Perché chi ama davvero sa soffrire e sperare anche di fronte ad un cattivo esercizio della libertà
di Michele Brambilla
L’udienza del 13 agosto mette a fuoco la figura di Giuda Iscariota. I discepoli si erano appena seduti a tavola per l’Ultima Cena quando Gesù annunciò che «in verità io vi dico: uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà» (Mc 14,18).
Per Papa Leone XIV sono sicuramente «parole forti», ma ritiene fondamentale sottolineare che «Gesù non le pronuncia per condannare, ma per mostrare quanto l’amore, quando è vero, non può fare a meno della verità». A Lui nulla è nascosto, fin dall’inizio (tanto che molti, nei secoli, si sono chiesti perché mai avesse scelto anche l’apostolo traditore), ma non nega a Giuda la possibilità di una conversione in extremis. Il Signore è sempre stato sincero con tutti i suoi interlocutori. Anche noi pretendiamo lo stesso dai nostri amici o da coloro che sono in qualche modo in rapporto con noi, ma molto spesso reagiamo con il rancore al minimo “sgarro”.
Gesù non ha covato odio verso Giuda, o verso i legionari che lo inchiodarono alla croce, per cui la domanda «“Sono forse io?”»(Mc 14,19) «è forse tra le più sincere che possiamo rivolgere a noi stessi. Non è la domanda dell’innocente, ma del discepolo che si scopre fragile. Non è il grido del colpevole, ma il sussurro di chi, pur volendo amare, sa di poter ferire. È in questa consapevolezza che inizia il cammino della salvezza», perché comprendiamo di essere stati amati con un Amore che supera di gran lunga le nostre considerazioni umane. Il Papa ribadisce che «Gesù non denuncia per umiliare. Dice la verità perché vuole salvare. E per essere salvati bisogna sentire: sentire che si è coinvolti, sentire che si è amati nonostante tutto, sentire che il male è reale ma non ha l’ultima parola», infatti «la reazione dei discepoli non è rabbia, ma tristezza».
Il primo a rattristarsi è proprio Gesù. Il suo “guai” rivolto a Giuda, che in greco «suona come un lamento, un “ahimè”», è in realtà «un’esclamazione di compassione sincera e profonda», il che ci porta a riflettere sul fatto che «noi siamo abituati a giudicare. Dio, invece, accetta di soffrire. Quando vede il male, non si vendica, ma si addolora. E quel “meglio se non fosse mai nato” non è una condanna inflitta a priori, ma una verità che ciascuno di noi può riconoscere: se rinneghiamo l’amore che ci ha generati, se tradendo diventiamo infedeli a noi stessi, allora davvero smarriamo il senso del nostro essere venuti al mondo e ci autoescludiamo dalla salvezza». Ma è proprio nel “punto più nero” che «la luce non si spegne. Anzi, comincia a brillare. Perché se riconosciamo il nostro limite, se ci lasciamo toccare dal dolore di Cristo, allora possiamo finalmente nascere di nuovo». Infatti «la fede non ci risparmia la possibilità del peccato, ma ci offre sempre una via per uscirne: quella della misericordia». Possiamo potenzialmente tradire la fiducia di Dio nei nostri confronti, ma, con l’aiuto della Grazia, siamo sempre noi «a raccoglierla, custodirla, rinnovarla». Proprio per questo, come fa notare il Pontefice, Cristo non ha esitato a porgere il pane eucaristico anche a Giuda.
L’amore misericordioso di Cristo si è visto in azione nella biografia di molti santi. Leone XIV rammenta ai pellegrini polacchi che si avvicina la memoria liturgica del “loro” san Massimiliano Maria Kolbe (14 agosto), che donò la sua vita per amore, come Gesù. «Vi incoraggio a prendere esempio dal suo eroico atteggiamento di sacrificio per l’altro. Per sua intercessione, supplicate Dio di donare la pace a tutti i popoli che vivono la tragedia della guerra», dice il Papa, collegando passato e presente della loro patria e della Chiesa universale.
Il giorno dopo, 15 agosto, sarà la solennità dell’Assunzione di Maria: anche la Madonna ci aiuti ad «accogliere pienamente la vocazione alla “familiarità” con Dio e alla sollecitudine verso ogni uomo».
Giovedì, 14 agosto 2025
