Alfredo Mantovano, Cristianità n. 234 (1994)
Perplessità sul metodo, sul merito e sugli scopi della proposta articolata dal pool Mani Pulite della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano in tema di reati contro la pubblica amministrazione. Ristabilire un rapporto equilibrato fra il potere politico e l’ordine giudiziario per porre fine all’emergenza iniziata nel febbraio del 1992.
Fra Potere Esecutivo e Potere Giudiziario
Per uscire da Tangentopoli: la magistratura al centro della politica?
1. In sé e per sé non desta scandalo che un gruppo di magistrati metta per iscritto proposte e suggerimenti relativi a settori di propria competenza, in ordine ai quali ritiene opportuno o necessario l’opera del legislatore, utilizzando l’esperienza professionale maturata sul campo, o esprima pareri su iniziative legislative in corso di approvazione: di fatto è accaduto più volte in passato, così come non è infrequente che, nell’iter di
formazione di una legge, taluni giudici, la cui opinione viene ritenuta di particolare interesse, siano consultati dalle commissioni parlamentari; in questi casi nessuno ha mai evocato il contrasto con la Costituzione o l’ingerenza di un potere nelle funzioni dell’altro. È però più che lecito domandarsi se s’inseriscano in questa prassi consolidata gli interventi pubblici di alcuni magistrati, in particolare dei componenti del pool Mani Pulite della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, succedutisi durante l’estate del 1994, relativi prima al decreto legge del Governo in materia di custodia cautelare, e poi alla «proposta di legge» elaborata dallo stesso pool su Tangentopoli. Trascurando per il momento il discorso riguardante il decreto legge, mi sembra opportuno centrare l’attenzione sulla seconda iniziativa, che ha portato alla pubblicizzazione della cosiddetta «proposta Di Pietro», dal nome del pubblico ministero-simbolo di Mani Pulite, il dottor Antonio Di Pietro, sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, perché questa, oltre a rivestire un indubbio interesse in ordine al merito del problema che intende affrontare, è emblematica sia per il metodo con il quale è stata posta la questione della ricerca di una via di uscita da Tangentopoli, sia per gli scopi che con la stessa si intendono raggiungere, e perciò permette di inquadrare, sia pure per cenni, il tema più ampio del ruolo della magistratura – soprattutto della magistratura inquirente – nel momento storico e politico che vive oggi la nazione.
Il metodo
2. La «proposta» è stata annunciata dal dottor Antonio Di Pietro sabato 3 settembre 1994 a Cernobbio, in occasione di un convegno su temi economici e finanziari; l’«esternazione» del più famoso magistrato italiano non ha avuto, diversamente da quanto sostenuto da buona parte dei mass media, i caratteri della novità assoluta; infatti risale all’estate del 1992 un suggerimento avanzato nella medesima direzione – pur se non altrettanto dettagliato – dal dottor Gherardo Colombo, anch’egli del pool milanese, il quale l’aveva sintetizzato nei seguenti termini: «Il Parlamento approva una legge che fissa un termine preciso, perentorio, diciamo di qualche mese. Entro quella data chi, politico o imprenditore, non ancora coinvolto nelle indagini, si presenta ai giudici, racconta tutto e restituisce i soldi o indica a chi li ha dati; chi si comporta così sarà esente da pena, non andrà sotto processo, anche se comunque dovrà essere interdetto, per un periodo di tempo ragionevole, dall’esercizio delle funzioni pubbliche. Per quelli che non lo fanno, si continuerà ad applicare la legge» (1).
Già in sé la scelta del convegno di Cernobbio per il lancio della «proposta» ha destato qualche perplessità, sia perché l’intervento del dottor Antonio Di Pietro è stato pronunciato sotto i riflettori di tutti i mezzi d’informazione, sia perché la platea dei suoi ascoltatori era composta più che da addetti ai lavori, da uomini politici e da imprenditori di rilievo nazionale e internazionale, inclusi personaggi non del tutto penalmente illibati, a cominciare dall’ingegner Carlo De Benedetti, condannato dal Tribunale di Milano a sei anni di reclusione per vicende legate al Banco Ambrosiano e plurindagato per le forniture di materiale informatico alle poste e alle ferrovie. Sulle rive del lago di Como si è ripetuto nella forma, al di là del merito delle soluzioni prospettate, un copione già recitato, da ultimo, nel mese di luglio del 1994, quando il consiglio dei Ministri aveva varato il decreto legge sulla custodia cautelare, e lo stesso dottor Antonio Di Pietro aveva convocato la stampa e aveva dichiarato la totale contrarietà del pool Mani Pulite a quel provvedimento legislativo, in tal modo condizionando pesantemente il Governo, che dopo qualche giorno, anche a seguito delle reazioni sollevate dall’intervento del pool, decideva di far decadere il decreto (2). Ma non si tratta di una questione esclusivamente formale: se, come si è detto, è più che legittimo che un magistrato esprima le sue opinioni su norme, già in vigore o prossime al varo, relative a settori di propria specifica competenza, si deve però riconoscere che non tutte le modalità di espressione sono equivalenti, perché vi è una notevole differenza fra la riservatezza del parere chiesto e/o dato dall’esperto nelle sedi istituzionali opportune e i proclami radiotelevisivi. E questa differenza è tanto più accentuata quanto più chi si presenta alla nazione è oggettivamente, al di là della proprie personali intenzioni, un personaggio nel quale l’immaginario collettivo identifica la versione anni Novanta del cavaliere senza macchia e senza paura.
3. Da Cernobbio e dalle attese che l’annuncio ha suscitato alla realizzazione dei propositi il passo è stato immediato; il 6 settembre, dopo due giorni di riunioni dedicate all’argomento, sono stati illustrati al pubblico non meri auspici o desiderata o suggerimenti, ma una vera e propria «proposta di legge» in 18 articoli, del tutto identica nella forma a quelle che costituiscono oggetto del lavoro ordinario del Parlamento: una «proposta» che è stata elaborata dai quattro pubblici ministeri del pool Mani Pulite – oltre al dottor Antonio Di Pietro e al dottor Gherardo Colombo, il dottor Pier Camillo Davigo e il dottor Francesco Greco –, sotto la supervisione del procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, dottor Francesco Saverio Borrelli, e da quattro illustri avvocati, tre dei quali sono al tempo stesso docenti universitari e difensori di indagati altrettanto illustri, i professori Federico Stella, Oreste Dominioni, Domenico Pulitanò e l’avvocato Massimo Dinoia. E anche qui la sensazione che qualcosa non abbia funzionato, suscitata dalla commistione fra accusatori e difensori volta a incidere sulla formazione di norme che interessano i clienti dei secondi, è stata istintiva e immediata, nonostante gli avvocati-docenti abbiano sostenuto di aver preso parte agli incontri esclusivamente nella veste di esperti della materia.
Quanto alla discrezione, chiunque ha potuto constatare che, benché i partecipanti all’incontro abbiano sottolineato che si è trattato di un consesso del tutto informale, i notiziari televisivi e radiofonici hanno dato più risalto alle riunioni nella stanza del dottor Antonio Di Pietro, negli uffici della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, rispetto a quella che nelle stesse ore teneva il consiglio dei Ministri ovvero alla Conferenza de Il Cairo, e che i pubblici ministeri e i professori-avvocati non si sono negati a interviste e a chiarimenti «minuto per minuto», mentre i lavori attorno al testo della «proposta» erano in corso. Anche in tal caso non ci si appiglia ai dettagli, ma si constata che il comportamento seguito ha avuto per l’ennesima volta le caratteristiche di un atto politico in piena regola da parte di un gruppo di magistrati, cui, per i meriti oggettivi di pubblici ministeri, ma pure per l’enfasi conferita alla loro azione dai mass media, la gente attribuisce il ruolo di salvatori della patria, e che hanno assunto l’iniziativa nel modo più clamoroso possibile.
È inevitabile che con quell’articolato il Governo e il Parlamento dovranno confrontarsi nell’immediato futuro con modalità diverse da quelle proprie di un’ordinaria discussione nelle sedi istituzionali adeguate, dal momento che gli autori della «proposta» hanno consegnato il testo alla pubblica opinione, quasi si trattasse dell’«ultima spiaggia», con ciò svolgendo nei fatti un’opera di condizionamento – non si sa se e quanto voluta – delle scelte di chi ha il compito istituzionale di formare le leggi. Una conferma di questo atteggiamento è venuta dal convegno di presentazione dell’articolato, che si è svolto il 14 settembre nell’Aula Magna dell’Università Statale di Milano, durante il quale il dottor Antonio Di Pietro ha concluso il suo intervento dicendo che «è ora di muoversi, di darsi una regolata. Altrimenti, a forza di discutere soltanto, il nostro Paese fa la fine di Sagunto: viene espugnato» (3). Di fronte a toni del genere, del tutto simili a quelli adoperati dagli altri autori della «proposta», che si sono aggiunti all’esperienza dello scontro frontale del luglio del 1994 relativa al decreto sulla custodia cautelare, diventa difficile dare torto al ministro di Grazia e Giustizia, on, Alfredo Biondi, quando ha osservato, a proposito dell’articolato, che «[…] se lo si approvasse così com’è, si direbbe che Governo e Parlamento sono succubi della magistratura; se lo si modificasse, si direbbe che i politici si contrappongono ai magistrati» (4).
Il merito
4. Nella cosiddetta «proposta Di Pietro» viene riformulato il reato di corruzione – che è stato quello contestato dai pubblici ministeri di Milano con maggior frequenza rispetto alla concussione –, il quale nel testo assorbe varie ipotesi di condotte illecite oggi previste in relazione a differenti gravità di condotte, mentre la concussione non ha più rilievo autonomo e diventa un’aggravante dell’estorsione. Non è un problema nominalistico: chi ha indebitamente versato denaro al pubblico amministratore ha la posizione processuale di parte lesa nell’ipotesi della concussione, mentre in quella della corruzione è correo, e si può quindi procedere nei suoi confronti e indurlo a riferire quanto sa, anche attraverso un uso improprio della custodia in carcere.
La pena della corruzione viene aumentata e oscilla da un minimo di 4 anni a un massimo di 12 anni di reclusione, mentre attualmente il minimo è di 2 anni e il massimo di 5 anni di reclusione; la custodia cautelare in carcere diventa obbligatoria, e non è più facoltativa, come nel regime in vigore. È introdotta la non punibilità per il corrotto e/o il corruttore che denunciano il fatto, «fornendo indicazioni utili per la individuazione dei responsabili» (5) e versando una somma pari a quanto ricevuto o corrisposto prima che la notizia di reato sia iscritta, e comunque nei tre mesi dal fatto; viene innalzato fino a tre anni di reclusione il limite di pena per fruire del patteggiamento. Ai condannati per corruzione viene inflitta la pena accessoria della incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, mentre chi è stato dichiarato non punibile in virtù della collaborazione prestata è esente da tale ulteriore sanzione, e tuttavia non può ricoprire cariche pubbliche elettive.
Vi è chi ha parlato polemicamente – ma la polemica non ha fatto allontanare dalla realtà – di una sorta di «legislazione domestica» (6), modellata sulla prassi seguita finora a Milano nelle indagini di Tangentopoli, che ha visto un uso largo della custodia in carcere, cui si è posto termine quando l’indagato, al quale quasi sempre è stata contestata la corruzione, ha confessato e ha accusato altri. E infatti, in base alla «proposta Di Pietro», l’indagato per corruzione andrebbe obbligatoriamente in cella, senza alcuna valutazione discrezionale circa le esigenze cautelari e la sua effettiva pericolosità, e in cella rischia di restare per anni, se nel frattempo il giudizio arriva a conclusione, a causa del notevole aumento delle pene, peraltro con la prospettiva, una volta uscito dalle sbarre, se è un imprenditore, di non poter più lavorare per gli enti pubblici; sì che è per lui più conveniente anticipare i tempi e «collaborare», ottenendo la completa impunità, soltanto mitigata dalla ineleggibilità a cariche pubbliche.
5. Al di là dell’influenza che sul merito della «proposta» ha esercitato senza alcun dubbio l’esperienza giudiziaria ambrosiana, la lettura del testo nella sua oggettività fa nascere non poche riserve. Dal punto di vista del diritto sostanziale va osservato che, pur se nella pratica è spesso difficile stabilire un confine netto fra la corruzione e la concussione – e ciò varia, fra l’altro, anche a seconda che la controparte del pubblico amministratore sia un piccolo imprenditore, ovvero il privato che rappresenta un grande gruppo industriale –, tuttavia esiste una differenza ben precisa fra le due condotte illecite, che impedisce di assimilarle, o comunque di marginalizzare la seconda riducendola al rango di aggravante dell’estorsione. L’esperienza degli ultimi anni avrebbe dovuto indurre, piuttosto che a omologare le condotte in un’ipotesi criminosa prevalente, a diversificarle ulteriormente; per esempio, si parla da tempo dell’opportunità di inserire nel codice penale l’ipotesi di reato della «concussione ambientale», della quale manca ogni cenno nella «proposta Di Pietro», anche se lo stesso dottor Antonio Di Pietro ne aveva in passato ripetutamente sollecitato la previsione, che si realizza quando il pubblico agente ottiene il denaro, piuttosto che con la costrizione, sfruttando l’altrui convinzione – determinata da situazioni ambientali – di non poter contare altrimenti su un trattamento imparziale.
Quanto all’entità delle sanzioni che si vorrebbero introdurre, giova ricordare che, di fronte alla prospettiva di punire corrotti e corruttori con la reclusione fino a 12 anni, la violenza carnale e la rapina semplice sono oggi sanzionate dalla reclusione da 3 a 10 anni: si tratta di condotte criminali differenti e non comparabili, e se – salve le particolarità dei casi concreti – questi ultimi reati rilevano sotto il profilo della maggiore pericolosità, il pubblico ufficiale corrotto manifesta sicuramente un grado di colpevolezza superiore, per la funzione che ricopre e per la responsabilità che gli è stata affidata, sì che un incremento sul piano sanzionatorio non è ingiustificato; e tuttavia giova ricordarlo per chiedersi se, dovendo aumentare la pena, non si è perso il senso della misura e si è davvero convinti che basta far crescere a dismisura le punizioni per vincere un costume radicato, che ha radici non arginabili soltanto con lo strumento repressivo: a meno che, anche in questo settore, si condivida la politica giudiziaria degli Stati Uniti d’America, in base alla quale, se non si riesce, a causa di un processo iniquo e inefficiente, a sottoporre a giudizio molti delinquenti, però quei pochi che vengono acchiappati devono pagare per tutti e in modo «esemplare» (7).
Ma, benché grave, non è questo l’aspetto più delicato; ciò che veramente allarma è l’elevazione della delazione a causa di non punibilità, nonostante ci si sforzi di sostenere che non si deve adoperare questo termine, bensì quello più soft di «collaborazione» (8): il che, quanto all’uso delle parole, è del tutto coerente con un ordinamento giuridico nel quale l’aborto si chiama «interruzione volontaria della gravidanza» e il divorzio «cessazione degli effetti civili del matrimonio». Non si possono stabilire confronti con la normativa in tema di pentiti di terrorismo o di mafia; infatti, vi è una differenza non trascurabile fra Cosa Nostra, le Brigate Rosse e Tangentopoli: a quest’ultima possono e devono ascriversi tanti mali, non però stragi né attentati, né omicidi, non quindi quella situazione di assoluta emergenza che ha reso inevitabili le misure eccezionali contro la delinquenza terroristica e mafiosa. Il riferimento a Sagunto, fatto dal dottor Antonio Di Pietro in occasione del convegno milanese sulla «proposta», non brilla per originalità; di Sagunto aveva parlato, affiancando il nome della città iberica a quello di Palermo, ed esortando le istituzioni a fatti concreti piuttosto che a vani discorsi, il card. Salvatore Pappalardo, arcivescovo del capoluogo siciliano, nel corso dell’omelia pronunciata ai funerali del generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso per mano mafiosa nel settembre del 1982: è un contesto comparabile con quello, pur serio e preoccupante, della bustarella e della mazzetta?
Con la delinquenza organizzata lo Stato ha ingaggiato un conflitto per certi aspetti simile a una guerra, se per un attimo si fanno scorrere nella memoria le immagini delle stragi di Capaci e di via D’Amelio e delle decine di omicidi di rappresentanti delle forze dell’ordine, di magistrati, di personaggi politici, di imprenditori e di sacerdoti, e se si riflette sugli effetti devastanti del racket delle estorsioni e della droga diffusa su larga scala dalla criminalità mafiosa; e proprio la gravità dell’offensiva criminale – lo ripeto –, che in alcuni momenti ha fatto vacillare la fiducia nella tenuta delle istituzioni, unitamente alla considerazione della struttura verticistica di una parte significativa delle organizzazioni criminose, in particolare di Cosa Nostra, ha reso necessario carpirne i segreti dall’interno, inducendo all’adozione di misure eccezionali, fra le quali le norme sui cosiddetti pentiti. Non va poi trascurato che, per i «collaboratori di giustizia» appartenenti alle associazioni mafiose, non è prevista alcuna causa di non punibilità, bensì, unitamente al riconoscimento delle attenuanti di ordine generale, l’avvio, per sé e per i familiari, di un «programma di protezione» e la fruizione di benefici di tipo penitenziario: in altri termini, il mafioso che si pente e collabora, oltre a sottoscrivere la propria condanna a morte e a rompere in modo definitivo con l’ambiente di provenienza, non ottiene alcun colpo di spugna, bensì soltanto un regime di espiazione della pena differenziato rispetto a quello degli altri condannati e tendenzialmente più «aperto»; e questo al contrario del mafioso che tiene duro, al quale si applicano restrizioni ulteriori nel regime carcerario.
Un ultimo dettaglio: la normativa antimafia, in quanto costituisce la risposta a una situazione di emergenza, hai caratteri della temporaneità, che sono espressamente sanciti con la fissazione di un termine di scadenza dell’operatività di certe disposizioni, anche se si può discutere sulla necessità di prorogare il termine stesso, in virtù della persistente pericolosità del fenomeno. Ora, se nessuno può negare l’estensione e il radicamento di condotte di corruzione e di abuso dei pubblici funzionari e dei loro complici, né la gravità degli effetti sul costume e sull’economia nazionale, non per questo il fenomeno può essere parificato a quello criminale mafioso, al fine di legittimare interventi legislativi di carattere premiale ancora più ampi rispetto a quelli adottati contro la delinquenza organizzata, a meno di non voler sostenere che la mazzetta è più deleteria della strage e che il controllo mafioso di intere zone del territorio nazionale pesa di meno rispetto al controllo degli appalti attraverso la corruzione.
6. Per comprendere i rischi insiti nell’introduzione della sequenza confessione-chiamata di correo o, comunque, accusa di terzi-impunità, giova anzitutto una considerazione di ordine generale, che riguarda il ruolo della delazione nel processo penale: istituzionalmente e fisiologicamente la delazione va gestita dal potere esecutivo per il tramite dei servizi segreti, e per questo è destinata a rimanere riservata e a collocarsi solo nella fase iniziale delle indagini, non già facendo ruotare attorno a sé tutto il giudizio; l’estensione del ricorso a essa può trasformare la delazione in un vero e proprio sistema. Gli effetti del passaggio, che a questo punto sarebbe non più solo eccezionale e temporaneo, della gestione della delazione da parte dell’esecutivo all’ordine giudiziario sono potenzialmente gravi anzitutto per lo stesso ordine giudiziario, che vedrebbe compromessa la propria posizione di terzietà e, al tempo stesso, avrebbe in mano un’arma pericolosa, non del tutto controllabile, di costante pressione sull’esecutivo; inoltre, in un sistema – come quello italiano – in cui l’indipendenza della magistratura è strettamente correlata all’obbligatorietà dell’azione penale, la rinuncia all’azione stessa, come premio per la delazione, metterebbe in forse tale indipendenza.
Mi spiego: in Italia il sistema di reclutamento dei magistrati, inclusi coloro che svolgono le funzioni di pubblico ministero, avviene prescindendo da criteri di tipo politico, e tutti i magistrati godono per questo di determinate garanzie di autonomia e di indipendenza; correlata a queste garanzie è l’assenza di discrezionalità e di disponibilità circa l’esercizio dell’azione penale: se Tizio ha commesso un reato, il pubblico ministero non può «contrattare» la non punibilità in cambio della collaborazione all’accertamento del fatto. Il riconoscimento di tale facoltà al magistrato inquirente gli farebbe assumere decisioni di rilievo politico prima che giuridico, relative ai rei e ai reati da perseguire e da sottoporre a giudizio ovvero da lasciare impuniti, senza tuttavia – in virtù delle garanzie di indipendenza costituzionalmente riconosciute – che queste scelte fossero sottoposte a valutazioni di ordine politico; la prosecuzione nel tempo dell’anomalia porterebbe inevitabilmente a dover scegliere fra la rinuncia a svolgere attività parapoliziesca, o addirittura da servizi segreti, ovvero – nell’ipotesi opposta – l’introduzione di una responsabilità politica del pubblico ministero, attraverso la sua subordinazione al potere esecutivo e il suo reclutamento secondo quelle modalità elettive che da tempo più d’uno auspica per realizzare il controllo politico di tale organo: e non è il caso di dilungarsi sulle numerose ragioni, condivise da gran parte dei magistrati, ma non soltanto da loro, che oggi in Italia sconsigliano questo esito (9). Invocare, a sostegno della «proposta Di Pietro», l’esperienza degli Stati Uniti d’America, dove «[…] si ricorre ampiamente alla concessione dell’immunità al teste coimputato, proprio per combattere la corruzione» (10), vuol dire accettare gli effetti appena illustrati, dal momento che negli States l’accusa pubblica è un organo di tipo politico, viene ordinariamente eletto, e risponde al proprio elettorato della politica di persecuzione dei reati che intende adottare.
Infine, per chiudere il discorso sulla valorizzazione estrema delle chiamate di correo, non occorre straordinaria immaginazione per pensare agli effetti che un regime di delazione avrebbe sul piano politico, in termini di attacchi e di vendette contro questo o quel personaggio concorrente, o comunque sgradito, e allo spazio che verrebbe aperto al mestiere dell’accusatore e/o del calunniatore, magari a pagamento, di pubblici amministratori o di uomini politicamente impegnati. L’Italia ha proprio bisogno di questa ulteriore qualifica professionale?
Gli scopi
7. Sono da contestare la tesi e la prassi secondo le quali in Italia le energie vanno spese per aggirare la legge e non per applicarla: esistono un codice penale e un codice di procedura penale, in virtù dei quali chi viola un precetto deve andare incontro alla sanzione, previa celebrazione di un processo che accerti la sua responsabilità; si obietta che i processi contro corrotti e corruttori sono tali e tanti che, per svolgerli tutti, occorrerebbero decenni, sì che la «proposta Di Pietro» consentirebbe, fra patteggiamento allargato e non punibilità per chi collabora, di risolvere le pendenze con una certa rapidità. Può replicarsi chiedendo anzitutto se si è fatto un serio monitoraggio per accertare la veridicità dell’assunto e le cause reali della mancata celebrazione dei giudizi: infatti, vi sono tribunali nei quali i processi sono svolti regolarmente e celermente, in virtù del sacrificio dei giudici e di un calendario per sezione di 4-5 udienze alla settimana, che terminano alla sera; ve ne sono altri nei quali, poiché si lavora al ritmo di due udienze settimanali che terminano alle ore 13, la formazione dell’arretrato è un esito costante e prevedibile. Può aggiungersi che: a. a voler mettere mano alle norme, taluni accorgimenti tecnici, che includono l’eliminazione di inutili formalismi presenti nella procedura penale, faciliterebbero i tempi dell’accertamento processuale (11); b. non tutti gli uffici giudiziari sono muniti della strumentazione tecnica adeguata – dalla stenotipia alla registrazione con trascrizione contestuale – per accelerare i dibattimenti; c. talora la lunghezza dei giudizi dipende anche da una strategia processuale che non privilegia la sintesi, dilatando il dibattimento oltre i confini del fatto specifico sottoposto all’attenzione del giudice: basta pensare, per fare un esempio fra i tanti, a come è stato impostato il «processo Cusani». Risponde comunque a logica cercare gli strumenti per fare i processi, piuttosto che quelli per non farli.
Ora, se il fine – come sembrava fosse in un primo momento – è quello di chiudere velocemente i processi di Tangentopoli, l’approvazione della proposta ambrosiana non solo non porterebbe alcun contributo in questa direzione, ma, al contrario, dilaterebbe le indagini, e quindi i processi, in modo incontrollabile. Forse non tutti ricordano che la confessione e la chiamata di correo vanno verificate; lo prescrive in modo chiaro l’articolo 192-3° comma del codice di procedura penale, in base al quale «le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso […] sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità»: in altri termini, per espressa disposizione di legge, vanno cercati i riscontri esterni alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia, in mancanza dei quali la parola di costui è in sé inidonea a costituire prova in senso proprio. Ciò vuol dire che alla delazione corrisponde non già la chiusura bensì l’apertura di nuove indagini; né può escludersi l’eventualità che, in vista dell’impunità ma al fine di non essere privato dell’intero compendio di una pregressa attività delittuosa, chi «collabora» dichiari di aver percepito dieci invece che mille, con ulteriori interminabili complicazioni.
Inoltre, l’intento di chiuderei processi a ogni costo può costituire fonte di ingiustizie; il che vale soprattutto con riferimento all’ampliamento, contenuto nella «proposta», del ricorso al patteggiamento fino al limite dei tre anni di reclusione. Questo rito alternativo consentirebbe realmente di definire in modo più celere i giudizi, ma al prezzo – la cui convenienza è tutta da valutare – di concedere uno sconto di pena assai sensibile a chi si è reso responsabile di condotte gravemente contrarie alla legge, e contemporaneamente di incidere sulla strategia processuale di chi invece si ritiene innocente: quest’ultimo, per il quale il dibattimento rappresenta il momento decisivo – nel contraddittorio fra le parti – per far emergere la propria estraneità rispetto alle accuse rivoltegli, verrebbe pesantemente condizionato dalla possibilità offertagli di uscire dal processo con un abbassamento della pena, di fronte al timore di affrontare il giudizio e di essere condannato a una pena ben più elevata.
E tuttavia, in occasione del convegno all’Università Statale di Milano, il dottor Antonio Di Pietro ha tenuto a precisare che il problema non è costituito dai processi, che in realtà – anche a suo dire – si fanno e si faranno; il problema, volendo riportare le sue parole testuali, è piuttosto che «se non si ridà efficienza alle imprese, e oserei dire ancor più alla politica, si rischia la bancarotta; non solo economica, ma anche istituzionale» (12).
Par di capire, se posso tentare l’interpretazione, che l’esigenza principale alla base della «proposta» sia quella di chiudere con Tangentopoli facendo emergere tutte le responsabilità ancora nascoste e, una volta realizzata la purificazione collettiva e generalizzata, ripartire da zero in un clima di ritrovate trasparenza ed efficienza economiche e politiche; che si tratti di una illusione, che richiama alla mente lo slogan sessantottino – aggiornato al 1994 – del «distruggere tutto per ricostruire tutto» è, a mio avviso, dimostrato dal fatto che, sotto un profilo pratico, come si è appena sottolineato, alla realizzazione della «proposta» corrisponderebbe un diluvio di indagini e di fascicoli processuali. Sotto altro profilo, si commenta da sé il pensiero di eliminare la corruzione dalla vita quotidiana con il solo – e pure importante – strumento legislativo: si è davvero convinti che basta lo spauracchio delle sanzioni elevatissime e della delazione generalizzata per scoraggiare e togliere di mezzo in modo definitivo comportamenti antichi quanto il mondo? Ciò non significa, ovviamente, rassegnarsi a un sistema che è stato concausa, prima ancora che di danni economici, di una profonda demoralizzazione della vita pubblica; bensì solo prendere atto che la tendenza al male può essere scoraggiata, arginata, ma non certo sradicata, e soprattutto attraverso norme di diritto positivo.
Politica e giustizia: riscoprire il rispetto dei ruoli e i confini delle competenze
8. È un dato di fatto che, a partire dalla fine degli anni Sessanta e in misura crescente nei decenni seguenti, la magistratura ha scoperto un ruolo di giustizia, intesa in senso lato, e quindi anche – in qualche modo – di giustizia sociale, che non infrequentemente l’ha condotta oltre limiti istituzionali del proprio ambito specifico; si è trattato di un ruolo svolto in larga parte dalla magistratura penale – più che dai pubblici ministeri, dai pretori, nelle cui competenze, fino al 1989, vi era pure, com’è noto, l’iniziativa dell’azione penale –, ma al quale hanno collaborato anche settori della magistratura del lavoro e civile, quest’ultima con i provvedimenti cosiddetti «di urgenza». È possibile seguire negli anni Settanta, e ancora di più negli anni Ottanta, i percorsi paralleli da un lato del progressivo decadimento della classe politica, soprattutto di quella al governo, incapace di affrontare e di risolvere i problemi di propria competenza e nel contempo impegnata nella gestione affaristica e corrotta della polis, dall’altro dell’altrettanto progressivo ampliamento dell’opera di supplenza della magistratura e del tentativo di sanzionare i comportamenti deviati dei politici.
Va fatta una distinzione, pur nella connessione spesso in concreto esistente, fra la supplenza e la punizione delle condotte illecite; l’intervento della magistratura in settori non di stretta competenza è dipeso sia dall’inerzia colpevole delle amministrazioni pubbliche su fronti importanti e socialmente rilevanti, quali l’urbanistica, l’ambiente, la sanità, l’igiene pubblica, sia dall’insoddisfazione della gente che, di fronte all’incapacità e/o all’impossibilità pratica, in assenza di alternative serie, di punire l’amministratore omissivo e ignavo servendosi di strumenti politici, ha individuato nel giudice il soggetto che, brandendo la clava della sanzione penale, potesse indurre il potere politico, soprattutto quello periferico, a comportamenti di maggior presenza ed efficienza. Non sempre i magistrati sono stati in grado o hanno inteso resistere alle istanze di intervento oltre i propri limiti, e anzi taluni esponenti della magistratura associata – in particolare della «corrente» di sinistra, Magistratura Democratica – sono arrivati a teorizzare la stessa supplenza.
Tutto questo ha avuto effetti di non poco conto, perché ha portato in più casi a far assumere ai giudici improprie responsabilità sostanzialmente politiche, o quanto meno di indirizzo politico, di fatto provocando, oltre le intenzioni soggettive, oggettive distorsioni al tempo stesso dei meccanismi della politica e di quelli giudiziari. L’ambito politico ha finito per essere sempre più condizionato dalle iniziative dei pretori e/o dei pubblici ministeri; talora sono stati sufficienti un sequestro giudiziario o un’informazione di garanzia per far cadere questa o quella giunta locale; si è diffuso, da parte dei personaggi impegnati in politica, il pessimo costume di affrontare i problemi non già nella sede istituzionale propria, servendosi dei meccanismi a essa connaturali, bensì di tentare la scorciatoia della denuncia al procuratore della Repubblica o, in passato, al pretore – ovviamente pubblicizzata in tutti i modi – al fine di delegittimare l’avversario, ottenendo i risultati, tutti negativi, di paralizzare l’azione politica e amministrativa, di rinviare la soluzione dei problemi, e di far crescere in modo improprio il credito della magistratura nella pubblica opinione; il magistrato, d’altra parte, occupandosi con troppa frequenza di affari non di sua pertinenza, ha di fatto contribuito alla deresponsabilizzazione dei politici e ha distolto energie preziose dalla trattazione di quanto a lui specificamente e istituzionalmente demandato.
9. Come tutti sanno, questo sistema perverso non ha recato alcun vantaggio all’onestà pubblica e alla rettitudine dei politici, perché la persecuzione e la repressione delle condotte realmente e gravemente illecite o è stata disturbata dalla frammentazione delle iniziative dettate dall’esercizio della supplenza, o ha incontrato la resistenza di una classe politica che in passato ha bloccato o ha contenuto le istruttorie più serie con intimidazioni di ogni tipo – basta ricordare per tutte il referendum «per una giustizia giusta», celebrato nel 1987 con il chiaro intento di delegittimare la magistratura (13) –, o è stata inquinata dal sospetto e/o dall’illazione che l’azione giudiziaria mascherasse intenti partitici, o, ancora, è stata di fatto impedita dalla volontà di taluni magistrati, ideologicamente condizionati, di indirizzare le istruttorie relative a episodi criminosi particolarmente efferati, talora di matrice terroristica, esclusivamente su piste politicamente sgradite. Con questi precedenti l’esplosione di Tangentopoli è stata salutata dai più – soprattutto dagli onesti – con enorme favore, perché ha smentito il mito dell’intangibilità di un sistema che è cresciuto e ha prosperato anche sulla corruzione, ha fatto emergere il marcio a tutti i livelli, ha contribuito a liberare in campo economico energie emarginate e compresse dai meccanismi delle mazzette, ha iniziato a convincere che la disonestà non paga; nell’opera repressiva iniziata a partire dal 1992 non sono mancati gli eccessi, gli abusi, gli arbitri, frutto talora di improvvisazione, talaltra di ansia emulativa e di desiderio di rapida pulizia. Né sono mancati i trattamenti all’insegna della parzialità, dei quali in più sedi giudiziarie hanno fruito esponenti politici ex comunisti, o comunque del mondo economico e finanziario vicino al Partito Democratico della Sinistra.
Oggi, dopo che la bufera giudiziaria ha falciato una quantità incredibile di uomini politici, spesso illustri e una volta potenti, provocando effetti dirompenti sul piano politico e anche di governo, si avverte la necessita di un riequilibrio fra i diversi poteri dello Stato; fermo restando che chi ha sbagliato e ha seguito condotte illecite non può esimersi dal risponderne penalmente, senza amnistie palesi o mascherate, ma anche senza rigorismi oltre misura, è indispensabile che la politica e l’ordine giudiziario ritrovino ciascuno il ruolo e l’ambi- to operativo di rispettiva competenza, evitando le reciproche interferenze. La politica ha bisogno di riscoprire, unitamente alla correttezza dei comportamenti dei suoi protagonisti, il senso della responsabilità delle scelte di lungo respiro, che non possono risolversi nella mera amministrazione del quotidiano e non devono essere condizionate da estemporanee iniziative giudiziarie; la giustizia ha bisogno di dismettere i panni impropri di chi esercita una sorta di controllo sui politici o un potere di indirizzo politico, per dedicarsi a ciò che le compete, e cioè – di fronte alla consumazione di un reato o in presenza di una controversia di ordine civile – alla riaffermazione del diritto ove questo sia stato violato.
Alfredo Mantovano
Note:
(1) GHERARDO COLOMBO, Parlate e sarà condono, intervista a cura di Leo Sisti, in L’Espresso, anno XXXVIII, n. 30, 26-7-1992, pp. 14-15 (p. 14).
(2) Questo non impedisce di condividere buona parte delle riserve avanzate sui contenuti del decreto legge, a cominciare dall’aprioristica eliminazione della misura coercitiva della custodia cautelare in carcere per tutti i responsabili di reati contro la pubblica amministrazione.
(3) Avvenire, 15-9-1994.
(4) ALFREDO BIONDI, «Delazione non fu giustizia», intervista a cura di Angelo Ciancarella e Marco Palocci, in Il Sole-24 Ore, 7-9-1994.
(5) Così si legge all’articolo 10 della «proposta»: cfr. il testo integrale dell’articolato, in Il Sole-24 Ore, 7-9-1994; e in ItaliaOggi, 7-9-1994.
(6) ENNIO AMODIO, La voglia matta di codificare il rito di accusa ambrosiano, in Il Sole-24 Ore, 8-9-1994.
(7) Nel mese di agosto del 1994 il Senato degli Stati Uniti d’America ha approvato un insieme di norme contro la delinquenza, denominato Crime bill, che prevedono, fra l’altro, la punizione con la pena di morte per sessanta differenti titoli di reato e il carcere a vita per chi sia stato condannato per tre volte per delitti ritenuti gravi, indipendentemente dal cumulo delle pene riportate con le tre condanne: cfr. Il Sole-24 Ore, 27-8-1994.
(8) Cfr. GHERARDO COLOMBO, «Famosi, ma non politici», intervista a cura di Guido Tiberga, in La Stampa, 13-9-1994.
(9) Cfr. i miei La giustizia negata. L’esplosione della criminalità fra crisi dei valori ed emergenza istituzionale, Cristianità, Piacenza 1992, pp. 96-99; e Giustizia a una svolta. Verso il ricupero o verso il tramonto della legalità?, Cristianità, Piacenza 1993, pp. 121-127.
(10) FEDERICO STELLA, Corruzione diffusa, Stato criminale, in Il Sole-24 Ore, 15-9-1994.
(11) Qualche interessante suggerimento in proposito può leggersi in UBALDO NANNUCCI, Una proposta di modifica «ragionata» del codice di procedura penale, in Documenti Giustizia, n. 5, maggio 1993, coll. 765 774.
(12) Il Sole-24 Ore, 15-9-1994.
(13) Cfr. MAURO RONCO, Giustizia, classe politica e magistratura, Cristianità, anno XV, n. 152, dicembre 1987.