Marco Invernizzi, Cristianità n. 166 (1989)
Considerazioni a margine di un editoriale de La Civiltà Cattolica sul problema politico del cattolici italiani, costantemente riproposto in occasione dei congressi nazionali della Democrazia Cristiana.
Fra problemi veri ed equivoci duri a morire
Per una politica «da cristiani»
Nell’imminenza del XVIII congresso della Democrazia Cristiana, che si apre a Roma il 18 febbraio 1989, La Civiltà Cattolica ha voluto portare il proprio contributo alla «riflessione sull’“ispirazione cristiana” della DC» con un corposo editoriale intitolato In politica «da cristiani». Una DC per gli anni ’90 (1).
Per affrontare il tema in modo adeguato la rivista dei gesuiti italiani si pone due problemi, il primo relativo alla natura della DC e a cosa oggi si debba intendere per «partito di ispirazione cristiana», il secondo concernente la storia di questo partito e la questione se la DC, nei suoi quarant’anni di esistenza, «ha mantenuto la sua ispirazione cristiana oppure, come alcuni ritengono, si è secolarizzata».
Quanto al primo problema, La Civiltà Cattolica ritiene di dover ripercorrere la storia del «partito cristiano», distinguendo in essa tre periodi, «l’epoca del partito “confessionale” (leoniano); l’epoca del partito aconfessionale (sturziano): l’epoca del partito democratico-cristiano (degasperiano)».
Secondo questa periodizzazione e ricostruzione degli accadimenti, nel tempo del «partito confessionale» i cattolici sarebbero intervenuti «nell’agone politico per un motivo religioso», suscitando così due difficoltà, anzitutto quella di coinvolgere «la Chiesa nelle vicende politiche», quindi quella di sollevare «reazioni antiecclesiastiche e anticlericali» e di lasciare insoddisfatta la richiesta di molti cattolici, che sentivano l’esigenza di formare «un partito propriamente politico autonomo dalla Gerarchia». Il secondo periodo del «partito cristiano», che si apre nel 1919 con la fondazione del Partito Popolare Italiano, il PPI, da parte di don Luigi Sturzo, vede operante una formazione caratterizzata dal «fatto di porsi sul terreno politico, non sul terreno religioso», quindi dal presentarsi come un partito aconfessionale e non come un organismo ecclesiale, con un’attenzione particolare «alle classi popolari, tenute fuori dalla vita politica e dai benefici del progresso economico dal liberalismo,
borghese e statalista». Il terzo periodo del «partito cristiano» è segnato dalla Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi, caratterizzata da un «più stretto e complesso» rapporto con la Chiesa di quanto non lo fosse quello del PPI; secondo l’editoriale de La Civiltà Cattolica, infatti, «l’idea di De Gasperi era che la DC fosse un partito politico, laico, quindi aconfessionale e autonomo dalla Gerarchia» ma «per la riuscita del suo progetto De Gasperi aveva bisogno che la Chiesa appoggiasse la DC, convogliando su di essa il voto unitario dei cattolici». Alcide De Gasperi ottiene l’appoggio della Chiesa alla DC e così conquista «definitivamente il mondo cattolico alla democrazia», ma questo fatto provoca anche «contraccolpi negativi sulla natura e sull’azione della DC: essa finiva con l’apparire “il partito dei cattolici”, “il partito della Chiesa” e la sua autonomia da questa veniva, in una certa misura, limitata».
Dopo aver caratterizzato e periodizzato in questi termini lo svolgersi del «partito cristiano», nello stesso editoriale si analizza l’impatto provocato dal Concilio Ecumenico Vaticano II sul modo di espressione politica dei cattolici italiani. Secondo La Civiltà Cattolica, il Concilio avrebbe messo in crisi sia il partito confessionale di tipo leoniano, sia «la DC nella misura in cui, per contingenze storiche particolari, è divenuto il “partito dei cattolici” e “della Chiesa “, e quindi troppo strettamente legato alla Gerarchia»; ma, sostiene l’editoriale, il Concilio «non ha affatto negato la legittimità per un partito politico d’ispirarsi ai valori cristiani», purché si presenti come «un» e non come «il partito dei cattolici», cioè senza pretendere di rappresentare né di impegnare la Gerarchia e la Chiesa e avendo cura di chiedere il consenso sulla base del proprio programma e non della fede degli elettori.
Nello stesso ordine di considerazioni, La Civiltà Cattolica si chiede cosa comporti per un partito l’ispirazione cristiana, e risponde che non si deve prefiggere «la creazione di uno “Stato cristiano” o di una “società cristiana”, specificando che «il partito d’ispirazione cristiana deve ispirarsi alla visione cristiana dell’uomo, della società, dello Stato, qual è espressa dalla Chiesa nella sua dottrina sociale», sforzandosi, «per quanto le condizioni storiche lo permettono, di tradurre nella forma istituzionale dello Stato, nella Costituzione, nelle leggi, negli atti di governo e nella pubblica amministrazione la visione cristiana dell’uomo e dello Stato».
Venendo al secondo problema, cioè a quello relativo al rapporto fra la DC e la propria ispirazione cristiana nei suoi quarant’anni di vita, la rivista dei gesuiti crede di poter affermare che essa «è riuscita a far prevalere in parti essenziali della Costituzione una visione della società ispirata alla visione cristiana dell’uomo e dello, Stato» ed è stata l’«unico partito che ha difeso il punto di vista cristiano» in occasione delle battaglie relative alla legalizzazione del divorzio e dell’aborto, alla legislazione sulla famiglia, ai rapporti fra Chiesa e Stato, all’insegnamento della religione nella scuola, all’educazione sessuale. Ciononostante, «si deve rilevare un certo progressivo indebolimento e offuscamento degli ideali cristiani, o meglio, delle motivazioni cristiane dell’attività politica», dal momento che «da un lato è venuta meno in una certa misura l’animazione cristiana della DC, anche forse per lo scarso apporto che ad essa ha dato la cultura cattolica […]: dall’altro, si è fatta largo in alcuni settori della DC una classe dirigente non sempre ben formata sotto il profilo cristiano e culturale».
Dunque, l’intervento de La Civiltà Cattolica prova significativamente che qualcosa sta accadendo nell’atteggiamento del mondo cattolico in relazione al rapporto tra fede e impegno politico come indubbia conseguenza del rilancio della dottrina sociale nel Magistero di Papa Giovanni Paolo II (2), un rilancio che costringe ad abbandonare l’orientamento caratterizzato dalla cosiddetta «scelta religiosa», che trova il suo momento forte nel ripristino delle Settimane Sociali da parte della Conferenza Episcopale Italiana (3).
In questa situazione, la battaglia culturale all’interno del mondo cattolico si sposta dal problema della vigenza o meno della dottrina sociale — su cui ormai non è più questione, almeno generalmente — al dibattito sulla sua natura e sulla sue conseguenze per l’impegno politico dei cattolici, e l’editoriale de La Civiltà Cattolica offre lo spunto per considerazioni su questi argomenti.Allo scopo, trascuro le affermazioni relative all’opera svolta dalla DC negli anni della sua esistenza, e a questo proposito mi limito ad affermare che, almeno a partire dalla legalizzazione del divorzio nel 1970, un’attenzione adeguatamente critica induce a denunciare i comportamenti tenuti da tale forza politica, nelle circostanze evocate nell’editoriale, come caratterizzati da colpe gravi e da non meno gravi omissioni (4). Ma, insisto, di maggior peso mi paiono considerazioni di carattere dottrinale. Infatti, dalla ricostruzione della storia del movimento cattolico italiano — in genere, ma l’editoriale de La Civiltà Cattolica non fa eccezione — mi pare emerga un primo equivoco di fondo: tutta la periodizzazione è definita in rapporto alla dipendenza oppure all’indipendenza organizzativa del «partito cristiano» dell’autorità ecclesiastica come se questa fosse la chiave della problematica relativa al rapporto fede-impegno politico. Questa chiave sta invece nel riconoscimento concreto e operativo della dottrina sociale della Chiesa come base dell’azione politica dei cattolici, in modo che — come si legge nel medesimo editoriale — la visione cristiana della vita sia recepita dalle leggi e dalla stessa Costituzione degli Stati.
Soccorre a questo proposito l’importante distinzione fra l’ambito spirituale e quello temporale, più volte richiamato nello stesso scritto: infatti, proprio perché diverso dal fine soprannaturale, il fine temporale possiede nella costruzione della città terrena una verità propria, che può essere perseguita soltanto dall’attività politica e che non riguarda ambiti opinabili — come sono, per esempio, le forme di governo oppure scelte politiche comunque contingenti — ma i fondamenti stessi della convivenza civile. Solo se esiste una verità sulla polis, una «verità politica» — non prodotta dall’uomo, come nel caso delle ideologie, ma preesistente allo sforzo umano di «contemplarla» e poi di iscriverla nella vita civile, in modo tale da renderla «conforme ai principi della vita cristiana» (5) —, ha senso distinguere la politica dalla religione, lo Stato dalla Chiesa, e quindi l’attività politica con i suoi fini specifici, compendiati nel bene comune, dall’attività propria dell’evangelizzazione e dell’amministrazione dei sacramenti. Soltanto in questa ipotesi si evitano realmente i rischi costituiti rispettivamente dalla ierocrazia e dal secolarismo, pur continuando a comprendere «che la vita sociale, nella verità delle sue forme e nella misura in cui è conforme alla legge divina, costituisce un riflesso della gloria di Dio nel mondo» (6).
Infatti, la vita sociale riflette la gloria di Dio quando è organizzata in modo conforme alla legge naturale divina, che la ragione umana può cogliere contemplando la natura dell’uomo e della società e ricavandone la nozione di bene comune che dovrebbe presiedere alla convivenza fra gli uomini. Tale natura costituisce il progetto di Dio sull’uomo, creato essere sociale e che quindi realizza compiutamente sé stesso soltanto attraverso i legami con i suoi simili. Proprio perché naturali e umane, e quindi accessibili alla ragione non alterata del pregiudizio ideologico, le caratteristiche fondamentali dell’uomo e del bene comune della società possono essere proposte anche al non cristiano, come base di convivenza civile in un mondo, come quello contemporaneo, segnato dal relativismo (7). Nulla poi dovrebbe impedire di chiamare società cristiana o Cristianità quella società storica in cui i cattolici fossero riusciti a iscrivere la visione cristiana dell’uomo e dello Stato nelle leggi o addirittura nella Costituzione. Infatti, che senso ha insistere tanto sullo «stile» cristiano di operare in politica, cioè sul «come» i cattolici dovrebbero organizzarsi, se non si dice nulla — o si tace come se fosse vergognoso — sul fine, sull’ideale storico concreto a cui cercare di prevenire, sullo scopo stesso della dottrina sociale della Chiesa che, in quanto parte della teologia morale, è regola di comportamento inteso al raggiungimento di un fine? Questo modo di trattare la dottrina sociale non è forse equivalente a quella presentazione addomesticatrice della morale, separata dal suo fine, cioè la santificazione e la configurazione al Signore Gesù?
Un secondo equivoco è rilevabile nel luogo comune secondo cui don Luigi Sturzo e Alcide De Gasperi avrebbero finalmente portato il mondo cattolico italiano ad accettare la democrazia simpliciter. Prescindendo anche a questo proposito da giudizi di fatto, credo opportuno evidenziare in qualche misura la reale portata di quanto con questa tesi si vorrebbe sostenere. Infatti, cosa dovrebbe comportare l’adesione alla democrazia?Accettare di partecipare alla realizzazione del bene comune, rispondendo alla sfida delle ideologie, in una situazione storica in cui lo Stato non riconosce la dottrina sociale naturale e cristiana come la più conforme alla verità e quindi la più propizia al bene dell’uomo stesso? E accettare di farlo cercando di mostrare con il dialogo e con l’esempio la validità di tale dottrina, rinunciando a chiedere privilegi non perché illegittimi, ma per avvalorare la teoria con la testimonianza e anche, molto realisticamente, perché il potere politico non è assolutamente disposto a concederli se non a prezzi impagabili? Ma non è questo il comportamento tenuto dalla Chiesa — seppur con diversità di atteggiamenti, dettati da altrettanto diverse circostanze storiche — a partire dalla Rivoluzione francese e soprattutto dal pontificato di Papa LeoneXIII?
Oppure accettare la democrazia significa fare propria la tesi secondo cui non esiste una verità sulla società e sullo Stato, cioè sul modo di perseguire il bene comune nella convivenza fra gli uomini, di fatto facendo così propria una concezione dell’uomo relativistica? Non sono proprio le violente polemiche sui principi fondamentali del diritto alla vita, sull’indissolubilità del matrimonio e sulla centralità della famiglia, sul problema dell’educazione, sulla sua titolarità e sul suo esercizio concreto, sulla moralità pubblica — polemiche ininterrottamente emergenti in quanto solo non mai sopite ma non sopibili — a ricordare l’impossibilità di costruire una società comune sulla base di ideologie che presuppongono concezioni dell’uomo fra loro contraddittorie e contrastanti? Infatti l’uomo, «sottraendosi al metro della verità […] diventa preda dell’arbitrio» (8) con la conseguenza che, negata l’esistenza della verità sui rapporti sociali, «sono aboliti i rapporti fraterni per fare posto al terrore, all’odio e alla paura» (9).
Settant’anni fa, con l’appello Ai liberi e ai forti, del 18 gennaio 1919, nasceva il PPI. Staccandosi dalla tradizione del movimento cattolico — soprattutto dalla breve stagione seguita all’abolizione del non expedit e inaugurata dall’enciclica Il fermo proposito, pubblicata da Papa san Pio X nel 1905 — il partito fondato da don Luigi Sturzo inaugurava la separazione dell’azione politica dei cattolici dalle altre attività apostoliche del movimento cattolico. Il PPI, con il principio dell’aconfessionalità, dava corpo a un problema molto più grave di quello costituito dalla dipendenza nei confronti dell’autorità ecclesiastica dei cattolici impegnati in politica: ogniqualvolta, nell’imminenza di un nuovo congresso della DC — che sostanzialmente continua l’esperienza del PPI —, si discute del rapporto fra mondo cattolico e partito di ispirazione cristiana, bisogna francamente riconoscere che il problema vero è ancor oggi quello aperto nel 1919, cioè quello relativo al legame che deve intercorrere fra la dottrina sociale naturale e cristiana e la rappresentanza politica dei cattolici e, in subordine, quello relativo alla possibilità, da parte del mondo cattolico organizzato, di verificare che questo legame non venga disatteso.
«Il partito d’ispirazione cristiana — scrive La Civiltà Cattolica — deve ispirarsi alla visione cristiana dell’uomo, della società, dello Stato, qual è espressa dalla Chiesa nella sua dottrina sociale»; si deve essere lieti per un’espressione tanto chiara, perché basterebbe attenersi a questo programma per emettere giudizi corretti sul passato più e meno recente del movimento cattolico, per rettificare la sua condizione presente e per permettergli di ricollegarsi alla ispirazione originaria. Ma ci si deve interrogare su quale parte abbia effettivamente avuto la dottrina sociale nella storia del «partito cristiano» dopo la proclamazione dell’aconfessionalità, quale parte possa avere oggi all’interno di un partito che la ignora sistematicamente e, soprattutto — ripeto —, perché una forza politica che facesse propria la dottrina sociale della Chiesa non dovrebbe — come si legge sempre nell’editoriale de La Civiltà Cattolica — operare per «la creazione di uno “Stato cristiano” o di una “società cristiana”», in cui viene perseguito il bene comune tanto dei cristiani quanto di coloro che, pur non professando la religione cattolica, sono in grado di cogliere «le norme dell’ordine naturale riconosciute dalla ragione» (10).
Marco Invernizzi
Note:
(1) In politica «da cristiani». Una DC per gli anni ’90, in La Civiltà Cattolica, anno 140, n. 3325, 7-1-1989, pp. 3-15. Tutte le citazioni senza indicazione di fonte sono tratte da questo editoriale.
(2) Cfr. GIOVANNI CANTONI, La «rivalutazione» della dottrina sociale della Chiesa, in Cristianità, anno XVI, n. 133, maggio 1986.
(3) Cfr. EPISCOPATO ITALIANO, Nota pastorale Ripristino e rinnovamento delle Settimane Sociali dei cattolici italiani, del 20-11-1988.
(4) Cfr. 13 milioni di italiani resistono alla persecuzione laicista, all’aggressione comunista e alla corruzione del progressismo sedicente cristiano, in Cristianità, anno II, n. 5, maggio-giugno 1974; G. CANTONI, 17 maggio 1981: la verifica della confusione e della delusione, ibid., anno IX. n. 73-74, maggio-giugno1981: MAURO RONCO, Concordato: una revisione nella linea della separazione, ibid., anno XII, n. 107-108, marzo-aprile 1984; MICHELE VIETTI, L’«ora di religione»: l’Intesa della discordia, ibid., anno XIV, n. 129-130, gennaio-febbraio 1986; IDEM, La guerra contro «l’ora di religione», ibid., anno XV, n. 151, novembre 1987; il mio «Divorzio corto», ibid., anno XV, n. 143, marzo 1987; e ALFREDO MANTOVANO, Dieci anni d’aborto in Italia, ibid., anno XVI, n. 161, settembre 1988.
(5) CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decreto sull’apostolato dei laici Apostolicam actuositatem, n. 7.
(6) CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istruzione
su libertà cristiana e liberazione «Libertatis conscientia» del 22-3-1986, n. 33.
(7) Cfr. EPISCOPATO ITALIANO, doc. cit., n. 4; e IDEM, Documento pastorale Comunione, comunità e disciplina ecclesiale, dell’1-1-1989, n. 6.
(8) CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, doc. cit., n. 19.
(9) Ibidem.
(10) GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai membri del Parlamento Europeo a Strasburgo, dell’11-10-1988, n. 8.