tradizione. Donde il principio metodologico secondo cui per spiegare e comprendere l’agire di un uomo non è sufficiente utilizzare variabili biologiche e psicologiche; occorre anche fare uso di variabili sociologiche, quali le credenze, i valori collettivi, le norme istituzionalizzate, le aspettative di ruolo, tutti elementi che la società ha iniettato nell’individuo operando nei suoi confronti come una gigantesca macchina pedagogica. Ne consegue il primato logico-metodologico del tutto sulle parti. Non è possibile spiegare la società partendo dagli individui, bensì occorre adottare la strategia cognitiva inversa: spiegare la condotta degli individui partendo dalla cultura, vale a dire da ciò che è stato depositato nella sua [sic] coscienza dalle agenzie di socializzazione, vere e proprie custodi della tradizione. Comte esprimerà questo concetto scrivendo che “i morti governano i vivi” e Marx gli farà eco sottolineando, sia pure con disappunto, che “la tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sui viventi”.
«Sarebbe però estremamente fuorviante vedere nella tradizione solo una “gabbia culturale” che imprigiona gli uomini e impedisce loro di esplorare il mondo dei possibili. La tradizione è anche la precondizione del progresso, poiché senza di essa gli uomini sarebbero costretti a partire da zero: si troverebbero senza un sistema di soluzioni (materiali, intellettuali e morali) collaudate su cui appoggiarsi, dal momento che la tradizione è ciò che la società ha tesaurizzato: è il passato accumulato e istituzionalizzato, la serie degli esperimenti compiuti dalle generazioni passate e utilizzati dalle generazioni presenti. Il che significa che la continuità è la legge dell’esistenza storica delle società, una legge che opera attraverso le generazioni, le quali arricchiscono e trasmettono ciò che hanno ereditato. Di qui l’impossibilità di separare la sociologia dalla storia. Se la piena intelligenza dell’agire umano è possibile solo attraverso l’analisi della tradizione culturale, allora la sociologia non può che essere sociologia storica, illuminazione del presente per mezzo del passato o, più precisamente, di ciò che del passato vive ed agisce nel presente e condiziona l’avvenire. Insomma, per dirla con una bella immagine di Nietzsche, il passato scorre nelle vene degli uomini e crea profondi legami comunitari fra di loro» (22).
Dunque, stando così le cose, la tradizione non è un optional: infatti la «manipolazione» dell’uomo è obbligata e vantaggiosa, perché «[…] è proprio grazie alla manipolazione che l’uomo diventa uomo: se eliminassimo dalla sua personalità ciò che la società ha iniettato in lui ci troveremmo di fronte a un essere svuotato di tutto, più simile a un animale che a un uomo, dal momento che l’uomo è in gran parte ciò che la società lo ha fatto»; la scelta della tradizione avviene nella tradizione, e non basta prodursi in qualche piroetta concettuale per sottrarsi alla presa del reale.
Sempre sulla stessa strada: tutti gli uomini nascono «di destra», poi si spostano — perché si possono spostare, cioè sono liberi di spostarsi — «a sinistra» — alcuni divengono addirittura «di sinistra» — alla ricerca di un «meglio» oltre il bene, dell’emancipazione dai più diversi legami, e nella direzione di un’emancipazione radicale si sradicano (23); quindi il vuoto lasciato dalla tradizione causa infelicità, produce una sorta di capitalizzazione crescente d’infelicità, rende più infelici del necessario, espone a essere soggetti a un tasso d’infelicità superiore a quello proprio dell’uomo post peccatum, vivente in hac lacrimarum valle. Ma la strada del ritorno è sempre aperta, segnata, ritmata quasi, dalla scoperta che «qui seminant in lacrymis, in exultatione metent» (24), «chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo», chi piange e confessa il peccato originale e quelli attuali produce la gioia terrena «sostenibile», cioè «accettabile» dall’uomo e dalla società, e si prepara la felicità eterna; e dalla corrispondente scoperta del contrario: «Chi semina nel giubilo [non fondato sulla natura e sulla condizione umana, che comprende la tradizione, cioè “insostenibile”], mieterà nelle lacrime», frutto amaro di una exultatio indiscreta, di un «giubilo senza discernimento».
Ho citato il salmo 125 che porta il titolo Gioia dei reduci, di quanti ritornano, di quanti almeno si pongono sulla strada del ritorno; e con il ritorno siamo di nuovo a un percorso.
Giovanni Cantoni
Note:
(6) Cfr. MARCEL GAUCHET , Storia di una dicotomia. La destra e la sinistra, trad. it., Anabasi, Milano 1994.
(7) DINO COFRANCESCO, Destra e Sinistra, per un uso critico di due termini-chiave, Bertani, Verona 1984, p. 46.
(8) Ibid., p. 48.
(9) Ibidem.
(10) Ibid., p. 9.
(11) Ibid., p. 52.
(12) Ibidem.
(13) Ibid., p. 49.
(14) Sulla problematica dell’oralità e sulla retorica oralistica, cfr. PADRE WALTER J. ONG S.J., Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, trad. it., il Mulino, Bologna 1986, soprattutto pp. 59-117; accomodo la formula da ANONIMO, Il sublime, a cura di Giulio Guidorizzi, Mondadori, Milano 1993, n. 7.
(15) PAOLO VI, Lettera Apostolica Octogesima adveniens nell’80° anniversario della Enciclica Rerum novarum, del 14-5-1971, n. 4.
(16 ) Sul rapporto dinamico fra conservazione e tradizione, cfr. PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3a ed. it. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977, par- te II, cap. III, pp. 127-130.
(17 ) Cfr. un’esposizione magistrale dei suoi contenuti, in RUSSELL AMOS KIRK, Le radici dell’ordine americano. La tradizione europea nei valori del Nuovo Mondo, trad. it., a cura di Marco Respinti, con un epilogo di Frank Shakespeare, Mondadori, Milano 1996; e della sua storia come «storia delle idee», in IDEM, The Conservative Mind: From Burke to Eliot, 7a ed. riveduta e accresciuta con il saggio The Making of «The Conservative Mind», di Henry Regnery, Regnery Publishing, Washington 1993.
(18)Cfr.DON JULIO MEINVIELLE, De la Cábala al progresismo, Calchaquí, Salta 1970, p. 30; cfr. pure ALBERTO CATURELLI, La Patria y el Orden Temporal. El simbolismo de las Malvinas, Gladius, Buenos Aires 1993, pp. 151- 161.
(19 ) Cfr. LUCIANO PELLICANI, La sociologia, coscienza critica della Modernità, appendice a IDEM, Saggio sulla genesi del capitalismo. Alle origini della Modernità, SugarCo, Milano 1988, pp. 350-352.
(20) Ibid., p. 350.
(21) Ibidem.
(22) Ibid., pp. 350-352.
(23) Cfr. una critica del «migliorismo» nella sua versione sociale più sottile e d’avanguardia, quella tecnocratica, in ANTONIO ROSMINI SERBATI, Frammenti di una storia della empietà, in IDEM, Frammenti di una storia della empietà e scritti vari, a cura di Rinaldo Orecchia, CEDAM, Padova 1977, pp. 1-95; nella versione relativa alla vita spirituale, in PADRE SILVANO FAUSTI S.J., Occasione o tentazione? Arte di discernere e decidere, Àncora, Milano 1997, pp. 102-105.
(24) Sal. 125, 5.