Domenico Airoma, Cristianità n. 400 (2019)
Testo scritto dell’intervento pronunciato, in forma breve, dal magistrato Domenico Airoma, di Alleanza Cattolica, nel corso della prima sessione del convegno Il futuro dell’umanità passa attraverso la famiglia, tenutosi presso l’Università Card. Stefan Wyszynski di Varsavia, il 22 ottobre 2019.
Eminenza, Signore e Signori,
sento il dovere innanzitutto di porgere, anche a nome di Alleanza Cattolica, un sentito ringraziamento per l’invito a intervenire in un così prestigioso consesso.
Desidero prendere le mosse, in queste mie riflessioni, da due importanti anniversari, per certi aspetti accomunati: trent’anni or sono, e precisamente il 9 novembre, veniva abbattuto il Muro di Berlino; fra qualche mese sarà celebrata un’altra importante ricorrenza: i settant’anni della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, firmata a Roma nel 1950.
Sono due date indispensabili per rispondere a due domande pregiudiziali: quale Europa? quali diritti?
1. Premessa. L’importanza degli anniversari
Gli anniversari rappresentano uno strumento privilegiato per riflettere sulla qualità del tempo.
In primo luogo, sollecitano la memoria, inducono a ripensare il passato, a rivedere la storia; essendo la storia il terreno su cui ogni politica viene sperimentata, si tratta, perciò, di operazioni che aiutano a una migliore comprensione del presente. O, almeno, dovrebbero. Perché gli anniversari costituiscono al contempo una misura del presente: nel fare memoria di un accadimento, infatti, dovremmo chiederci che cosa quell’evento ha significato per noi, per la nostra «piccola» storia, ma anche per la «grande» storia, per la storia cioè del corpo sociale. In tal modo, l’anniversario è anche occasione — o dovrebbe esserlo — per un esame di coscienza; e per porsi una domanda: «sono stati fatti i conti con quel passato?».
E tutto ciò conduce, altresì, a operare una distinzione: fra coloro che, appunto, quei conti li hanno fatti — o ci hanno provato — e coloro che non hanno inteso farli, non avendo visto — o voluto vedere — in quell’accadimento un «segno dei tempi».
2. Partiamo dal 1989
Fra coloro che hanno segnalato la straordinaria rilevanza di quanto accaduto nel novembre di quell’anno a Berlino, occorre annoverare, senza dubbio, il pontefice emerito Benedetto XVI (2005-2013), per il quale la caduta del Muro «[…] ha segnato uno spartiacque nella storia mondiale» (1).
Mi piace, tuttavia, ricordare anche le parole di Giovanni Cantoni, fondatore di Alleanza Cattolica, che ha definito i fatti di Berlino come l’«avvenimento di maggior rilievo politico nella storia contemporanea» (2).
Ma che cosa è davvero accaduto nel novembre di trenta anni fa?
È «crollato»un muro. Un muro che divideva a metà una città, due nazioni; ma, soprattutto, due mondi, due visioni dell’uomo.
Innanzitutto, è lecito chiedersi «perché»quel muro è crollato: se ciò è accaduto per ragioni naturali o per effetto di atti dell’uomo; giacché se ricorre la seconda delle due ipotesi, allora è più corretto parlare di «abbattimento». E se è stato abbattuto da uomini, è di qualche interesse stabilire «chi»lo ha abbattuto e «per quali ragioni».
Ma procediamo con ordine. Che cosa è stato abbattuto?
Un’ideocrazia, ovvero «l’intronizzazione istituzionale, l’istituzionalizzazione di un’ideologia, di una visione del mondo distorta in quanto incentrata su una verità parziale, la cui metafisica è un’utopia» (3).
Chi ha dato l’ultimo scossone a quell’impero che andava implodendo? I suoi stessi sudditi, che erano allo stesso tempo i destinatari di quell’esperimento di «ingegneria sociale» votato alla costruzione dell’«uomo nuovo».
«Più ci allontaniamo da date fatali, più appare chiaro che l’implosione del sistema imperiale socialcomunista è stata l’implosione del mondo moderno tutto» (4).
Rispetto a tutto questo, ancora una volta, c’è da chiedersi: sono stati fatti i conti? Chi non li ha ancora fatti e perché?
I conti non li ha voluti fare l’Europa che era al di là del Muro, l’Occidente cosiddetto libero. E non li ha voluti fare perché avrebbe dovuto avere il coraggio di mettere in discussione il fondamento di quella falsa libertà.
Qualcuno, per la verità, in epoca non sospetta, aveva ammonito dal ritenere che l’alternativa al mondo social-comunista fosse l’Occidente nato dal falso umanesimo.
In un memorabile discorso tenuto all’università americana di Harvard l’8 giugno 1978, profeticamente titolato Un mondo in frantumi, Aleksandr Isaevič Solženicyn (1918-2008) metteva in guardia dalle false alternative all’ideocrazia social-comunista: «[…] non resta che cercare l’errore alla radice stessa, alla base del pensiero dell’Età moderna. Mi riferisco alla concezione del mondo dominante in Occidente che, nata all’epoca del Rinascimento, ha assunto forme politiche a partire dall’Illuminismo ed è alla base di tutte le scienze dello Stato e della società: la si potrebbe chiamare umanesimo razionalista o autonomia umanistica in quanto proclama e promuove l’autonomia dell’uomo da qualsiasi forza. Oppure ancora — e altrimenti — antropocentrismo: l’idea dell’uomo come centro di tutto ciò che esiste» (5).
Fra coloro che avevano previsto quel fallimento e, soprattutto, avevano ammonito dal ritenere che quell’Occidente potesse rappresentare un’alternativa corrispondente alla verità sull’uomo, va indubbiamente annoverato san Giovanni Paolo II (1978-2005).
Il pontefice polacco è stato lo strumento principale di cui si è servita la Provvidenza perché si producesse un evento che ha connotazioni oggettivamente inspiegabili a viste umane. Questo fallimento epocale avrebbe dovuto, in definitiva, «imporre» un salutare ritorno al principio di realtà; una sorta di eterno ritorno, non nel senso della ciclicità dell’andamento, ma nel senso dell’inevitabilità dell’approdo. Come per la filosofia che, stanca dell’imbarbarimento della riflessione autocentrata, approda al senso comune.
Ma così non è stato. Soprattutto per l’Occidente. Anzi l’Occidente ha ritenuto che avesse vinto il sistema di pensiero relativistico e libertario, rispetto al quale i totalitarismi rappresentavano un’interruzione della storia. Così, peraltro, venne scritto nel Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli (1907-1986) ed Ernesto Rossi (1897-1967), considerato la carta costituzionale non scritta dell’Unione Europea, che si avviava a sostituire l’Unione Sovietica nella prosecuzione dell’esperimento di «ingegneria gnostica», nella realizzazione del paradiso in terra.
Al mondo bicolore andava sostituendosi un monocolore pur se travestito di un variopinto arcobaleno; all’alleanza dell’ateismo con il totalitarismo, subentrava un matrimonio da tempo preparato, quello fra relativismo e democrazia.
Al totalitarismo aperto è succeduto quello che san Giovanni Paolo II, nell’enciclica Centesimus Annus, ha definito «totalitarismo subdolo»: «Oggi si tende ad affermare — scrive — che l’agnosticismo ed il relativismo scettico sono la filosofia e l’atteggiamento fondamentale rispondenti alle forme politiche democratiche, e che quanti son convinti di conoscere la verità ed aderiscono con fermezza ad essa non sono affidabili dal punto di vista democratico, perché non accettano che la verità sia determinata dalla maggioranza o sia variabile a seconda dei diversi equilibri politici. A questo proposito, bisogna osservare che, se non esiste nessuna verità ultima la quale guida ed orienta l’azione politica, allora le idee e le convinzioni possono esser facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia» (6).
Un totalitarismo «dal volto umano», insomma, che ha un suo «catechismo» civile — il cosiddetto «politicamente corretto» (7) — e una sua «neo-lingua»; che usa non il GULag ma la gogna sociale, bollando i propri avversari come impresentabili e così riducendoli al silenzio, anche negando loro ogni diritto all’obiezione di coscienza. Il volto buonista del nuovo totalitarismo si manifesta principalmente nell’assecondare ogni desiderio; il radicalismo elitario si trasforma in radicalismo di massa, o meglio in «narcisismo» di massa: ognuno è chiamato a costruirsi il proprio paradiso in terra, ognuno ha «diritto alla felicità».
Vi è solo un problema da risolvere: la conflittualità generata dalle pulsioni inevitabilmente collidenti in quanto totalizzanti. Si produce una condizione che impone un capillare dirigismo, una nuova armatura, un nuovo Muro, questa volta fatto di direttive, regolamenti, sentenze: un muro invisibile ma indefettibilmente presente nella vita e nelle menti dei nuovi sudditi; fatto non di cemento ma del vetro dei palazzi di Bruxelles e di Strasburgo. Non vi è filo spinato, non ci sono le divise dei VoPos; ma, come quello di Berlino, è un muro che non si può scavalcare, è una condizione dalla quale sembra impossibile uscire.
Ancora una volta si sono rivelate profetiche — ma solo perché frutto dell’applicazione di una lettura umile, cioè profonda delle vicende storiche — le parole di Giovanni Cantoni: «Mentre più che avvisaglie indicano l’eventualità che l’impero socialcomunista imploda, se già non si può affermare puramente e semplicemente che sta crollando su sé stesso, un così enorme crollo ideologico pare semplicemente destinato a gettare diffidenza su ogni idea e ogni ideale, senza esame di sorta della loro qualità o del loro uso eventualmente idolatrico, lasciando libero il campo all’ultimo travestimento dell’ideologia, quello tecnocratico, e senza che venga posta la questione del significato della tecnica stessa, che si pretenda connotata da caratteri di assoluta soggettività» (8).
Si assiste, in definitiva, all’ennesimo travestimento dell’inganno gnostico, presentato questa volta sotto le sembianze di un accattivante neo-umanesimo o trans-umanesimo, un esito anch’esso prevedibile: «La parabola storica del comunismo marx-leninista è giunta al suo termine. Sotto le “dure repliche della storia” l’Utopia collettivistica si è disintegrata, e l’idea che possa disalienare se stesso attraverso la politica della tabula rasa ha ricevuto un colpo devastante. Ma questo non autorizza a credere che il bisogno di assoluto abbia abbandonato definitivamente la scena. In una civiltà disertata dagli Dei, ma quotidianamente lavorata dalla tradizione giudaico-cristiana, tutta centrata sulla contrapposizione fra la civitas diaboli e la civitas Dei, e attraversata da parte a parte dalla “tentazione gnostica di un sapere assoluto e totale, liberante dalle angosce legate ai saperi parziali e conflittuali”, è difficile escludere che lo spirito rivoluzionario non assuma, in un futuro più o meno prossimo, nuove sembianze» (9).
Non è senza rilievo richiamare sul punto le osservazioni di chi, in epoca ben anteriore all’ubriacatura ambientalista dei nostri giorni, forniva una interessante lettura dell’ecologismo: «la fede materialistico-dialettica nel senso della storia ha lasciato il posto alla fede quasi religiosa nella bontà della Natura» (10).
Più che dichiarare il fallimento della modernità, consacrato nei guasti della cosiddetta post-modernità, si punta a un superamento, a promettere la salvezza attraverso la via d’uscita della cosiddetta iper-modernità; si tratta, in altri termini, di tornare alle origini, non per prendere atto dell’errore, bensì per ripartire dall’idea portante della Rivoluzione, quella dell’uomo misura di tutte le cose, liberato anche del mero richiamo alla divinità.
«Invece che di Homo Deus […], preferisco parlare dell’uomo-soggetto, intendendo con ciò l’uomo portatore di diritti umani fondamentali. Questo fa di noi i giudici delle nostre attività e anche delle nostre opinioni e decisioni, in nome di una visione etica la cui principale espressione è la democrazia costruita sulla subordinazione di tutte le decisioni, comprese le leggi votate dalla maggioranza, ai nostri diritti umani fondamentali. […] Questa situazione e questa nuova cultura non appartengono a un al di là della modernità: al contrario, esse sono iper moderne, in quanto fondate sulla coscienza della nostra creatività» (11).
Accanto a quanti ritengono oramai che la storia, quella qualitativamente importante, sia finita e vada congelata, si fanno strada altri che preferiscono parlare di una storia entrata in una fase decisiva, quella del superamento dell’Uomo, del trans-umanesimo.
In definitiva, vi è un Muro che non è caduto. E non è ad Est.
E vi è un’idea di Europa che non è quella che ha fatto grande l’Europa. Resiste un’ideologia che è altra cosa rispetto alla visione che ha animato coloro che si sono ritrovati accomunati da una cultura, cioè da criteri di giudizio e direttrici di azione, e hanno dato vita a una civiltà, culla dei diritti che nulla ha a che vedere con la mistica dei cosiddetti «nuovi diritti».
3. Il prossimo anniversario
Veniamo ai diritti, appunto. E al secondo anniversario che si approssima, quello della firma della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Serviva davvero una Convenzione dei Diritti nel 1950? Dopo gli orrori del nazionalsocialismo, qualcuno potrebbe dire che di certo non guastava ribadire ciò che era stato negato: e cioè che gli uomini hanno una dignità che non dipende dal riconoscimento di un altro uomo.
Ma le cose non sono andate così. Dopo settant’anni siamo in grado di fare un bilancio e di rispondere a questa domanda. E, soprattutto, di denunciare il carattere di programma squisitamente ideologico che aveva quella Convenzione, rivelatosi perfettamente consentaneo a quella Europa che non intendeva e non intende fare i conti con la modernità.
Si conviene, cioè si contratta: non si riconosce qualcosa che pre-esiste e, in quanto tale, è titolare di diritti originari. E come ogni convenzione, rimane aperta all’interpretazione; anzi «deve» essere interpretata alla luce dei mutamenti delle situazioni perché non c’è nulla di oggettivo, di immutabile.
Ed è proprio quanto è accaduto, soprattutto con riferimento alla famiglia. L’articolo 12 della Convenzione, infatti,stabilisce che «l’uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto».
Come è stata interpretata questa norma? I giudici della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), detentori del monopolio esegetico della Convenzione, l’hanno così interpretata: il diritto di sposarsi non va necessariamente limitato al matrimonio «tra»persone di sesso diverso, bensì va inteso nel senso che ogni uomo e ogni donna hanno il diritto di contrarre matrimonio, senza i limiti e i vincoli quanto al sesso del coniuge.
Non solo. La Corte ha considerato addirittura «[…] artificioso mantenere l’opinione secondo cui, a differenza della coppia eterosessuale, una coppia di partner dello stesso sesso non potrebbe godere di un diritto alla “vita familiare” ai sensi dell’art. 8» (12) della Convenzione.
Il carattere ideologico si fa qui particolarmente evidente.
Non si tratta soltanto di considerare irrilevante il dato naturale: esso è addirittura giudicato artificioso, dal momento che l’unica realtà, giuridicamente rilevante, è il desiderio individuale, sufficiente per attribuire il carattere di famiglia a qualsivoglia unione, a prescindere dall’identità di genere e dagli orientamenti sessuali dei componenti (13).
Non è un caso, dunque, se pilastro della giurisprudenza «creativa» dei giudici di Strasburgodiverrà l’articolo 8 della Convenzione, che sancisce il diritto alla privacy, alrispetto della vita privata e familiare; «vita familiare» che, essendo disancorata dal fondamento naturale, finisce con il non avere più confini. «La nozione di “vita privata” — avverte, infatti, la Corte — è un concetto ampio che comprende […] il diritto all’autodeterminazione. Esso comprende elementi come […] l’identità sessuale, l’orientamento sessuale e la vita sessuale […], nonché il diritto al rispetto della decisione di avere o meno un figlio» (14).
«Abolire la famiglia!» era il monito contenuto nel Manifesto del Partito Comunista, subito dopo quello relativo alla demolizione della proprietà privata. Ancora oggi, pur nella versione individualistica e tecnocratica dello gnosticismo, la famiglia rimane l’ostacolo da abbattere.
Rimane lo scandalo da rimuovere, perché rimanda alla nascita, cioè alla natura, cioè alla dipendenza dell’uomo da un contesto di senso più ampio, che è come il chiodo cui appendere il quadro, anche quello dei propri diritti. La Convenzione del 1950 parla di diritti dell’uomo e rimuove i diritti di Dio; di un uomo da costruire, non da rispettare, innanzitutto nella legge che porta scritta nel suo cuore.
Si tratta di un progetto che ha i suoi esecutori soprattutto nei giudici, che hanno oramai da tempo sostituito i legislatori: le corti sono i nuovi laboratori di ingegneria sociale; il grigio sembiante del gerarca di partito ha lasciato il posto al volto più rassicurante del tecnico in toga. Ma non dobbiamo farci illusioni: la «dittatura del relativismo» (15) è entrata nella fase aggressiva e non consente esilio o disimpegno.
4. La Carta dei diritti della famiglia: una proposta antropologicamente alternativa
Se questo è il quadro politico e giuridico, la Carta dei Diritti della Famiglia assume un significato fondamentale, che va al di là del contesto politico e giuridico, perché radicalmente alternativo a questo mondo e a questa visione dell’uomo. Rispetto a questa Europa che è ancora oppressa dal Muro eretto dal totalitarismo relativistico, essa è la Magna Charta libertatum del secolo XXI. Può diventare la vera carta costituzionale della nuova Europa.
È uno strumento di resistenza e di reazione.
È uno strumento di resistenza nelle mani dei governi che sono al di là del Nuovo Muro, qui nell’Est dell’Europa, perché diventi piattaforma delle intese e delle rivendicazioni di tutti quegli uomini politici che intendano portare negli organismi sovranazionali la visione dell’uomo che è sottesa a quella Carta.
Ed è uno strumento importante anche nelle mani di quei giuristi che, approfittando del ruolo centrale assunto dalla questione dei diritti nella società post-moderna, possono ritrovare il coraggio di denunciare che l’uomo non è Dio, che la sua autodeterminazione non è assoluta, che non può fare a meno del limite; insomma, giuristi dalla schiena dritta, che facciano risuonare, ancora una volta, il grido di Antigone in faccia al tiranno Creonte.
Ma è anche uno strumento di reazione; per dare sostanza a una reazione che va, seppur ancora emotivamente e istintivamente, montando anche al di là del Nuovo Muro, nell’Europa vecchia. Movimenti come il Family Day in Italia o la Manif pour tous in Francia, sbrigativamente liquidati come «populismi», vanno assumendo sempre più il carattere di nuove insorgenze popolari, che però hanno bisogno di guide, di capi. E i capi non si improvvisano, soprattutto in epoca di crisi, come ebbe ad ammonire san Giovanni Paolo II (16). Ed è proprio a questo compito che si dedica Alleanza Cattolica.
5. Gli insorgenti, ovvero le famiglie
Ma chi sono gli insorgenti in Occidente, oggi? Sono le famiglie.
Chi scende in piazza? Le famiglie.
Chi affronta la battaglia con i docenti che cercano di indottrinare, di «colonizzare ideologicamente» (17)— per riprendere la felice espressione di Papa Francesco — i nostri giovani? Le famiglie.
Chi accoglie i delusi delle promesse di felicità della post-modernità, i disgustati dalle dipendenze presentate come paradisi, gli scartati perché non più utili, non più efficienti o semplicemente perché privi di una vita di qualità, degna cioè di essere vissuta secondo la mentalità dominante? Le famiglie!
Le famiglie, con tutti i propri limiti, le proprie imperfezioni, le proprie manchevolezze; con tutto ciò che contraddistingue l’uomo, per come è. Se vi è una proposta, oggi, per l’Europa, per tutta l’Europa, al di là e al di qua del Nuovo Muro, questa è la famiglia.
E sulla famiglia non può esserci ideologia (18): perché non è una proposta fatta di leggi, regolamenti, direttive o sentenze; la famiglia o è viva, o è vissuta, o non è. E se è, e nella misura in cui è, è anche soggetto politico; il primo soggetto politico che si affaccia nella polis e reclama riconoscimento e protezione, al contempo fornendo alla comunità politica uomini, uomini educati (si spera, bene), uomini responsabili.
6. Ricostruiamo la famiglia culturale e spirituale europea!
Ho detto, in esordio, che vi è qualcuno che non ha voluto fare i conti con le fondamenta del muro che è stato buttato giù trent’anni fa a Berlino. Anzi ne ha costruito un altro.
E tuttavia, dobbiamo prendere atto, non senza sollievo, che il reale incomincia a imporsi di per sé. Come? È un fatto che il radicalismo di massa, l’esplosione del narcisismo soggettivistico produce emotività e rancore ingestibili, creando le premesse perché gli uomini, nuovamente illusi, aprano gli occhi e riscoprano la propria condizione di strutturale finitezza.
«L’autodistruzione di una società neognostica può essere scongiurata solo se entra in campo il nemico assoluto dello spirito rivoluzionario: il principio di realtà» (19). Questo è il terreno sul quale re-agire; quello dei bisogni della carne, del corpo. La malattia da cui è affetto l’uomo contemporaneo è l’alienazione dal reale. Per curarlo occorre ricostruire relazioni: dell’uomo con sé stesso, con il proprio corpo, poi con l’altro e via via, fino a Dio. Con pazienza, con amore.
E la famiglia può assolvere alla stessa funzione che il senso comune ha per la filosofia fattasi «barbarie della riflessione» (20), come ammoniva Giambattista Vico (1688-1744). La famiglia può essere il luogo dove l’uomo ritorna; dove l’uomo sperimenta ciò che è; dove ritorna ad incontrare la Verità. In Occidente, però, stiamo sperimentando una condizione ancor più drammatica; stiamo vivendo l’eclissi della famiglia e, prima ancora, l’alienazione dal reale. La rivoluzione del costume, cioè della morale vissuta, preconizzata dal Sessantotto ha lasciato sul terreno un uomo tutto astrazione e desideri, per il quale è il corpo l’ultimo «scandalo»da superare, perché evoca il limite, una legge.
«Sortir de l’hétérosexualité», «uscire dall’eterosessualità»: questo è il motto del festival femminista ideato da Juliet Drouar e tenutosi a Parigi nel settembre scorso. A questo uomo, che è spinto a uscire dal suo stesso corpo, occorre mostrargli innanzitutto gli effetti — devastanti — di un atto che ha tutte le caratteristiche del suicidio; e che è tale anche nei numeri demografici. E non vi è affare più complicato, ma al contempo più ri-fondativo, della catechesi al suicida morente.
Illuminanti e profetiche, al riguardo, le parole del «pensatore-contadino» francese Gustave Thibon (1903-2001): «Si tratta di incarnare umilmente e pazientemente la verità umana, di darle un corpo e una realtà nella vita di ciascuno e nella vita di tutti. Il più nobile ideale ha senso soltanto nella misura in cui partorisce il povero sforzo carnale e sanguinante. Le basi più elementari della natura umana sono dilaniate: l’uomo tutto intero è da ricostruire. A questo scopo non basta predicare, a tutti ed a nessuno, dalla sommità dell’edificio vacillante, bisogna scendere e ripararne, pietra dopo pietra, le fondamenta minacciate» (21).
A questi uomini, soli e disperati, bisogna dare innanzitutto un ambiente «familiare», che gli renda nuovamente familiare l’umano, con tutto ciò che questa riscoperta porta con sé.
Il futuro, il futuro di ogni consorzio umano, passa attraverso la famiglia. Condizione indispensabile perché ciò accada, in Occidente, imperante il Muro della dittatura relativistica, è che si ricostruiscano quelle relazioni che hanno dato sostanza alla famiglia culturale e spirituale europea. Ed è per questa ragione che occasioni come questo convegno sono importanti.
Oggi la riconquista dell’umano, prima ancora che della politica, passa attraverso le famiglie, anche quelle culturali e spirituali. Parte dalle famiglie. Anzi è già partita. Si tratta di sostenerla e guidarla. E di far finalmente cadere questo Muro che impedisce al polmone dell’Occidente europeo di respirare l’aria della libertà e della verità.
Consentitemi, in conclusione, un ricordo personale.
Prima di essere qui con voi, questa mattina, mi sono recato sul sepolcro del beato padre Jerzy Popiełuszko (1947-1984). La mia memoria è andata ai tempi della mia giovinezza, quando sotto le bandiere di Alleanza Cattolica e della Polonia manifestavo, con tanti altri amici, al grido: «Per una Polonia libera e cattolica!».
Mi piace pensare che, ancora una volta, le nostre storie, quella del popolo italiano e quella del popolo polacco possano incrociarsi per combattere sullo stesso fronte. Dalla stessa parte.
E già sento, qui e oggi, l’urlo che viene dalla Polonia: «Per un’Europa libera e cattolica!».
Note:
(1) Benedetto XVI, Discorso alla cerimonia di benvenuto all’aeroporto internazionale di Stará Ruzyně di Praga, del 26-9-2009.
(2) Giovanni Cantoni, «Dopo il crollo delle ideologie»: la politica e il «ritorno al reale», in Cristianità, anno XXVI, n. 275-276, marzo-aprile 1998, pp. 3-4 (p. 3).
(3) Ibidem.
(4) Idem, A proposito di Libertà Duratura, ibid.,anno XXIX, n. 308, novembre-dicembre 2001, pp. 3-4, ora in Idem, Per una civiltà cristiana nel terzo millennio. La coscienza della Magna Europa e il quinto viaggio di Colombo,Sugarco, Milano 2008, pp. 73-76 (p. 74).
(5) Aleksandr Isaevič Solženicyn, L’errore dell’Occidente,trad. it., La Casa di Matriona, Milano 1980, pp. 101-102.
(6) Giovanni Paolo II, Enciclica «Centesimus annus» nel centenario della Rerum novarum, del 1°-5-1991, n. 46.
(7) Cfr. Eugenio Capozzi, Politicamente corretto. Storia di un’ideologia, Marsilio, Venezia 2018.
(8) G. Cantoni, Nota sulla tentazione tecnocratica,in Cristianità,anno XVII, n. 170, giugno 1989, p. 16.
(9) Luciano Pellicani, La società dei giusti. Parabola storica dello gnosticismo rivoluzionario, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2012, pp. 580-581.
(10) André Gorz (1923-2007), Capitalismo, socialismo, ecologia,trad. it., Manifesto, Roma 1992, p. 32.
(11) Alain Touraine, In difesa della modernità, trad. it., Raffaello Cortina, Milano 2019, p. 61.
(12) Corte Europea per di Diritti dell’Uomo, Schalk and Kopf c. Austria, del 24-6-2010, par. 94, consultabile in lingua inglese nel sito web <http://hudoc.echr.coe.int/sites/eng/pages/search.aspx?i=001-99605>.
(13) Cfr. CEDU, Sentenza «Gas e Dubois contro Francia», del 15-3-2012.
(14) Idem, S.H. e altri c. Austria, del 3-11-2011, consultabile nel sito web <https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_20_1.wp?facetNode_1=1_2(2011)&facetNode_3=0_8_1_4&facetNode_2=1_2(201111)&previsiousPage=mg_1_20&contentId=SDU718206>.
(15) Cfr. Card. Joseph Ratzinger, Omelia durante la «Missa pro eligendo Romano Pontifice», del 18-4-2005, consultabile nel sito web <http://www.vatican.va/gpII/documents/homily-pro-eligendo-pontifice_20050418_it.html>; cfr. anche G. Cantoni, Metamorfosi del socialcomunismo: dal relativismo totalitario al relativismo democratico, in Cristianità, anno XXV, n. 261-262, gennaio-febbraio 1997, pp. 15-21.
(16) «I capi non s’improvvisano, soprattutto in epoca di crisi. Trascurare il compito di preparare nei tempi lunghi e con severità d’impegno gli uomini che dovranno risolverla, significa abbandonare alla deriva il corso delle vicende storiche» (Giovanni Paolo II, Discorso alla grande Famiglia dell’Istituto Borromeo di Pavia, del 3-11-1984).
(17) Cfr. Francesco, Incontro con i Membri dell’Assemblea Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, del 25-9-2015.
(18) «Si può considerare ideologica l’attenzione alla coppia ed alla famiglia, senza la quale non vi sarebbe nessuno perché non concepito oppure abbandonato? Si può considerare ideologica l’attenzione all’educazione, senza la quale non vi sarebbe trasmissione, “tradizione”, quindi progresso, dovendo cominciare tutto sempre da zero?» (G. Cantoni, A proposito di «libertà di coscienza» e di «politeismo»,in Cristianità, anno XXXV, n. 340, marzo-aprile 2007, pp. 3-4 [p. 4]).
(19) L. Pellicani, op. cit., p. 577.
(20) Giambattista Vico, Princìpi di Scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni (1744), Conchiusione dell’opera. Sopra un’eterna repubblica naturale, in ciascheduna sua spezie ottima, dalla divina provvedenza ordinata, in Idem, Opere, a cura di Andrea Battistini, Mondadori, Milano 1990, vol. I, p. 967.
(21) Gustave Thibon, Diagnosi, trad. it., Volpe, Roma 1973, p. 145 (n. ed., Ritorno al reale. Prime e seconde diagnosi in tema di fisiologia sociale, prefazione di Gabriel Marcel (1889-1973), a cura e con considerazioni introduttive di Marco Respinti, effedieffe, Milano 1998.